Tornato in me, vado a dare un’occhiata fuori. Sta piovigginando. Il vento soffia a raffiche sporadiche. Il piccolo mercantile rosso non si vede più. Ce l’ha fatta a raggiungere il mare aperto. Il cielo è sempre scuro, quasi nero. Va bene così. Mi piace questo tempo, dopo tanto sole. Sotto, in strada, c’è un casino di sirene,
pompieri, poliziotti. Hanno chiuso il traffico con le transenne.
«Gloria, là sotto è successo qualcosa di grosso».
«Perché?».
«Hanno chiuso il traffico e ci sono i pompieri».
«In effetti avevo sentito un gran rumore».
«Che rumore?».
«Non lo so. Un rumore forte».
«Un rumore forte?».
«Sì».
«Io non ho sentito niente».
«Per forza, stavi venendo come un pazzo furioso».
«Un rumore come?».
«Non lo so, ti dico che non lo so. Un gran rumore e basta».
«Ah».
Mi infilo i pantaloni e le ciabatte e decido di scendere giù così, senza camicia. Mi piace esibire il mio tatuaggio. Non capita tutti i giorni che nel quartiere giri un fusto di cinquant’anni in forma come me. A questo punto Gloria riattacca con la sua lagna. Negli ultimi giorni continua a ripetermi che l’ho messa incinta.
«Papi, ho le tette gonfie, mi prudono... e fa’ che sia femmina. Non voglio un altro maschio».
«Ah, merda. Piantala con ‘sta storia».
«Non la pianto proprio per niente. Se sono incinta è tuo... eccome, se è tuo!».
«E basta. T’ho detto mille volte che se batti il marciapiede e poi resti gravida non saprai mai chi è il padre».
«Oh, sì, come no. Non sono mica scema e non mi succhio più il dito. È tuo, papi. Di chi altro potrebbe essere? Sto sempre in casa e non sono più uscita neppure a fare un giro».
«Hai proprio una bella faccia tosta, piccola! E il macellaio?».
«Quale macellaio?».
«Quel ciccione che ti ha dato ottanta pesos».
«Ma è successo mesi fa».
«Mesi fa la prima volta. E poi?».
«Lascia perdere. Lascia perdere».
«Nel quartiere lo sanno tutti che scopi con chi capita, quindi non venire a fare la furba con me. Chissà chi cazzo sarà il padre».
«Tesoro mio...».
«Ma quale tesoro. Te lo ripeto: fatti sbattere da chi ti pare, ma usa il preservativo. L’unico che può infilartelo dentro nudo e crudo sono io. Chiaro?».
«Sì, cicci, come vuoi tu. Ho sempre dei preservativi nella borsetta».
«Brava, adesso me ne vado».
«Sei un bel furbone, tu, hai cambiato discorso, eh?».
«Non penserai di rompermi le palle ancora con questa storia, vero?».
«No, no, quello che volevo dirti è di non preoccuparti. Se sono incinta io lo so di chi è. Se non è tuo, faccio presto a saperlo e non intendo certo appioppartelo per forza, io non prendo in giro nessuno. Ma se è tuo, è tuo! E allora, papi, ti devi assumere le tue responsabilità, perché non lo tiro su da sola, tanto per essere chiari fin dall’inizio!».
«Gloria, vaffanculo. Io ho già tre figli riconosciuti che portano il mio cognome e un altro a Guantánamo, pure quello mi hanno affibbiato. Che dovrei fare? Non complicarmi la vita, mamita. Liberatene e basta. Comunque, mio non è, ficcatelo bene in testa».
«Prima hai mangiato la torta e adesso ci sputi sopra?».
«Se è per questo, continuo a mangiarmela, ma... basta, basta. Questa discussione non ha senso».
«Non avrà senso per te. Ma per me sì. E molto. Sei già lì che tremi, all’idea di avere una bambina piccola piccola».
«Uffaaa...».
«Per giunta, l’ho sognato. E mica una volta sola. Ho sognato tre volte la stessa cosa. E i miei sogni si avverano sempre».
«Cos’hai sognato?».
«Sturati le orecchie: salivo a casa tua e c’era un casino tremendo e macerie e travi e polvere dappertutto, come se fosse crollata. Allora tu mi hai detto: “Sono stufo, non ce la faccio più”. Hai preso la bicicletta e sei sceso per le scale, ma tra le macerie c’era un biberon pieno di latte tiepido. Mi sono affacciata dalla terrazza per dirti che avevi dimenticato il biberon. Tu eri già in strada, a piedi, non so dove avevi lasciato la bici. E sai cosa tenevi in braccio?».
«No».
«Una neonata. Una bella bambina, avvolta nei pannolini rosa, un incanto di bambina».
«E tu riuscivi a vederla da quassù?».
«Ecco, era un sogno... nei sogni... lo sai, no? Insomma, stammi a sentire, che è solo l’inizio: tu camminavi con la bimba in braccio, sorridendo, felice come una pasqua, e io ti gridavo: “Pedro Juan, il biberon, Pedro Juan, il biberon”. E tu neppure mi ascoltavi perché eri tutto contento con la tua piccola in braccio».
«Ah sì? E sullo sfondo il crepuscolo e nell’aria una musica di violini. Sei proprio in gamba. Come attrice di telenovela saresti il massimo. Complimenti per la recita».
«Guarda che è andata proprio così. Eri talmente felice che sembravi un bambino».
«Piantala, Gloria, piantala».
«Macché. Magari non sono incinta e stiamo parlando tanto per parlare. Ma se lo sono, non intendo abortire. Che sia chiaro. Me-lo-ten-go».
«Gloria, avrai già fatto cinquecento aborti. Uno in più, cosa cambia?».
«Tre. Ho fatto tre interruzioni. E tutte di mio marito, il padre di mio figlio. Ma se adesso sono incinta, me-lo-ten-go».
«Cazzo, ma perché devi mettere in croce proprio me!».
«E già. Tutto l’amore del mondo finché me lo sbatti dentro, vero? Quando scopi hai una bella fantasia, eccome, e ti amo e ti adoro e mi fai impazzire e tutte le cazzate che dici. Ma quando sei in te, non ti fidi nemmeno della tua ombra».
«Ti ho detto di non contare su di me».
«Allora poi non voglio sentire stronzate».
«Quali stronzate?».
«I miei figli non devono fare la fame, che sia chiaro. Mi scopo il droghiere, il macellaio, il lattaio, e pure quel vecchio panzone del panettiere. Mi faccio sbattere dal quartiere intero».
«È quello che hai sempre fatto. Niente di nuovo».
«Va bene, ma i miei figli non devono patire la fame. Io darò anche via la fica a chi capita, come dici tu, ma mi procuro da mangiare tutti i giorni».
«Cosa vuoi, Madre Coraggio, che ti suonino L’Internazionale e ti avvolgano in una bandiera rossa?».
«Sì, prendimi in giro, dài. Dio ti punirà perché vedrai che verrà fuori identica a te. Uguale uguale. Persino con lo stesso carattere forte e la tua personalità, così quando sarai vecchio...».
«E basta. Dacci un taglio e muoviti, che voglio scendere giù a vedere cos’è successo».
«Ma quanto sei curioso! Si vede che fai il giornalista».
«Scrittore».
«Scrittore! Gli scrittori dovrebbero avere una certa cultura ed essere educati, e parlare bene, per quel che ne so io. Tu invece sei più animalesco di un cinghiale».
«Piantala, Gloria, adesso basta».
«E poi, dove sarebbero i tuoi libri? Io non ne ho ancora visto uno».
«Sono stati pubblicati in...».
«Sì, in Spagna. Racconti sempre la stessa storiella. E qui? In quale libreria si trovano? La verità è che sei un gran contaballe e ti spacci per scrittore per darti delle arie».
«Falla finita con le stronzate, troietta, che faresti uscire di testa anche un santo».
«Sì, dài, vattene. Su, che me ne torno a casa. Ah, mia sorella ti ha portato dei sigari, passa a prenderli quando rientri».
«Bene».
Scesi giù. In strada c’erano decine di sfaccendati. L’edificio di fronte cascava a pezzi. Durante il temporale si erano staccati dei grossi blocchi di intonaco. La polizia aveva chiuso la via al traffico facendo evacuare le tre famiglie che ci abitavano: la prima di tre persone, la seconda di quattro e la terza di diciotto. Questi ultimi erano neri. Nel quartiere li chiamavano “Los Muchos”. Un architetto stava facendo loro delle domande e prendeva appunti su un foglio. I pompieri non avevano niente da fare, gironzolavano, chiacchieravano, ridevano, uno stava rimorchiando una
mulattina, parlavano fitto e a bassa voce, ormai sul punto di mettersi a pomiciare davanti a tutti. I vicini spettegolavano: “Dove li sistemeranno? Dicono che i ricoveri sono già stipati di gente. Los Muchos sono fregati perché in così tanti non c’entrano da nessuna parte”.
Raffiche di vento, pioggia fine. L’edificio, di tre piani, era all’angolo tra San Lázaro e Colón. La salsedine e il vento lo avevano corroso poco a poco. Nei muri c’erano delle crepe enormi. Si trovava in quelle condizioni da almeno trent’anni. Ma non crollava del tutto, veniva giù un po’ alla volta. La polizia l’aveva transennato e all’interno della recinzione cascavano pezzi di intonaco e di mattoni. Nessuno poteva fare previsioni. Un crollo improvviso era pur sempre possibile. La più anziana dei Los Muchos, sui settant’anni o forse più, era come al solito sbronza o fatta di marijuana. Barcollava e ridacchiava da sola muovendosi a piccoli passi senza una meta. L’architetto e i pompieri andavano e venivano e non combinavano niente. Tutti si guardavano l’un l’altro. La vecchia biascicava: “Voglio proprio vedere come ci sistemeranno. Scommetto che resteremo in mezzo alla strada. E con questo freddo, poi. Vedrai, sarà come ai tempi di Machado, quando vivevamo sotto i portici, a Monte o a Reyna. Sotto i portici. Vedrai se non finisce così”.
Gloria scese giù, si avvicinò e mi disse all’orecchio:
«Molla questi morti di fame, che te ne frega, e vai su a prendere i tuoi sigari. Minerva ti sta aspettando, deve uscire».
«E allora? Io torno su quando cazzo mi pare».
«Ahi, papi, perché mi rispondi così? Vado a cercarti del rum. Che ci fai qui, sali su, no? Tutta ‘sta gente ha i pidocchi, e te li attaccheranno».
«A me? E dove?». Ride.
L’ascensore era fuori uso. Sette piani a piedi, bella ginnastica. Suonai il campanello di Gloria. Mi aprì Minerva che disse con una vocina quasi impercettibile:
«Ah, è lei. Si accomodi. Gloria torna subito».
Ci andammo a sedere in sala. Due poltrone e un divano sgangherati, e un televisore russo in bianco e nero. Una desolazione. Le pareti scrostate, sporche. Una lampadina penzolava da un filo coperto di cacche di mosca. Una vecchia mensola appesa molto in alto. Non capisco perché l’abbiano messa lassù. Sarà lì da cinquant’anni. Come fossero dei soprammobili, c’erano due lattine vuote di birra tedesca, una immaginetta della Madonna delle Grazie e una cartolina postale spiegazzata con la veduta di una spiaggia italiana sull’Adriatico. La cultura del disastro.
Incredibilmente, la casa era vuota e silenziosa. Soltanto Minerva. Si sedette di fronte a me. Esteriormente assomiglia a Gloria ma in realtà è l’esatto opposto. Un giorno Gloria mi ha detto: “Minerva? È la donna più sottomessa del mondo. A tredici anni se n’è andata con l’uomo che l’ha messa incinta. Ha piantato la scuola. E si è dedicata al marito e alla casa. Ha tre figli e guarda il sole attraverso il buco del culo del marito”.
Indossava una vestaglia bianca, quasi trasparente. Magra, carnagione scura da india, capelli neri. Non portava il reggiseno. Tette piccole e capezzoli scurissimi. Deliziosi. E lei li mostrava con l’innocenza di un’adolescente. Emanava un erotismo sottile, delicato. L’espressione di una vergine sul punto di ascendere in cielo e scomparire tra le nuvole. Ma senza
squilli di tromba e alone di luce. Una vergine da clausura, votata al silenzio e all’ombra.
Non aveva niente da dirmi. E neanch’io, del resto. La fissai e lei abbassò lo sguardo. La brava donna sposata, silenziosa e sottomessa. La maggioranza degli uomini desidera proprio una così. Se la sognano, ma non osano dirlo forte perché verrebbero presi per retrogradi e maschilisti. Invece è l’ideale: la donna affettuosa, sensuale, compiacente, mansueta, masochista. Mi piacerebbe sbatterglielo dentro e farla reagire: “Urla, che cazzo, dì qualcosa, piantala di fare la gatta morta!”. Interruppe i miei pensieri:
«Le ho preso dei sigari. Vuole vederli?».
«Sì».
Si alzò e andò a prenderli. La seguii con lo sguardo. Troppo magra. Anemica. Il marito guadagna quattro soldi e con quelli ci devono campare in cinque. Gloria dice che le rifila certe scariche di botte che neanche me le immagino. Da due mesi lavora in una fabbrica di sigari. Deve fare l’apprendista per un anno arrotolando avana prima di essere assunta fissa. Ogni giorno ne ruba qualcuno. E me li vende. A due pesos cubani, cioè dieci centesimi di dollaro. Torna con un bel mazzo. Trenta sigari splendidi. Lancero. Una squisitezza. Me li porge senza dire una parola. Sorride timidamente e abbassa lo sguardo. Rimango a fissarla. Tiro fuori i sessanta pesos e glieli do.
«Grazie, Minervita».
«Di niente, ci mancherebbe altro».
«Minervita...».
«Dica».
«Metti un po’ di musica».
«No, no. È di Gloria. Io non so nemmeno come si accende».
Continuo a fissarla.
«Se fossi tuo marito ti darei una ripassata di legnate tutti i giorni».
«Ahi, e perché?».
«O ti dai una svegliata o resti scema del tutto. Con te ci vuole la frusta».
«No, no. Per carità».
«No? Altroché, invece. Letto e scudisciate, ecco cosa ti serve».
Mi guarda con i suoi occhi dolcissimi, i più neri e i più arrendevoli del mondo. È mansueta come una colomba. Che donna sensuale, cazzo! Sa che sto mentendo. Se fosse mia moglie potrei soltanto sedurla, ipnotizzarla. Deve avere un debole per i fiori. Cosa si nasconde dietro quello sguardo? Serenità? Rassegnazione? Saggezza? Stupidità? Evita sempre il mio sguardo e fissa il pavimento. È un enigma. Un libro chiuso.
«Metti una cassetta, Minerva».
«Io non so farlo funzionare. E se poi lo rompo? Chi la sente mia sorella?».
Mi alzo. Vado ad accendere il registratore. Luis Miguel. Bolero. La media vuelta:
Te ne vai perché io voglio che te ne vada, ma quando voglio ti trattengo qui.
Lo so che ti manca il mio amore,
perché, ti piaccia o no, sono il tuo padrone.
L’afferro per la vita.
«Vieni, balliamo un po’».
«No, no».
Ma ormai ha ceduto. Oppone una resistenza minima:
«E se torna mia sorella e ci vede? A lei non dice niente, ma a me...».
«Ah, ragazza mia, non essere...».
Stavo per dire “stupida”, ma mi trattengo. La stringo più forte a me. E balliamo lentamente. La sua pelle ha un buon odore. Come quella di Gloria. Un odore lieve e caldo. Niente profumi né trucco. Immagino che le ascelle avranno un delicato aroma di sudore tiepido. Preme il corpo contro il mio.
Io voglio che te ne vada per il mondo, e voglio che tu conosca tanta gente.
Voglio che ti bacino altre labbra,
perché tu possa fare il confronto adesso e per sempre.
Se trovi un amore che ti capisca
e senti che ti ama più di chiunque altro, allora ti volterò le spalle,
e me ne andrò via con il sole al tramonto.
Allora ti volterò le spalle,
e me ne andrò via con il sole al tramonto.
Balliamo stretti uno all’altra. Minerva si lascia guidare docilmente. Ho gli occhi chiusi e mi godo il momento. A un tratto Gloria esplode a due passi da me:
«Ehi, che diavolo sta succedendo qui? Fino a che punto devo sopportare? Nella mia casa e con mia sorella!».
È entrata silenziosamente e ci ha colti di sorpresa. Ci separiamo. Minerva abbassa la testa e non sa cosa fare.
«Gloria...».
«No, Pedro Juan, no. Questa è mancanza di rispetto. Vediamo un po’...».
Mi afferra l’uccello dall’esterno dei pantaloni. Ho una mezza erezione. Non proprio duro duro, ma quasi...
«Ti si è rizzato, pezzo di merda, figlio di puttana! Ce l’hai duro e lo strofinavi contro questa zoccola. Se tardavo altri due minuti glielo sbattevi dentro... Minerva, sei proprio una svergognata. Vuoi vedere che lo racconto a tuo marito? Vuoi scommettere che glielo dico e quello ti dà una scarica di legnate che ci resti secca?».
«Oh, Gloria, no, no, no, per carità, non farlo sennò mi ammazza. Gloria, mi ammazza di botte se lo viene a sapere. È stato Pedro Juan a costringermi. Io non volevo ballare, ma lui mi ha presa con la forza».
«E tu... roba che se aspettavi un solo minuto in più a nascere venivi fuori scema completa. Deficiente e svergognata!».
«Senti, Gloria, non offendere tua sorella. Sai benissimo che è una brava donna. Piantala di approfittartene così».
«Ah, perfetto, adesso la difendi pure!».
«Io non devo difendere proprio nessuno».
«E io come una cretina a cercarti del rum in giro. Per un cinico e perverso come te! Ma come ho fatto a innamorarmi? Carogna! Tu non sei capace di amare nessuno. Ami soltanto te stesso».
«Va bene, Gloria. Adesso piantala di sputare merda».
«Ti vado bene solo per scopare e per scrivere i tuoi romanzetti del cazzo. Credi che non me ne renda conto? Sono tre anni che rompi i coglioni e mi fai domande persino su quante volte caco al giorno».
«Dài, non urlare così, che cazzo, i vicini stanno sentendo tutto».
«Ah, ma quanto siamo delicati. Adesso si preoccupa dei vicini. Che bambino educato».
«Gloria, continua così e ti prendi due sberle, vedrai che poi te ne stai zitta».
«Non sto zitta proprio per niente. E non ti racconto più un cazzo, caro il mio Pedro Juan. Sei fottuto, non saprai altro da me. Chi scrive un libro deve avere la fantasia di inventare certe cose. Come ti è saltato in testa di scrivere la verità? Sei matto? E se la gente si accorge che quella Gloria sono io? Dove vado a nascondermi?».
«Basta, basta. Prendi un bicchiere e beviamoci un rum, così ti rilassi».
«Inventa, devi inventare quello che scrivi, oppure falla finita perché tanto io non ti racconto più niente!».
«Vammi a prendere un bicchiere, piccola, dài, portami un bicchiere».
«Casomai ne prendo due. La bocca per bere ce l’ho anch’io».
«Portane uno per Minerva, già che ci sei».
«No, no. Io non bevo alcolici».
«Come no, la gatta morta non beve, non fuma, non scopa, non parla mai male di nessuno, non le piace neppure la carne di maiale. Dicono che il Papa tornerà a Cuba appositamente per lei. Se la porterà laggiù, dove vive lui, come si chiama?».
«Il Vaticano».
«Ecco, proprio lì. Il Vaticano. Santa Minerva dell’Avana! E magari la metteranno persino sui santini, con quella faccina da agnellino che sa fare lei. Svergognata! Se non arrivavo in tempo te lo scopavi qui, in piedi e ascoltando un bolero».
«Gloria, taci un po’ e vai a prendere i bicchieri, muoviti».
Finalmente si decide a farlo e andiamo a bere sul balcone. Pessimo rum. Petrolio puro. Fino a quando dovrò bere questa merda? Butto giù due belle gollate. Faccio una smorfia schifata e dico ad alta voce:
«Che robaccia! Santa Barbara benedetta, Changó, aiutami a scrivere un bestseller così potrò permettermi del whisky».
«A scrivere cosa?» chiede Gloria.
«Niente, niente. Trovami un accendino». Accendo un Lancero. I bolero continuano in sotto-
fondo. Siamo al settimo piano. Davanti a noi, L’Avana umida, che resiste al vento e alla salsedine. L’Avana in rovina, che casca a pezzi. Ami una città se ci sei stato felice e hai sofferto. Se hai amato e odiato. E hai tirato avanti senza un soldo in tasca, sopravvivendo per strada, e poi sei riuscito a risollevarti e ringrazi Dio se tutto non è finito in merda. Se non hai una storia nel posto dove vivi sei come un granello di polvere al vento.
La giornata è piovosa e grigia. Un po’ malinconica. Stringo Gloria tra le braccia e sento l’energia che riprende a scorrermi nelle vene. Una sensazione di forza, di solidità. Le voglio bene, a questa zoccola impunita, ma non ho il coraggio di riconoscerlo. Gloria è una trappola. Lo so che è una trappola.