La morte dei nonni

«Lontano / dalla martire terra dei suoi padri / egli seppe divenire / con la dura fatica del pioniere / maestro insigne della medicina»: la Bambina compitava allegra le frasi del santino funebre del nonno, scritte da papà Khayël con eleganza non priva di qualche incertezza.

Ci ha messo molto tempo a scriverlo, un pomeriggio intero. «Se papà non mi avesse costretto a fare medicina, io sarei diventato un letterato, come mio fratello» è una delle frasi preferite di papà, «ma Wart assolutamente non ha voluto, e così è toccato a me». Se qualcuno le chiedesse il suo parere, pensa la Bambina, è molto più affascinante un papà chirurgo che un “letterato”, che poi cosa vuol dire? Uno che scrive lettere? Certo papà ha moltissimo rispetto per la posta, e quando nonno Carlo le manda cartoline da Roma, gliele consegna solennemente, dicendo: «È posta tua, vedi che non la leggo neanche?». Ma la Bambina non si fida molto di questo, perché si è accorta che papà conosce tutto quello che scrive il nonno.

Il cartoncino avorio con la Madonna bellissima della chiesa di San Gaetano sulla prima pagina le piace molto. E così impara che nonno Yerwant è nato nel 1865 a Kharpert, quella piccola città misteriosa di cui lui le ha raccontato tante cose, quando le parlò sotto i glicini.

Sente quel profumo dalla finestra aperta – è maggio – della stanza dove il nonno è disteso, immobile, col viso bianchissimo e un pochino di barba che è cresciuta dopo la sua morte, le spiega mamma Vittoria, «come le unghie, sai, che crescono anche ai morti».

L’idea di unghie mostruose come quelle lunghissime, ritorte, del fachiro che le ha mostrato sghignazzando Hrayr il trotzkista, sperando di spaventarla (ma suo fratello Arshavir, il maggiore, gli ha dato uno scappellotto e ha chiuso il libro), le fa pensare a cimiteri brulicanti di unghie selvagge che crescono su eserciti di mani senza padrone. La cosa la diverte molto, e pensa di raccontarla con molti orrendi particolari a fratelli e cugini.

Ma il nonno non c’entra. Lui è tornato nel Paese Perduto, dalla sua mamma Iskuhi, la principessina. Certo, pensa la Bambina, ha portato con sé il suo bastoncino per i sentieri del cielo, ha attraversato quelle enormi distese di sabbia di fango e di ossa che tante volte le ha raccontato. E una volta si è anche messo a piangere, ricorda la Bambina rabbrividendo. Certo ormai lui e Sempad, Shushanig e la bella sorellina Azniv dal geranio alla tempia bevono il tè insieme, e il fresco tan, all’ombra delle rose del giardino di Laggiù – e dei glicini.

Ma la mattina del giorno dopo, al funerale, c’erano i bambini degli Orfanotrofi Riuniti vestiti tutti uguali, con una specie di grembiulino nero, e si disposero in fila sulla sinistra. A destra, entrarono silenziose in perfetto ordine, le sordomute della Fondazione Valmarana di Noventa, e si disposero in circolo attorno alla famiglia. Lei era in prima fila, col cappottino blu e il colletto di velluto, e frettolose scarpe nere, troppo grandi, che mamma Vittoria aveva avuto in prestito da una delle sue cugine. Quelle di Paola e Claclo erano marroni, la mamma non aveva trovato altro, «e comprare scarpe apposta per il suo funerale, il nonno non l’avrebbe proprio voluto!» ha detto con aria di sfida a zia Henriette.

Zio Wart, zia Renate e i cugini di Milano erano accanto a loro; dietro, altri parenti, altri cugini; e poi una folla immensa, che stipò la chiesa all’inverosimile. Ma davanti, nel breve spazio intorno all’altare, ecco – insieme al parroco di Santa Sofia e ad altri monsignori – l’Abate di San Lazzaro nei suoi paramenti splendenti che celebrava il ritorno a casa di nonno Yerwant.

Intorno a lui, le voci profonde dei seminaristi armeni. Per la prima volta la Bambina sentì i maestosi canti della messa armena, le strazianti lamentazioni sul ritorno delle anime, il possente Der Voghormià (Dio abbi pietà), il canto nostalgico della Comunione. E insieme, sovrapposti in un modo che non le sarà più possibile disgiungere, il grandioso Dies irae cantato da tutti quei bambini, che pareva venir fuori da ognidove nell’enorme chiesa rotonda, con le grandiose statue di santi che sembravano uscire dalle loro nicchie, ciascuno brandendo un simbolo della sua fede o del suo martirio.

Tutte quelle voci forti e armoniose, infantili e adulte, la trasportarono nel mondo della volontà canora, della gioia di cantare a pieni polmoni. Oltre che fare l’archeologa, mi piacerebbe proprio essere una cantante, e far commuovere la gente, pensò, mentre lacrimoni di felicità le correvano giù per le guance; ma poi pensò alle battute ironiche che papà e zio Wart facevano sul mondo dei cantanti in genere, e sul loro cugino il tenore Zaccarini, che aveva scorciato il nobile nome dei Buzzaccarini quando aveva cominciato a “calcare le scene”, per non far vergognare i suoi genitori. E mentre così rifletteva, le si avvicinò una signora mielosa che disse: «Che brava Bambina, piange per il suo nonno», e lei tentò di dire di no, non fu creduta e si arrabbiò moltissimo.

Così tramontò l’idea di fare la cantante; ma cantare canzoni ancora oggi le piace infinitamente, la scalda, è qualcosa che le dà gioia e coraggio.

La casa nuova è quella di prima bombardata, che mamma Vittoria ha ricostruito e restaurato. Meglio: ha salvato solo il salone, che era rimasto in piedi, come la stanza da letto grande e lo studio di papà coi mobili chiari, le librerie con le antine scorrevoli di vetro, la ribaltina con il dipinto di Morato sul davanti. Alla Bambina quella stanza piace tantissimo: dà sull’angolo della strada con la piazzetta del Tribunale, ha grandi finestre da tutti e due i lati, è piena di carte misteriose. Due macchine da scrivere, che papà usa con un dito, un cestino per la carta straccia grande, rettangolare, dove ci si può quasi nascondere dentro, un portariviste a stecche rotonde che si apre e chiude a scatto, che papà ha scassato a furia di infilarci dentro riviste che non leggerà mai.

«Quando pensi di svuotare quel cimitero degli elefanti?» ride la bella Vittoria e siccome è di buon umore, aggiunge, con un ghignetto pensato apposta per far ridere gli ospiti: «Ci hai ficcato dentro perfino le mie riviste di moda». E tira fuori, trionfante, “Elle” e “L’Officiel de la Couture et de la Mode de Paris”, un volumone pieno di foto di vestiti che compra ogni anno a Parigi.

In ottobre, lei e Khayël vanno a Parigi per una settimana, senza figli, per carità. Vanno all’Hotel Louvois, che è centrale e discreto; lui ha sempre un congresso medico di qualche tipo, oppure va con i colleghi in sala operatoria, propone nuove tecniche, impara, discute, si diverte. Ha mani piccole, tonde e abilissime nel suo mestiere, che la Bambina ha ereditato (ma con scarsa abilità manuale, anche se imparerà bene il punto croce).

Vittoria ritorna dalla sua settimana parigina rinfrescata e piena di nuova energia, con la mente ricolma di idee, soprattutto di “imprese murarie”: chiama subito il fido ingegner Mansutti, il mite falegname Bedorin dalla lenta parlata, che va persuaso con le buone, piano, a fare le cose, l’elettricista, l’idraulico. Nessuno è al riparo dal suo attivismo frenetico, e in pochi giorni ecco concretizzarsi le nuove idee: una terrazza grandissima, la serra per le azalee e i rododendri fra la terrazza e il salotto sulla strada, sfondando la parete e mettendoci due enormi lastre di vetro che si rispecchiano l’una nell’altra, la zona notte che borda la terrazza dall’altro lato, con la stanza dei maschi e quella delle femmine. Il bagno in fondo al corridoio, che dà sul giardino, non basta se – come lei annuncia a tutti – la stanza grande sul giardino è destinata ai nonni di Roma, i suoi genitori, che Vittoria vorrebbe con sé (anche se loro, nel vecchio comodo appartamento di via Nomentana 60, stanno benissimo e non si sognano di muoversi).

Così fa fare un piccolo bagno in quella stanza, con infiniti problemi perché non si sa dove far passare le tubature, che alla fine sporgono sul giardino con effetto – dice papà, che è stufo di pagare – molto antiestetico. E tuttavia, nessuno resiste davvero a Vittoria.

Ma questo avverrà anni dopo. Inizio di gennaio del 1949: Carlo e Virginia, i nonni di Roma, hanno passato il Natale con noi, ma il nonno si è preso una brutta infreddatura, e decide di restare a Padova qualche giorno di più. Virginia è partita, ansiosa di stare almeno per la Befana con i figli e i nipoti romani, di aprire con loro i pacchetti dei doni, di trascorrere il giorno di festa nella trattoria di Montecompatri sui Colli Albani, mangiando buone cose in santa pace, senza essere intimidita dall’austera dieta del genero armeno (pastasciutta rosa e bistecchina, poi un’arancia e un cucchiaino di marmellata) che un po’ la mortifica.

Nonno Carlo invece non bada agli altri. Mangia alla mattina il suo uovo alla coque col pane abbrustolito in cucina, chiacchierando con la Gigia, poi fa una passeggiata in centro, beve un caffè, legge il giornale e aspetta che i nipoti tornino da scuola, specialmente la Bambina, la prima, l’amata piccola che tanto somiglia alla sua Vittorietta. Quando lui è lontano, a Roma, si scrivono cartoline educate e affettuose. Lei lo ricambia, lo vede alto e forte e completamente innamorato di lei. Il nonno fa tutto quello che lei vuole: la leggenda famigliare dice che quando la Bambina aveva tre mesi e Vittoria non aveva più latte, e la piccola piangeva molto di notte, la portò a Susin dal nonno che – in camicione lungo fino ai piedi – la teneva in braccio cullandola, avanti e indietro per ore, mentre la madre dormiva saporitamente.

La Bambina è molto soddisfatta di avere un così grande potere su di lui, e già si immagina cresciuta, col nonno e gli zii aviatori che le insegnano a pilotare un aereo, oppure – questo le piace ancora di più – la portano in giro per il cielo, dovunque lei voglia.

Essendo già partita la nonna, il nonno è tutto per lei, e lei non è tenera, anzi; è autoritaria e capricciosa, e a nonno Carlo, che ha combattuto nella Grande Guerra e ha anche molte medaglie, non si sogna neppur vagamente di mostrare il rispetto emozionato che provava per l’altro nonno, Yerwant l’armeno.

Ma ecco, lui torna a Roma. Sta meglio, il raffreddore è passato, e là ha tante cose da fare. Vittoria lo prega di restare ancora qualche giorno, e la Bambina gli fa un broncio, ma lui resiste, si stacca dalle sue amate ragazze (Vittoria è nata dopo tre figli maschi, è il suo occhio destro) e parte. Ha promesso di tornare per Pasqua, per l’inizio della primavera.

La notte del 29 gennaio una scossa improvvisa sveglia la Bambina, immersa come sempre in un sonno di piombo. È papà Khayël che la scuote con forza, con disperazione: «Vieni dalla mamma» le dice tutto in affanno, «non so cosa fare, forse tu puoi calmarla. Sono le quattro, pensa, le quattro, e sono due ore che è così, da quando ha telefonato zio Brando da Roma. Il nonno è morto».

È la prima volta che la Bambina sente la morte come un’offesa personale che la riguarda. Ha già visto i cadaveri di altri due nonni senza esserne molto impressionata. L’hanno sollevata per baciarli per l’ultima volta, ha contato molti “Eterni Riposi”, perché sa che più ne dice, più svelto sarà il viaggio verso l’aldilà. Ma nonno Carlo non doveva morire, le aveva promesso di tornare per Pasqua. E tuttavia non c’è tempo di pensare, papà la tira per un braccio e la spinge in camera, nella stanza da letto che a Vittoria non piace più, e dove ha progettato di mettere un salotto e il grande quadro che stava appiccicato sul soffitto della stanza verde nella casa di nonno Yerwant. Ma per il momento papà e mamma ci dormono ancora, anche se una parete è già coperta di teli di plastica per fare spazio alla nuovissima serra.

Vittoria è là sul letto, tutta raggomitolata, con la faccia sporca di moccio e di lagrime, che grida: «Non mi toccare, non mi toccare», e poi si rotola di traverso al letto, come una molla, ossessivamente. E poi grida: «È tutta colpa tua se papà è morto. Papà è morto, com’è possibile, è tutta colpa tua», e mentre Khayël, pallido, sta piangendo anche lui in un angolo, continua a voce altissima: «Sì, è colpa tua, io non lo volevo quest’altro bambino qui dentro», e si picchia coi pugni la pancia, strillando.

La Bambina non sa cosa fare anche se sa benissimo come nascono i bambini, perché Vittoria è sempre stata molto precisa nelle spiegazioni. Vorrebbe ancora dormire, ma capisce che tocca a lei agire, e si sente molto importante. Allora si arrampica sul letto, cercando di rimanere fuori portata dai bruschi movimenti della mamma, allarga le gambette robuste e con tutta la forza che ha mette le mani una per parte sulle orecchie di lei e comincia a stringere. È la sua idea per cullarla; poi scivola in avanti con le gambe e riesce a fermarle la testa e a passarle le mani sulle guance bagnate, come se fosse più forte di lei.

E Vittoria sente la sua forza fredda. La Bambina ha messo da parte la sua agitazione e il suo senso di vuoto. L’amore per nonno Carlo, decide allora che non vuole più mostrarlo a nessuno, e promette a se stessa che non lo farà mai. Da quel momento, e per molti anni, dimenticherà l’altro nonno, il vecchio armeno, e dirà a se stessa che è Carlo che amava, costruirà su di lui tutta una sua personale leggenda.

Quella stessa mattina, papà Khayël, Vittoria e lei prendono l’aereo da Padova per Roma, e alle undici dello stesso giorno sono in via Nomentana. È una giornata gloriosa di sole accecante, di tepore, di vita. Vittoria adesso sembra calma, anche se respinge i goffi tentativi di abbraccio che Khayël continua a fare, chiamandola col suo nomignolo segreto, Pussy, che la Bambina francamente detesta, le pare di guardare da un buco di serratura. Il nonno giace nel suo studio, disteso su una tavola coperta da una tela di broccato scuro, e nessuno, capisce la Bambina, nessuno lo può risvegliare.

Papà va in cucina a prendere un caffè e un bicchiere della famosa Acqua Marcia, freschissima, dal rubinetto speciale in un angolo del grande lavello di marmo. Mamma Vittoria si butta piangendo sul corpo del padre, subito accorrono fratelli e parenti che sono di là, nel grande salotto a conversare con quei toni flebili sussurrati e sommessi che il lutto impone, fazzoletti in mano e visi marmorei, di circostanza. Tutti in circolo attorno alla nonna che siede dignitosa e come assente, si alzano insieme di scatto, vanno a sollevare Vittoria prostrata, la abbracciano, le danno colpetti giudiziosi sulle mani e offrono fazzoletti, chiacchiere, caffè.

Vittoria si siede e si lascia consolare dai suoi fratelli grandi, Domenico e Ildebrando, il primo sempre agitato, il secondo pacioso. Lei li ammira molto i suoi due aviatori, con una sottile inconfessata gelosia. Anche lei ce l’avrebbe fatta, a diventare pilota, e conserva ancora gelosamente il suo libretto di volo, se non si fosse intromesso Khayël, con la sua stupida adorazione. Contempla il suo viso di ventenne viziata in camicetta aperta sul collo, coi capelli cortissimi e il mento battagliero, nel ritratto che papà Carlo le ha fatto fare da un buon pittore triestino e ha voluto tenere nel suo studio, e ancora s’imbroncia nel ricordo di come tutti l’hanno spinta a cedere alla corte di quel giovane brillante chirurgo dai grandi occhi orientali e dalla splendida carriera.

«E poi è venuta la guerra, e adesso è morto papà» singhiozza Vittoria pacificata, con poca logica e molto sentimento, stazzonando il fazzoletto che le hanno messo in mano. Così la Bambina è rimasta sola, dimenticata, nella stanzetta dove giace il nonno. Si avvicina piano piano al corpo disteso, gli tocca la barba, le mani incrociate, freddissime. Gli hanno tolto gli occhiali che sono posati su un tavolino di fianco.

In quel preciso momento il sole festoso, vittorioso irrompe nella stanza da sopra il tetto della casa di fronte, appiattisce i contorni delle cose, gioca sul viso e sul corpo del nonno, e una certezza acuta la avvolge.

Morte e vita sono unite nello splendore della luce che acceca, vita e morte trapassano l’una nell’altra e la luce, il calore che sveglia la natura, che matura i frutti e dona l’estate opulenta, oggi rivela il suo inganno, il nonno non lo può riscaldare, non si alzerà più di notte a cullare la Bambina nel suo camicione di tela grezza, non la accompagnerà più giù per la discesa da Susin a Sospirolo, gettando un sassolino in ogni buca della canaletta coperta, con infinita pazienza.

E non siederà più alla sua ribaltina scrivendo lettere e facendo finta, nel loro gioco prezioso, che la Bambina lo disturbi molto quando arriva di corsa e gli chiede stupide cose infantili. Non arriverà più in cucina la mattina presto, chiedendo: «Il mio uovo alla coque, per favore, e il caffellatte. Qui sul tavolo di cucina, non voglio disturbare nessuno».

Ah nonno, nonno, pensa la Bambina. Ma non piange, la luce è troppo bella, troppo invitante, si annida nei suoi occhi e fra i suoi capelli, la riscalda tutta: e allora si siede sulla seggiolina bassa inondata di sole, e si addormenta in pace.

Quindici giorni. Mamma Vittoria, che si stufa a stare con sua madre, e non ha voglia di parlare con lei della sua nuova gravidanza e di quanto le pesi l’idea di un altro bambino, la lascia a Roma in quella splendida fine d’inverno. «Per la scuola non importa, tanto è brava» dice a Khayël che è tornato a prenderla, con aria strafottente. Così lei farà compagnia a nonna la mattina a colazione e la sera, ma ogni giorno viene riempito di sole, e la cugina Paola Bivona giovane e bella, con i capelli e la gonnellina danzanti, la portò dappertutto per monumenti e palazzi, per strade e fontane, ogni tanto riparandosi dal sole nell’ombra delle chiese profumate.

Ogni giorno una scoperta e un incanto, ogni giorno le lame di sole inseguivano la Bambina, giocavano con lei fuori e dentro le strade e le case, il Pantheon e Aracoeli e San Pietro, dentro lo zoo e giù per via Nomentana fino alla pizzeria fantastica che era il posto segreto di Paola.

E fu così che il sole, il grande sole, divenne un’immagine gelosa, da conservare solo per sé nei lunghi inverni padovani, l’altra faccia della morte, serena e terribile.