Mi risvegliai mezzo stordito, un po’ come i caimani, sonnolento al sole. Entrai in acqua, nuotai per qualche minuto e mi rinfrescai. Chissà che ora era. Calma e silenzio continuavano a regnare intorno, non c’era quasi nessuno nei paraggi. Avevo bisogno di un’aspirina e di una bibita ghiacciata. Mi incamminai. Tornare all’Avana? No, era ancora troppo presto. Di lì a poco trovai una farmacia aperta. Chiesi alla commessa, che mi voltò le spalle, infastidita da chissà che, e mi rispose tra i denti:
«Non ci sono aspirine. Da nessuna parte, inutile cercarle».
«Però ogni tanto...».
«Quando ne arrivano finiscono nel giro di mezz’ora. Ce ne consegnano poche. E saranno tre mesi che non se ne vedono».
Presi due bibite al gusto di arancia e risalii la collina, verso una zona alberata, dove abitano Evelio e Julita. Non li vedevo da anni. L’ultima volta che avevamo scambiato due chiacchiere stavano vagando da un ufficio all’altro, all’Avana. Volevano andare in Venezuela, e rimanerci, ovviamente. Julita aveva una nipote in qualche paesino laggiù, e riponevano tutte le loro speranze nella nipote e nel paesino. Il problema era che lasciavano partire soltanto loro due. I fi-
gli dovevano restare qui. Avevano pregato tutti i santi e madonne, giurando di rientrare, di non essere intenzionati a chiedere asilo. Niente da fare. Così, erano rimasti qui, tutti insieme.
Vivono in un bel posto. A duecento metri dalla spiaggia. Ogni casa è immersa nel verde, con giardino e alberi intorno. Attraversai un campo da baseball. Un gruppo di ragazzi giocava freneticamente. Chiesi a uno che stava occupando il center field:
«Come va la partita?».
«Sedici a sedici, al terzo inning».
«Merda, ragazzi, siete proprio delle schiappe! Non vi vergognate?».
«Senta, signore, non offenda, capito?».
Ripresi a camminare. Giocatori da strapazzo. Raggiunsi il boschetto. Trovai la casa. Evelio aveva molti capelli bianchi rispetto all’ultima volta. Stava lavoricchiando attorno alle gabbie dei galli da combattimento. Una trentina di gabbie, sistemate all’ombra, sotto gli alberi di mango e avocado, accanto alla casa. Ci guardammo ma lui non mi riconobbe. Mi fermai in mezzo al sentiero e urlai:
«Ehi, signore, vende galli?».
«Cazzo, Pedro Juan, non ti avevo riconosciuto!».
«Non ci vediamo da anni, ormai».
«Vieni, vieni dentro».
«Belli, quei polli, sono tuoi?».
«Sì. Giusto per passare il tempo».
«Ci sono arene per gli incontri, da queste parti?».
«Sì, uuh, tutta la zona è piena di arene. Le usano la domenica. Clandestine, puoi immaginare, come tutto il resto. Ti piacciono i combattimenti di galli?».
«Altroché, fin da bambino. Ma non ho la pazienza di allevarli».
«E allora scommetti».
«Scommetto, come no. A undici anni mi ero messo a vendere gelati nell’arena di Matanzas. E ho preso il vizio, sai come vanno certe cose. Con le tasche piene di soldi, chi resisterebbe?».
«Puntavi di nascosto, perché a quell’età...».
«Facevo le puntate dall’esterno. Avevo i miei agganci, e vincevo abbastanza. Ho l’occhio buono per i galli».
«Perché ti piacciono. Chi ama i galli ha l’istinto giusto. Sa riconoscere il vincitore».
Evelio aveva due bottiglie di aguardiente. Ufficialmente la usava per spruzzarla sulle piume dei galli. Ma a quanto pareva, con quel pretesto se la passava mezzo sbronzo dalla mattina alla sera. Mi disse che la domenica andava in una chiesa battista dove si riunivano gli Alcolisti Anonimi. Presi una bottiglia e ci sedemmo in veranda. Dal mare soffiava una piacevole brezza. Respirandone una boccata si assaporava la densità.
«Insomma, Evelio, la domenica vai in chiesa o ai combattimenti?».
«Dipende. A seconda di come mi gira quando mi alzo. Preferisco i galli, certo. Però devo smetterla con l’alcol. Sto restando senza fegato».
«Evelio, hai un’aspirina?».
«A che ti serve?».
«Ho mal di testa».
«Ah, allora è semplice. Olgaaa! Olgaaa!».
La vicina, sentendosi chiamare, uscì. Evelio le chiese l’aspirina.
«No, ho solo del Paracetamol. Roba yankee. È anche meglio dell’aspirina».
«Fa lo stesso. Dammene una per il mio amico».
La ingoiai con un sorso di aguardiente e grazie mille, Olga. Restammo in silenzio. Non avevamo niente di cui parlare. Finché mi tornò in mente una cosa.
«Evelio, che mi dicevi dei galli e della santeria?».
«Che possiedo quei galli perché anni fa mi sono messo con la santeria. E il santo mi ha chiesto dei galli».
«Sì? Può chiederti anche galli?».
«Ma allora non sai niente. A volte chiedono capretti, montoni, galline nere, serpenti, piccioni. Oppure ti impediscono di fare alcune cose. Io, per esempio, non posso andare in bicicletta, in moto, né guidare la macchina. La religione è molto complicata. Ho cominciato con due galletti e una gallina di razza, e adesso ho già un allevamento che vale una fortuna. Quegli animali sono tutti campioni imbattibili. Incazzati furiosi fin da quando stanno nell’uovo».
Un’altra pausa di silenzio. Due o tre gollate di aguardiente bruciabudella, e io ero a stomaco vuoto. Evelio disse:
«Guarda, vieni con me. Queste cose non le mostro a nessuno».
Mi portò a vedere i tegami, i ferri, le ciotole dei suoi santi. Teneva tutto nascosto in un piccolo armadio, nella sala. Tornammo sulla veranda e ricominciammo a bere. A un certo punto si adagiò sulla poltrona e fissò il soffitto, pensoso. Tra le mani stringeva la collana azzurra di Yemayá. Ci giocherellava. Rimase in silenzio per qualche istante e poi disse:
«Poco tempo fa hai preso la decisione giusta. Darà i suoi frutti. Ti è costata fatica, sei stato a lungo indeciso, hai avuto persino paura di finire in galera, ma tu disponi di una buona guida. Non avere paura e vai
avanti. Una decisione che riguardava dei documenti e roba del genere, ma ormai è tutto sistemato, e come ti ho detto, hai fatto la cosa giusta. Adesso... ti dirò di più... hai un africano e un indio sempre accanto a te. Sono forti entrambi e non si separano mai dal tuo fianco».
«Me lo dicono sempre nelle sedute».
«Te lo dicono perché in effetti ci sono. Non ti lasciano mai solo. Eppure tu non fai niente per loro. Ecco... l’indio sì, a quello ci badi, gli chiedi favori e gli offri fiori, ma il nero, non lo guardi neppure. Te lo sei completamente scordato».
«Sì, è vero».
«Visto? E invece dovresti curarli entrambi. Tu sei intelligente grazie all’indio e forte e combattivo grazie al nero. Sono tutti e due importanti perché complementari uno all’altro. Mi capisci?».
«Sì, certamente».
«Il nero è durissimo. Grazie a lui, nessuno può toccarti. È un nero grande e robusto, praticamente nudo, porta soltanto un perizoma. Appena una striscia di tela di yuta, e un fazzoletto rosso attorno al capo. Devi offrirgli una noce di cocco con dentro rum o aguardiente e un sigaro. Non sempre. Quando te ne ricordi. È quello che vuole il nero. A lui piacciono il rum, i sigari e le donne. Parlagli. Devi parlare con lui e chiedere favori. E ogni tanto gli offri una rosa rossa. I fiori rossi gli si addicono. Tutto rosso. Non è un nero festaiolo, da rumba. È un nero della boscaglia. Sfuggente. Non si mostra mai perché sta nascosto tra i cespugli. Ma sa molte cose. È forte, astuto e coraggioso. È un nero con due coglioni così».
A quel punto arrivò Julia. Evelio aveva ancora tra le mani la collana azzurra di Yemayá. Si sentì colto
in flagrante. Cercò di nasconderla, ma ormai Julia l’aveva vista.
«Ehi, Pedro Juan, che sorpresa, vederti da queste parti. E quello intanto racconta stronzate sui santi e fa l’indovino con la sua collanina».
«Julita, Julita, un po’ di rispetto».
«Macché rispetto, Evelio. Tu e le tue scempiaggini sulle sedute, tutte balle. Un mucchio di merda, ecco cos’è».
«No, Julita, vedi...».
«Sì, come no, vedo benissimo. E ci credi anche tu, Pedro Juan, a certe stronzate? Storielle per i fessi. Baggianate. Io credo a quello che posso toccare con le mie mani. Ma certe cose che non si vedono, che stanno per aria...».
«Cazzo, e quando ti tiravano i piedi di notte? E ti svegliavi piangendo e morta di paura? Allora sì che sei venuta da me di corsa per farti togliere il morto di torno».
«Erano soltanto sogni che mi innervosivano, tutto qui».
«Sogni? No, tu eri ben sveglia e continuavano a tirarti le zampe».
«I piedi».
«Fa lo stesso».
«Ma no, ero solo un po’ tesa. E ogni notte la stessa rottura di palle. Pedro Juan, quest’uomo è un ingegnere. Ha studiato. Ha insegnato all’università. Dimmi sinceramente, ti pare possibile che creda a certe stronzate da trogloditi africani? Pazienza io, che non ho studiato. A malapena ho finito le medie. Non mi sono mai piaciuti i libri e lo studio, peggio per me, ma lui, invece...».
«Julita, t’ho detto mille volte che gli studi non han-
no niente a che vedere con la religione. Pedro Juan, ascolta bene cosa sto per dire. Io ero come Julia e insegnavo all’università, frequentavo il sindacato e partecipavo alla mobilitazione e tutto il resto. Non credevo in niente. Niente. Mio padre invece aveva i suoi santi e ha seguito queste cose per tutta la vita, fin da bambino. Di nascosto, per non compromettere i figli e la famiglia. Teneva tutto in una stanza chiusa a chiave e soltanto noi familiari lo sapevamo. Niente sedute per estranei. Eppure, il vecchio è stato un dirigente per tanti anni e ha viaggiato in Bulgaria, in Unione Sovietica. Sapeva il fatto suo. Bene, passa il tempo, va in pensione, invecchia e da un momento all’altro comincia a perdere la testa. Senza ammalarsi. Aveva settantadue anni e sembrava sanissimo. Perse il controllo, divagava, diceva scemenze, si scordava persino di mangiare, non dormiva, gli tremavano le mani. Se ne andava sui monti e noi dovevamo cercarlo perché si perdeva e non tornava indietro. Fu allora che sono iniziati i problemi per me: di notte sentivo che qualcuno mi tirava i piedi e perdevo conoscenza e quando tornavo in me, dicevano che avevo parlato per un’ora come un nero africano. A volte sentivo impulsi da matto e partivo di corsa verso i monti fino a un albero di ceiba che è a dieci chilometri da qui. Sempre di corsa! E arrivavo senza neppure il fiatone. Cercavo certe erbe e mi chinavo tra le radici della ceiba per preparare un’offerta. Potevo restare lì anche un paio d’ore. Finivo quello che dovevo fare e tornavo a casa».
«E non riuscivi a controllarti?».
«Non potevo. Era come se fossi impazzito. E mio padre uguale. Come se entrambi avessimo perso il senno. Allora andai a trovare il babalao padrino di mio padre. E mi disse: “Tuo padre sta per morire, ma
prima deve passare a te le sue conoscenze di santeria. Finché non le avrai ricevute, lui non potrà morire”».
«Questa storiella l’ho sentita centomila volte, Evelio. Ogni volta che alzi il gomito ripeti la stessa manfrina».
«Ma è vera, Julita. Io non racconto balle».
«E com’è andata a finire?».
«Come diceva il babalao. Un giorno, era lunedì, mio padre mi passò le sue conoscenze. E il mercoledì, morì. Sereno, nel suo letto, la notte. E da allora qui abbiamo cominciato a fare progressi, perché in questa casa non manca niente».
«I santi badano ai fatti loro, Evelio. Piantala con le stronzate. E i fatti miei li so soltanto io. E nessun santo scenderà mai dall’altare per mettermi in mano cinquanta bigliettoni. I santi che restino pure qui a mangiare la terra, io voglio andarmene da qualche altra parte e mangiare prosciutto. Il giorno che vinciamo alla lotteria e ci danno il visto a tutti e quattro... ahhh, caro mio, darò una tale festa che ne parlerà tutta L’Avana. Sentiranno la musica fin dove dico io. A Cayo Hueso, no, a Miami, anzi, no, più su, a Tampa. Fino a Boca Ratón la sentiranno, la musica!».
Restammo in silenzio, finché io le dissi:
«Sei ostinata, Julita. Questo non va bene. Diventerai pazza».
«Certo che sono ostinata. E sono anche pazza, completamente fuori di testa. Come tutti quanti, del resto. Tu non sei forse ostinato?».
«Ecco qual è il suo problema, Pedro Juan. Sbraita, fa la matta, dice che è fuori di testa, che vuole scoparsi qualche vecchio turista spagnolo per farsi portare via da qui. La solita storia. Non ne posso più. Questa donna farebbe uscire di senno chiunque. Ha
una lingua che non la tiene a freno nemmeno tutta la santeria africana messa assieme».
Non risposi. Avevo voglia di togliermi dai piedi. Perché ero andato a trovare quei due? Restammo in silenzio, seduti sulla veranda, rinfrescati dalla brezza, guardando il mare in lontananza, tra gli alberi. Nel campo di baseball i ragazzi continuavano a giocare ma non li sentivamo. Solo il vento tra gli alberi. Julia non resistette a lungo in silenzio.
«Pedro Juan, una volta scrivevi poesie, se non ricordo male».
«Sì, ogni tanto lo facevo».
«Non ne scrivi più?».
«No».
«Perché?».
«Non ho niente da dire».
«Non sei innamorato?».
«No».
«Quando si è innamorati viene voglia di scrivere poesiole».
«Uhmm».
«Ti regalo un libretto di poesie».
«Tue?».
«No. Di una jinetera».
«Ah».
«Una puttana romantica. Abbiamo affittato una stanza a un messicano e a una jinetera. Quando sono andati via hanno lasciato un libretto di poesie d’amore».
«Fammelo vedere».
«Te lo regalo. Noi le abbiamo già lette. Se le teniamo qui finiranno in bagno perché i ragazzi prendono qualsiasi pezzo di carta gli capita a tiro per pulirsi il culo».
«Julita, Julita».
«È vero, Evelio, non fare tanto lo schizzinoso, che Pedro Juan è uno di casa. Puoi tenerlo, Pedro Juan. Sono bellissime. Magari potessi scrivere così anch’io. Sono una vera rarità».
Approfittai della scusa. Presi il libretto. Salutai e mi incamminai per il sentiero che scendeva dalla collina.