Le allegre avventure di Gianni.

Quando e perché abbandonò i suoi genitori

Fu dopo i trent’anni che la vita di Gianni prese una brutta china comune a tutti. Vivendo con i genitori per necessità economiche, i suoi rapporti con il vasto mondo erano giocoforza quasi esclusivamente di tipo virtuale.

La virtualità ha alcuni effetti collaterali.

Uno è quello che tanto bene ha cantato al mondo intero Laura Pausini, e si chiama solitudine. Come diceva Aristotele, l’uomo è un animale sociale. E Gianni era un animale sociale. Come i suoi genitori, come la stragrande maggioranza di quel gruppo di esseri viventi appartenenti al genere umano.

Allora non basta Twitter.

Non basta Badoo.

Non basta Facebook.

Non bastano le ore spese a cercare articoli improbabili su eBay.

Il papà di Gianni era un pensionato. Si chiamava Ugo. Ex impiegato alle poste, era il prototipo ideale del padre del cinquantenne medio di oggi. Con la sua pensione manteneva l’intera famiglia che era giustappunto formata da Ugo, Gianni, e la consorte di Ugo nonché madre di Gianni, Adriana. Adriana aveva lavorato per diversi decenni in un cotonificio ed era anche lei pensionata.

Si può dire che la famiglia di Gianni fosse economicamente privilegiata essendo costituita da una coppia di anziani pensionati e un figlio cinquantenne a carico. Adriana lo diceva sempre guardando la fame nel mondo, gli sbarchi a Lampedusa e Telethon, a cui non mancava mai di mandare impulsivamente sms ogni volta che la televisione le diceva di farlo.

Diceva che bisognava aiutare chi stava peggio e malgrado spendesse buona parte della sua pensione in Gratta e Vinci, era davvero una buona donna.

Gianni, Ugo e Adriana cenavano tutti i giorni verso le otto.

Come si usava fino a non molto tempo fa, cenavano davanti alla messa laica che tante generazioni ha formato: il telegiornale.

Mangiavano e scuotevano la testa di fronte al peggiorare del mondo. Poi, sparecchiato il tavolo e finito il telegiornale, ciascuno si ritirava nelle sue postazioni. Adriana sul divano a guardare la televisione, Ugo in camera da letto e Gianni nella sua cameretta. Anche se stava sfiorando i dieci lustri, il suo spazio vitale restava in famiglia “la cameretta”.

Gianni aveva ancora il poster di Michael Jackson ai tempi di Thriller, quando il cantante americano era all’apice del successo e proprio grazie a quel video di zombie danzanti divenne il simbolo profetico di un tempo a venire, da cui era esclusa la danza. Gianni aveva anche l’Enciclopedia Treccani, che il padre gli regalò quando compì tredici anni e sognava un figlio dottore. Ma soprattutto e come tutti aveva quanto di tecnologico alimentava la sua esistenza virtuale. Faceva spesso le quattro, le cinque del mattino chattando con sconosciute. Per insicurezza e per difendere la propria privacy, si era dato un nome fittizio, ma il resto della propria autodescrizione corrispondeva abbastanza alla realtà. Ovviamente taceva come la maggior parte dei suoi coetanei il fatto di essere ancora mantenuto dai genitori. Ma per il resto era assolutamente brillante e in grado di reggere conversazioni anche di diverse ore con donne di ogni tipo. Ovviamente, che fossero minimamente confacenti ai suoi desideri. Sovente innamorandosi. Ma nulla di che.

Nulla che durasse più di qualche notte.

Poi accadde.

Conobbe Michela su Badoo.

Michela era bella. E sembrava davvero una donna. Questo perché quando chatti non sai mai con chi stai realmente chattando.

Potrebbe essere chiunque.

Ma su Michela Gianni non aveva dubbi.

Michela era Michela.

Nell’immagine del profilo Michela era una splendida milf. Come Gianni, aveva voglia di evasione. Quando una notte Gianni e Michela si trovarono a parlare dei cibi più consoni a essere conditi dal sale rosa dell’Himalaya, era chiaro a entrambi che o si sarebbero incontrati entro pochi giorni consumando il loro primo rapporto sessuale, o quel lieve filo che lega la comunicazione si sarebbe spezzato.

Così Gianni si fece avanti.

Lo fece la notte stessa della discussione sul sale dell’Himalaya. Verso le quattro del mattino, quando ormai parlavano di sesso.

E che dovevano farlo.

Davvero.

A Michela venne l’idea dell’incontro al buio.

In un albergo. Avrebbero prima fatto l’amore. In silenzio. E solo dopo avrebbero acceso la luce. Solo dopo si sarebbero visti per la prima volta. Michela, intraprendente, stabilì che si sarebbero incontrati il giorno dopo, All’Ariston Hotel. Alle nove. A Gianni la cosa pareva straordinariamente eccitante. A Gianni la cosa non pareva vera.

La mattina dopo, Gianni fece colazione con suo padre. Avrebbe voluto dirgli. Raccontargli. Ma capì che non era il caso. Ugo raccontò a suo figlio che quella sera sarebbe uscito per una riunione della Protezione civile. Ugo era sempre stato orgoglioso dei suoi anni di militanza nella Protezione civile. E Gianni era molto più pragmaticamente soddisfatto che al padre, che come la madre non aveva mai in fondo accettato la sua maggiore età, non avrebbe dovuto spiegare la sua uscita di quella sera e il fatto che non sarebbe tornato per l’intera nottata.

Fatto che era accaduto talmente di rado da richiedere ogni volta un piccolo consiglio di famiglia. Questa casa non è un albergo e cose di questo genere.

Come sempre succede, le ore di quel giorno pesavano come macigni, languidi a separare Gianni dalla scogliera del sogno.

Michela.

Evitò con cura di masturbarsi.

Puntuale, Gianni porse la propria carta d’identità all’uomo della reception dell’Ariston. “La aspettano alla camera 312,” gli disse l’uomo e poi lo accompagnò all’ascensore raccontandogli le solite cose sull’orario della colazione e la possibilità di ordinare drink e piccoli spuntini a qualunque ora del giorno e della notte, ma Gianni non riusciva ad ascoltarlo, le sue parole rimbombavano come in un acquario, il suo cuore batteva all’impazzata.

Arrivato di fronte alla camera 312, Gianni indugiò per l’emozione. Anche se era vietato, decise che avrebbe fumato una sigaretta.

L’ultima.

Come quella di un condannato.

Alla gioia.

Bussò. Sentì movimenti nella stanza. La porta si aprì. Gianni entrò. Buio. Rimase imbambolato per qualche secondo. Gli venne subito messa una benda sugli occhi. Michela aveva pensato a tutto.

Gianni sentì Michela dirigersi verso il letto.

Ne seguì i movimenti nel buio, cercando di intuire gli spazi. Fino a che toccò il letto. E ci salì sopra. Poi sentì un cazzo premergli contro la bocca.

Un cazzo.

Nessuna Michela, dunque.

Nessuna Michela era mai esistita ma ormai era lì. Era lì e non provava niente di particolarmente fastidioso. Solo un attimo di delusione. Del resto, Gianni si era sentito sempre bisessuale e gli era capitato, anni prima, di avere sporadici rapporti con un suo compagno di classe. E ormai era lì.

Gianni aprì la bocca.

La spalancò.

Il sapore di quel cazzo era buono. Aveva qualcosa di famigliare. Vi ci si abbandonò completamente. Lo leccò con cura. La cappella. Le palle. Poi lo ingoiò completamente e poi da capo.

Sempre più coinvolto.

Sempre più dimentico di tutto.

In capo a un tempo indefinibile l’uomo gli venne in bocca. Gianni ingoiò tutto. L’uomo mugolò: “Sì, bevi, troia.”

Era la voce di suo padre.

Gianni disse: “Papà?”

“Gianni?”

“...”

“Cosa abbiamo fatto?”

“Ti ho bevuto la sborra, papà.”

“...”

“...”

“Non volevo.”

“Lo so.”

Gianni non si tolse nemmeno la benda che gli copriva gli occhi.

Lo fece appena fuori dalla stanza. Scese le scale di corsa. Tornò a casa. Sua madre dormiva sul divano. Le scrisse un biglietto di circostanza. Aprì la cassaforte di casa. Trovò qualche collana e 5000 euro in contanti. Li prese. Andò in camera sua. Riempì uno zaino con quello che sul momento gli pareva necessario.

Fu molto rapido.

In pochi minuti fu fuori casa sua.

Per non tornarci mai più.