Agneta mi telefonò martedì. Era piena d’entusiasmo: “Ieri sera ho letto My Dear Drum’s Master”. Stava spedendo per corriere una busta con la documentazione per il seminario. Il biglietto aereo era in data tredici maggio. Oh, benissimo, in piena primavera. Dovevo mandare subito il certificato medico per l’assicurazione. Chiacchierammo del più e del meno:
«Qui fa molto caldo».
«Qui abbiamo ancora tre o quattro gradi. Verrei a Cuba. Almeno per un anno».
«Non c’è lavoro».
«Ah, non importa. Vendo la macchina e il ricavato mi basta per un po’ di tempo».
Poi, non so come, iniziammo a scaldarci. Credo di aver cominciato io, come sempre. Mi piace la sua voce, senza incertezze, il tono pacato. E così mi diventò duro e presi a masturbarmi lentamente, e glielo dissi. E lei: “Ah, mi piace. Davvero? Lo stai facendo? Oh, io sono in ufficio. Non posso fare niente”. Continuai. Mi accarezzavo l’uccello, aggiungevo saliva per farlo scorrere dolcemente. Quello che non ho ancora detto è che quando Agneta ricevette la foto di me nudo sulla neve, con il cazzo ritto, cominciò a perdere la bussola. Dalle Alpi andai a Vienna. Mi fermai qualche giorno in un attico in Radetzkystraße. Agneta mi telefonava tutte le sere. A Vienna faceva scuro presto, ma a Stoccolma alle quattro era già notte fonda. Non ricordo come, ma avevamo preso l’abitudine di masturbarci al telefono. Suppongo che lei guardasse la mia foto, e ascoltava tutte le sconcezze che le dicevo. A me bastava sentire la sua voce e i sospiri.
Adesso Agneta stava parlando d’altro. Della sua capa che era stata in vacanza in Sicilia e tutti ridevano dei suoi racconti.
«Cosa ci trovano da ridere? È una stupida».
«È tornata soddisfatta dal Mediterraneo. Avrà fatto sesso con qualche siciliano».
«Non con un siciliano. Ha fatto sesso con il suo fidanzato. Oh, quanto è stupida».
«Con il fidanzato che è il tuo ex».
«Sì, il mio ex. Una situazione piuttosto strana».
«In Svezia. A Cuba sarebbe normalissima. Tutto rimescolato, come dice il poeta».
«Quale poeta?».
«Un poeta. Diceva così: tutto rimescolato».
Agneta restò in silenzio. È molto sensuale. Mi eccitava sapere che se ne stava lì, zitta, a pensare a me. E quando parla lo fa con una dolcezza che mi fa pensare alla gloria. Non a Gloria. La gloria dei cieli. Sussurrò:
«Stai continuando?».
«Sì».
«Ancora?».
«Sì. Ti sei lasciata i peli sotto le ascelle?».
«Oh, no. Ci ho provato per qualche giorno ma non mi piacciono».
«Non importa. Quando sarò lì ti convincerò. Non c’è fretta».
Continuai ma cercavo di trattenermi. Non volevo spargere il mio seme in aria. Preferivo tenerlo per Gloria o qualcun’altra.
«Finiranno per licenziarmi. Non ho giustificazioni. Stiamo parlando da... uhmmm, ventitré minuti».
«Sì, ma che bello, se fossi qui, Agneta. E dimmi, hai molto pelo sul sesso, sulle cosce?».
«Sì. Te l’ho detto. Un mucchio di pelo, sono mora e...».
«Ah, porcona, prendi questo, non resisto più, guarda quanto ne esce, troia d’una svedese fottuta, gran fica, non ce la faccio più, prendilo, guarda come cade sul pavimento...».
«Oh, e io sono così lontana. Com’è possibile?».
«Ahh, l’ultima goccia, ohhh. Com’è possibile cosa?».
«Com’è possibile che io sia così lontana da te? Sei venuto?».
«Non mi piace farlo da solo, non mi piace, cazzo. Le seghe mi sfiniscono. Non mi piace venire sul pavimento».
Alla fine furono trentacinque minuti di telefonata. Ero stremato. Le seghe mi ammazzano. Nell’adolescenza me ne facevo anche cinque o sei al giorno e la pelle dell’uccello si irritava e a volte mi veniva una piaga a furia di darci dentro. Avevo alcune foto di Brigitte Bardot. E ogni tanto spiavo la vicina. Estela. Bellissimo nome. Non la dimenticherò mai. Le scrissi brevi poesie d’amore. Mi piacerebbe rileggerle, ma non so dove siano finite.
Cercandole, ho trovato un quaderno con l’inizio de La vita frugale. Un romanzo lasciato a metà. Non trovo il coraggio di continuarlo. È scritto in prima persona. Scrivere in prima persona è come spogliarsi in pubblico. Inizia con il tipo, cioè il protagonista, che scopre che la moglie lo tradisce. Lui lo sospettava, ma faceva il finto tonto. Il romanzo comincia così:
“Siamo abituati a costruirci da soli i nostri inferni e paradisi. Quindi, qualsiasi posto può essere un luogo meraviglioso. Oppure orribile. Ho passato diversi anni a costruire il mio inferno. Ma non me ne rendevo conto. L’ho fatto scrupolosamente, ma al tempo stesso incoscientemente. Intendo dire che per tanti anni ho agito come un automa. E a un certo punto mi sono ritrovato con una bomba a orologeria tra le mani. E mi è scoppiata in faccia nell’estate del 1990. Ne sono rimasto distrutto, senza sapere cosa fare. Un pomeriggio di settembre ho notato un’espressione felice negli occhi di mia moglie. Si muoveva come una gatta. Era evidente che aveva un altro uomo e si era appena vista con lui, di nascosto. Tornava a casa felice e diventava di cattivo umore appena mi vedeva. Adesso lo scrivo senza dolore né odio, ma in quel momento mi venne la pelle d’oca”.
Fu terribile. Quell’uomo, intendo dire il protagoni-
sta, prese a distruggere tutto ciò che aveva a portata di mano. Tagliò i ponti dietro di sé e rimase completamente solo e senza speranze su un’isola deserta. A pezzi. La disperazione gli durò degli anni. L’alternativa era morire solo come un cane o rinascere dalle sue ceneri.
Per il momento non mi interessa scrivere un romanzo che comincia in questo modo e che conosco ormai a memoria. Dall’inizio alla fine. Dovrei soltanto sedermi a scriverlo. Scrivere con le viscere. Buttando tutto sul foglio. Macchiandolo di sangue e saliva e merda e orina e muco e lacrime. Quando un editore riceve un manoscritto che trabocca di porcherie, di solito non capisce perché l’autore sia così esageratamente laido. Il fatto è che un romanzo come La vita frugale non si può scrivere con il cervello e con le mani. Bisogna essere disposti a strapparsi la pelle. Ti scortichi, rimani con la carne viva, e a quel punto ti butti dalla rupe del romanzo fino in fondo al precipizio. Sfracellandoti sulle rocce. È l’unico modo. Se non si è disposti a farlo allora meglio lasciare fogli e matite sul tavolo e dedicarsi a vendere pomodori o beni immobili.
Insomma, per il momento non potevo scriverlo. Non ne avevo voglia. Niente da scrivere, niente da dipingere. Leggevo queste parole di un vecchio sconcio: “Con l’intuito la donna sa che nel nostro tipo di società è il commediante a sopravvivere e per questo lo preferisce. A lei interessa soltanto avere figli e allevarli nella sicurezza”. I miei cinquant’anni di vita di strada mi confermavano che era assolutamente vero. Suppongo che gli/le intolleranti aspettino quel vecchio al varco per bastonarlo ogni volta che mette fuori il naso dalla porta di casa. Gli esseri umani, la mag-
gioranza di loro, non riescono a pensare a sé stessi. Le persone agiscono per imitazione e a un certo punto persino per respirare hanno bisogno di un leader che dica come farlo. E c’è sempre un leader nei paraggi. Era questo il leitmotiv de La vita frugale. Il protagonista era caduto nella trappola e poco a poco l’automatismo lo divorava come un cancro.
Ecco come me la passavo, da incoerente. Pensavo a venti cose diverse e a niente. In quel momento ricomparve Gloria. Tranquilla, con un sorriso innocente. Più che innocente, un sorriso candido, infantile, e al tempo stesso perverso. Aveva una risma di fogli in mano. Forse un migliaio. Carta giallastra, economica. Carta da giornale. Ma va bene, è quella che uso per scrivere. E non ce n’è. Da anni ormai si può trovare soltanto al mercato nero.
«Cazzo, piccola, finalmente ti si rivede».
«Ahi, papi, ma se sto sempre in casa. Perché non sei venuto a trovarmi?».
Mi diede i fogli.
«Grazie mille. Quanto ti sono costati?».
«Niente».
«Come, niente? Cosa hai fatto per averli, zoccola?».
«Non chiedermelo. Te l’avevo detto che ci avrei pensato io. Ed eccoteli qui».
«Cosa hai fatto?».
«Non ho fatto niente, amore mio. Prendili e basta».
«Vuoi un caffè?».
«Certo. Però non ho da fumare».
«E con lo yankee com’è andata? Non ti ha pagata?».
«Quale yankee?».
«Non fare la furba. Sei sparita da domenica. Te ne sei andata con quel frocetto a cercare uno yankee».
«Sono idee che ti metti in testa tu. Hai una grande immaginazione. Il tuo cervello trabocca di fantasie».
«Gloria, perché non hai sigarette?». Conoscevo a memoria la risposta.
«Non ho soldi, papito. Sono rimasta chiusa in casa ad aspettarti. E tu, invece, perso per la strada, chissà dove».
Le diedi trenta pesos.
«Compra rum, sigarette e un paio di sigari per me».
«Non bastano. Dammene quaranta».
«Macché quaranta, fattene bastare trenta. E sbrigati, che intanto preparo il caffè».
Nel giro di dieci minuti tornò con tutto. Ci sedemmo a bere il caffè. Volevo sapere a tutti i costi la storia dei fogli. Alla fine abbassò la guardia.
«Non ti avevo detto che il tizio di quella tipografia me li avrebbe dati?».
«Sì».
«È stato ieri, alle cinque. Mi ha detto di aspettarlo all’angolo finché gli altri lavoranti non se ne fossero andati».
«Ecco! E ti sei fatta scopare dietro la macchina da stampa».
«No, no. Farmi scopare da quello? Ma se è brutto come la fame. Uno sgorbio che se lo vedi scappi via dalla paura. Sembra il diavolo».
«Hai sempre detto che non ti piacciono gli uomini belli».
«È vero. Ma non esageriamo. Quel mostriciattolo batte tutti i record».
«Qualcosa avrai dovuto fare. Magari gli hai mostrato le tette...».
«Mi ha portata in fondo alla tipografia, mi ha dato il pacchetto di fogli, e senza che me ne rendessi
conto, aveva già tirato fuori l’uccello, dritto come un palo. “Fammi vedere le tette, fammi vedere la fica” diceva. Non sa neanche parlare. Un disastro totale. Però ha un cazzone lungo così! E grosso. Enorme!».
«Qualcosa di buono doveva avercelo. Se non altro l’uccello lungo».
«Sì. Meno male. In effetti devo ammettere che ce l’ha notevole».
«E gli hai fatto una sega».
«Chi, io? No, sono una ragazza troppo per bene, certe cose non le faccio. La sega se l’è fatta da solo. Io mi sono limitata a mostrargli un pochino di qua e un pochino di là. Mi ha succhiato una tetta, ed è venuto in due minuti. Ho preso i fogli e me ne sono andata, sculettando, e chi s’è visto s’è visto, sgorbio segaiolo».
«Bene, ormai i fogli sono qui».
«Se te ne servono di più te li procuro, papi. L’ho fatto impazzire. Pensa che è venuto e l’uccello continuava a restare dritto come un palo. Con quel grosso cazzo lungo e duro. Ma è tanto brutto! Sembra un pugile massacrato di botte».
Adesso ero io a essere arrapato. E le saltai addosso. Le storie che racconta mi fanno impazzire. Che poi non sono storie, ma la controstoria della storia ufficiale. L’antistoria. La sovrastoria. Ci piacciamo troppo. Mi piacciono le sue mani, i piedi, i capelli, il colore, la sua risata. Tutto. Mi piace annusarle e leccarle il culo. Mi piace stare dentro di lei. Un’ora, un’ora e mezza. Due ore. E parlare. Ha sempre un odore tenue sotto le ascelle. E questo mi manda fuori di testa. Mi tolsi la cinghia di cuoio intrecciato. E cominciai a frustarla dolcemente sulle natiche. Le lasciai cadere la saliva in bocca e lei perse ogni ritegno. Si voltò e mi offrì il culo. All’inizio le faceva male, ma implorava di
spingere più forte, non mi permetteva di tirarlo fuori, e intanto mi raccontava le sue imprese da marciapiede. Le piace da matti prenderlo in culo. Non posso descrivere il resto. Furono due ore di follia. È proprio bella. Ha un viso dal colore ambrato, stupendo, e denti bianchissimi.
«Ah, papi, lasciami venire a vivere con te e mettimi incinta. Per tranquillizzarmi. Tu fammi fare un figlio e io mi do una calmata e non scopo più con nessun altro. Solo con te, papi, solo con te. Il mio problema è che ho il fuoco tra le gambe. Sono così fin da bambina. Non riesco a controllarmi».
«Puttana senza cervello! Quando sarai una vecchia di settant’anni continuerai a cercare maschi per strada, svergognata».
«Oh, sì, tesorino mio, è proprio quello che mi piace fare. E anche andare nel “vallú de Milagros”».
«Che diavolo è il “vallú de Milagros”?».
«Ahh, vado lì e aspetto in una stanza che entri il prossimo. Completamente nuda. E gli chiedo subito i soldi. Mi piace quando mi sventolano i soldi sotto il naso e me li infilano nell’elastico delle mutandine».
«Che storia è questa, troia? Raccontami tutto, mi fai diventare pazzo».
«E tu mi confondi. Non mi era mai successo. Non so più neanche quello che dico. Perché parlo tanto?».
«Perché ti stai innamorando».
«Io sono già innamorata, scemo. In casa se ne sono resi conto tutti, ormai. Sono cotta di te».
Mi baciava il tatuaggio, lo succhiava e lo mordeva.
«Questo serpente rosso mi ipnotizza».
Si infilò la cinghia nella vagina e si offriva e mi chiedeva di scoparla ancora. E intanto continuava a baciare il serpente rosso.
«Non venire, cazzo, non venire! Dammene ancora, cazzo, di più, di più!».
Era una vera stella del porno. Geniale. Una follia. Quando non ce la feci più la irrorai di sperma scalciando, urlando, sbuffando come un toro. Le diedi un ceffone e crollai in preda alle convulsioni, precipitai fino alle cantine del condominio, rimbalzai e tornai sul letto, spremuto come un limone, sfracellato, ridotto a un mucchio di carne macinata.
Ci voleva un sorso di rum e un buon sigaro per rimettermi in sesto. Andai alla finestra, a osservare il mare e la città, sotto un sole splendente. Lei mi abbracciò da dietro.
«Ah, papi, quando vieni non sei più tu».
«E chi sarei? Se mi spremi fino al midollo, mi risucchi il cervello dal culo, mi strappi le ossa...».
«Non sei tu. È l’africano. Il nero che ti sta accanto. Sbuffi, imprechi, urli e perdi completamente la testa. Non sai neppure quello che fai. È l’africano che gode al posto tuo».
«Anche tu con questa storia dell’africano?».
«Lo sai bene. Non devo spiegarti niente. L’africano ti usa. Ecco perché scopi come un selvaggio. E per di più ti succede il contrario che agli altri uomini. Più invecchi e più ti diventa grosso, duro, e hai più sperma di prima, e sai farlo meglio. Chi viene a letto con te... Accidenti, sei una trappola. Una trappola piazzata sul letto».
Dopo quelle scopate mi sentivo più maschio, più forte, più selvaggio. E con tanti saluti a Lacan, che se ha da dire qualcosa infiliamo nel letto pure lui e facciamo un trio lacaniano e tutti felici e contenti.
«Guarda, papi, ti ho preso un regalino».
Tirò fuori dalla borsa un paio di pantaloncini gial-
li e una maglietta a maniche corte: viola, gialla e nera. Pensai: “Merda, vanno bene per il carnevale o per un viaggio in Giamaica”, ma non dissi niente.
«La maglietta va bene per mostrare il tatuaggio». Mi infilai sia la maglietta che i pantaloncini.
«E questo regalo che significa?».
«Lo yankee mi ha dato dei dollari».
«Lo yankee di domenica?».
«Sì. È un vecchio sulla settantina. Un coglione».
«Di dov’è?».
«Ah, non lo so. Dice che è sindaco di un paesino e ha dei negozi di vini».
«Allora sarà spagnolo».
«Non parla con accento spagnolo».
«E come parla?».
«Non lo so. Non gli ho chiesto da dove viene. Ha un nome stranissimo ma non me lo ricordo più. L’unica cosa che mi interessa è fargli sborsare i soldi e poi lo faccio arrapare un po’. Mi spoglio davanti a lui e gli infilo i vibratori nel culo. Ha una collezione di almeno dieci vibratori».
«Vibratori?».
«Di tutte le misure e di vari colori. Ha una valigetta piena di vibratori e creme. Quel vecchio è proprio suonato. Non gli funziona qualche rotella e non so come faccia a essere sindaco e a gestire affari... be’, ogni matto se la cava a modo suo. Comunque, ho rimediato un po’ di grana, e mi ha anche dato un cinquantone di mancia. Ho risolto i problemi di casa. Adesso c’è di che tirare avanti per una settimana e ho anche potuto comprarti questo regalino perché io non mi scordo mai di te».
«Sei proprio una gran puttana».
«Sarò una puttana ma ti voglio bene. Sono proprio
cmtta dk te e tu sei il mio uomo. Va bene, faccio la puttana, e allora? Te l’ho già detto che se mi sposi, la pianto lì. Vivo solo per te. Per te e per i figli che avremo. Ecco cosa voglio dalla vita».
«Cosa vuoi dalla vita? A te piace fare la signora in casa e la troia per la strada. Le due cose contemporaneamente».
«No, papi, no. La signora, solo la signora. A casa, con i bambini, a fare una vita tranquilla. Insomma, non ho mai visto nessuna che faccia la puttana per tutta la vita. Magari per un certo periodo. E chi non l’ha mai fatto, ogni tanto vorrebbe esserlo. Il fatto è che tu sei un uomo e gli uomini non sanno come siamo noi donne».
«Ah, piantala con certe teorie e non tirartela da sociologa».
«Io non sono niente. Ma ti sto dicendo la verità. E comunque, tutti sono cattivi entro certi limiti».
«Tu non sei cattiva».
«Però tu mi vedi così. Come se fossi un diavolo».
«Io non vedo proprio niente».
«Va bene, ognuno è quello che è».
«Andiamo al mare?».
«Adesso?».
«Adesso».
«Ma non ho più un soldo».
«E quelli del vecchio?».
«Li ho già spesi, amore mio, erano soltanto pochi pesos».
«Tira fuori qualche dollaro e andiamocene al mare».
«No, no. Li ho già spesi».
«Tira fuori qualche dollaro o ti pesto a sangue».
Presi la cinghia. Le rifilai due o tre cinghiate sulla schiena e sul culo.
«Ahi, basta, smettila, disgraziato! Te ne approfitti!».
«Vai a prendere i soldi».
«Quanto?».
«Venti dollari».
«Ma sono troppi. Vuoi andare a Varadero o a Guanabo?».
«A Guanabo».
«Me ne sono rimasti solo dieci».
Le diedi un altro paio di cinghiate. La scaraventai sul letto e mi ridiventò duro. Ce la spassammo un altro po’.
«Ah, il mio bel maschione, quanto mi piace, cazzo! Mi piace essere la tua puttana, la tua signora, la tua fidanzata, tutto. Come sarebbe bello se mi sposassi, papi, io con il vestito bianco e anche tu in completo bianco. Elegantissimi. Su una Cadillac gialla, con i palloncini, suonando il clacson per tutto il Malecón e che L’Avana intera lo venga a sapere. Che lo sappiano tutti, scatenando un casino che se lo ricordano per un pezzo. Sputami in bocca, stronzo, sei proprio un pazzo, dammi quel gran uccello, ficcamelo dentro fino all’ombelico».
Continuammo a giocare per un bel po’. Poi basta. Ci alzammo dal letto. Lei andò a casa sua. Tornò con quindici dollari e me li diede.
«Prendi questi, papito. Per arrivare a Guanabo bastano e avanzano».
«O a Santa María».
«Santa María è piena di battone pronte a saltarti addosso, quelle gran puttane, e finisce che dovrò rompere la faccia a qualcuna di loro».
«Ed è anche pieno di turisti stranieri. E quelli saltano addosso a te, i pezzi di merda».
Arrivammo a piedi fino a Corrales. Nessun autobus
in vista. Salimmo su un camioncino da dieci pesos e andammo sulla stessa spiaggia con le palme della domenica precedente. L’uomo è un animale abitudinario. La spiaggia stavolta era pulita. C’erano delle vecchie che raccoglievano la spazzatura. La mettevano in grossi sacchi che poi trascinavano sulla sabbia. A un certo punto arrivò un tipo, su una moto spettacolare, tutta cromata, e con una mulatta ancora più spettacolare, succulenta, gran culo, una fica incredibile, sanissima. Si spogliò e rimase con appena un filo interdentale tra le chiappe. Cazzo, era praticamente nuda, si mostrava con disinvoltura, e rideva! Quella donna era un concentrato di lussuria e perversione. Portava una decina di collane d’oro e altrettanti braccialetti, e persino alle caviglie, più una catenina che dal naso le arrivava all’orecchio destro. Erano forse extraterrestri? Andarono a sedersi all’ombra di una palma a bere rum e ad ascoltare bolero e ranchera, e a godersi la loro passione. Niente spiaggia, mare o sole. Soltanto rum, musica e slinguate.
Mi feci una bella nuotata. Arrivai piuttosto lontano. Quando tornai a riva, tonificato e in forma, mi ritrovai Gloria che giocava alle mogli. Chiacchierava con una gentile signora sdraiata sotto una palma, a due metri dalla nostra. Le brave signore che vanno in spiaggia con i mariti, a fare un picnic, e conversano amabilmente di argomenti banali: la scuola dei figli, come fare una paella senza frutti di mare perché non ce ne sono, e roba del genere. La signora stava raccontando la sua vita in ogni dettaglio: era depressa, il marito l’aveva piantata per andarsene a Miami, “una volta mi ha mandato una letterina e venti dollari e poi non si è più fatto vivo”. Continuò a parlare male del tipo. Era avaro, un gran taccagno, la tradiva con altre
donne, le faceva patire la fame, e Gloria sembrava molto interessata a quelle stronzate. Io intanto mi attaccavo alla bottiglia e guardavo da un’altra parte. Gloria, atteggiandosi a signora di buona famiglia, si volta e dice, in tono distaccato:
«Tesoro mio, non bere più. Lo sai che ti fa male». Ma vaffanculo. Gloria si fa coinvolgere facilmente in certe situazioni e allora le si centuplica l’imbecillità. Mi stava sui coglioni quella donna che raccontava la sua vita, comprese le malattie della madre, l’allevamento delle galline, la depressione perché gli uomini non se la filavano, “ho solo trentanove anni e non sono poi così brutta, no? E ho una figlia che ormai è una signorina e la mantengo io. Il problema è che agli uomini piacciono molto più giovani”. A quel
punto si rivolse a me.
«Sua moglie mi ha detto che lei è uno scrittore».
«Mia moglie? Quale moglie?».
«Sì, lei, ehhh... e ha già pubblicato o...?».
«O cosa?».
«O non ha pubblicato?».
«Sì».
«Le spiego perché glielo chiedo. Guardi com’è piccolo il mondo. Io sono un’esperta di letteratura cubana, e stiamo realizzando un dizionario degli scrittori. Quando si dice il caso».
«Ah, ecco».
«Vogliamo renderlo più completo possibile. Lei ha ricevuto la scheda da compilare?».
«Per farne che?».
«Perché compaia nell’elenco. Ci abbiamo messo praticamente tutti. Persino chi ha vinto un piccolo premio alla casa della cultura municipale di Buey Arriba».
«Ah, sì? Che bello. Sarà un dizionario indubbiamente utile».
«È ciò che stiamo tentando di ottenere, compagno».
«E quelli che sono all’estero?».
«Anche. Tutti, tutti. Stavolta non succederà come in passato. Ehh... E quindi vorrei compilare la sua scheda».
«No, grazie».
«Ma lei è o non è uno scrittore? Ha vinto qualche premio?».
«Non ho mai vinto niente. Perdo sempre».
«Ah, peccato, se non ha mai vinto un concorso, o qualche premio, allora non so che dirle, perché in tal caso non possiede un curriculum. Non so se la commissione potrà includerla nel dizionario. Sarebbe importante, perché comparire lì significa raggiungere un certo livello, mi capisce? E lei cosa scrive? Poesie?».
«Ohi, signora. Vuole bere un sorso?».
«Sto cercando di aiutarla a essere incluso nel dizionario perché questo favorirebbe la pubblicazione all’estero. Se ne rende conto?».
«Vuole un sorso di rum? È buono, sa».
«No, no. Sto prendendo trifluoperazina con amitriptilina. Non posso bere alcolici».
«Gloria, andiamo a fare il bagno. Signora, potrebbe dare un’occhiata alla nostra roba?».
«Sì, come no. Ci penso io. Anche se adesso, con la quantità di poliziotti che girano da queste parti, non c’è alcun problema. Poliziotti ovunque. Ma va bene così. Mi sento più sicura e tranquilla. Vero? Se ne stanno lì tutto il giorno, e chiedono i documenti a chiunque passi. Ci voleva proprio. Anzi, dovrebbero metterne di più, molti di più. Il fatto è che mancando
il lavoro la delinquenza aumenta sempre di più e rende la vita impossibile alle persone oneste. Io sono d’accordo su una presenza più massiccia della polizia e su maggiori controlli. Vede, nel mio quartiere...».
«D’accordo, signora, scusi ma noi andiamo a fare il bagno».
«Andate, andate pure. A me il mare fa paura. Non entrerei in acqua per nulla al mondo. Baderò io alla vostra roba».
Presi Gloria per un braccio, la trascinai via, e ci tuffammo.
«Adesso ti affogo, cazzo!».
«No, papi, non fare scherzi che qui non tocco!».
«Per quale cazzo di motivo giochi a fare la moglie con quella rompicoglioni?».
«Oh, Pedro, è una brava persona, ha studiato e si vede. Cosa le dovevo dire, che tu sei un morto di fame e io una somara e che ci troviamo qui perché mi sono fatta uno yankee guadagnandoci quindici dollari? No, amore mio, i problemi li lascio a casa e nessuno deve saperne niente. Tu sei scrittore e giornalista e tutto il resto e io sono la tua signora! Proprio così, due persone a modo. Se quella racconta la sua vita al primo che capita, sono cavoli suoi. Ma io no, la mia vita è un segreto, che mi porterò nella tomba».
«Gloria, quando sei in vena di dire cazzate non ti ferma nessuno».
«Perché?».
«Perché sai che la tua vita non è un segreto per nessuno e tu non sei la moglie del faraone e stronzate del genere».
«Che vuoi dire? Parla chiaro. Cosa sarebbe ’sta storia della moglie del faraone?».
«I faraoni si portavano tutto nella tomba...».
«Ah, papi, non confondermi le idee con certe stranezze».
«Gloria, cazzo, sei proprio una bestia!».
«Papi, so di essere un po’ grezza, però ti piaccio così. Senti, voglio dirti una cosa: le coppie migliori sono quelle tra persone differenti. Quando uno non ha niente da spartire con l’altro. Tu sei molto intelligente e te la meni da istruito e colto, e scrivi, e questo e quell’altro, ma io...».
«Basta, piantala. Dacci un taglio. Ho voglia di scoparti qui, subito».
«Quanto mi piace scopare in acqua. È un sacco di tempo che non lo faccio. Sì, tesoro, sì. Ficcamelo dentro. Dài, vieni qui».
Prima la scaldai un po’ strofinandogliela con il dito. Due dita, tre dita, quattro. Il pollice glielo misi nel culo. Si arrapò. Anch’io. Poi scopammo galleggiando, come le aragoste. È fantastico farlo nell’acqua. Gloria, avvinghiata ai miei fianchi, si muoveva leggermente e io la penetrai a fondo.