Il ritorno all’Avana fu divertente. Il camioncino era un vecchio Ford del 1945 o giù di lì. Avevano sistemato alcune panche di legno sul cassone e ci stavano almeno una dozzina di persone. Salì anche una donna molto giovane, prossima a partorire. Viaggiava con il marito. Si sedettero di fronte a noi. Lei era quasi nuda, con l’enorme pancia perfettamente rotonda e i seni gonfi e voluminosi e le cosce e le natiche altrettanto floride. Indossava un bikini e una veste molto leggera e trasparente, di batik africano. Si
sorreggeva il pancione, come se il bambino dovesse uscire da un momento all’altro. Erano entrambi molto giovani. Il tipo aveva l’aria da bullo, denti d’oro e collane di Changó e Yemayá e i tipici tatuaggi da ex carcerato. Tre numeri sul braccio sinistro. Li mostrava con orgoglio. Indossava soltanto i pantaloncini, a torso nudo. La maglietta la teneva in mano e grondava sudore. Una grossa cicatrice gli attraversava in diagonale il torace dal capezzolo sinistro fino all’ombelico. Qualcuno aveva cercato di fargli la festa, probabilmente. Era meglio evitare di guardarli troppo. Comunque, portavo occhiali da sole scuri e così potevo sbirciarli senza che se ne accorgessero. La ragazza era proprio bella. Una tentazione. Mi sono sempre piaciute le donne incinte. E quella era praticamente nuda, seduta proprio di fronte a me. Il camioncino non entrò a Guanabacoa. Tirò dritto verso il tunnel sotto la baia. Allora il tipo urlò all’autista:
«Ehi, tu, senti, dove stai andando?».
«All’Avana. Passando per il tunnel».
«No, amico, no. Io scendo al semaforo di Guanabacoa».
«Ah, non passo da lì».
«Fermati, fermati. Lasciami qui».
Scesero in mezzo alla strada. La ragazza aveva dei dolori. Si sorreggeva il ventre e barcollava, nello sforzo di non partorire subito. Si mordeva le labbra e sudava, resistendo in silenzio. Il camioncino riprese la marcia. Un vecchio disse:
«Quel tipo è pazzo. La donna finirà per partorire in mezzo alla strada».
Una donna ribatté:
«È ubriaco».
«Davvero?».
«Gli puzzava il fiato di alcol che si sentiva fin qui. E la ragazza è proprio matta. Al posto suo gli dicevo: “Tu resta qui che io vado dritta all’ospedale”».
Un’altra donna si intromise:
«La colpa è di lei. Come può venirle in mente di andarsene in spiaggia se sta per partorire?».
«Il fatto è che certi uomini non hanno un minimo di sensibilità. Si vede subito che quello è un animale».
«Ah, i giovani, i giovani».
«No, essere giovani non c’entra niente. Io ho quattro figli e il primo l’ho partorito a sedici anni. E ho fatto tutto da sola, perché a quei tempi mio marito era miliziano e non stava mai a casa».
«I giovani pensano che tutto sia un divertimento.
A quell’età non hanno giudizio».
E continuarono con quella solfa. Staccai la spina. Avevo lo zaino pieno di manghi. Li avevo comprati da una famiglia di Cotorro. Erano arrivati in spiaggia con due sacchi di manghi, una marea di bambini e i loro vecchi, più varie bottiglie di rum. Una decina di persone su un camioncino sgangherato. Tutti molto magri, alti e mori. Quando la polizia si allontanava, uno di loro, il più giovane, già con moglie e tre figli, partiva con la borsa in spalla. I bambini strillavano: “Papà, portaci con te”. La moglie afferrava i piccoli come una chioccia che bada ai pulcini. Lui girava tra la gente gridando: “Manghi maturi a un peso”. Ne avevo comprati un po’. Poi era riuscito a vendermene ancora abbassando il prezzo. Alla fine, il tipo smilzo aveva bevuto abbastanza rum da avvicinarsi con fare amichevole. Dopo avermi offerto da bere e regalato gli ultimi venti manghi rimasti, si era interessato al mio tatuaggio. Voleva tatuarsi un San Lazzaro sulla schiena, ma non si fidava perché l’inchiostro è di pes-
sima qualità e con il tempo scolorisce, e via dicendo. Eravamo rimasti a chiacchierare per un po’, mi aveva anche invitato a casa sua. Potevo andare a trovarlo quando volevo. Insomma, un brav’uomo. Alla fine ero rimasto con un mucchio di manghi nello zaino e mezza bottiglia di rum in corpo.
L’indomani lo passai a mangiare manghi. E a sgomberare gli scaffali dai libri inutili. Pesavano troppo per la mia piccola biblioteca... Le opinioni di Lunacˇ arskij riguardo la cultura, l’arte e la letteratura, La fortezza di Brest, Così si forgiò l’acciaio, scritti di Engels sull’arte, Un uomo vero di Boris Polevoj, opuscoli con discorsi, comizi a favore di questo e contro quest’altro, Crisi e cambiamenti nella sinistra, La spirale del tradimento di tizio, Estetica e rivoluzione, La rivoluzione tradita, di Trockij. A un certo punto mi telefonò Kurt. Voleva salutarmi prima di partire. Tutto risolto. I genitori gli avevano spedito il denaro necessario. Potevamo vederci tra un’ora per bere qualcosa insieme? Voleva ringraziarmi per tutto quello che avevo fatto. No, Kurt, sei molto gentile, ma va bene così, fai buon viaggio.
Avrei trascorso diversi giorni in totale tranquillità. Gloria diceva di amarmi però poi spariva dalla circolazione, chissà dove diavolo era. Continuava ad arrivare gente, telefonate, improvvisate. L’indomani della partenza di Kurt arrivò Ingrid. Sono amici. Kurt mi aveva chiesto di farle da cicerone all’Avana. Venne a trovarmi una sera, con il figlio tredicenne. Un caffè, due chiacchiere, un bicchiere di rum. Mi chiese di poter andare in bagno. Ovviamente, dispongo di un foro strategico proprio dietro la tazza. Non persi l’occasione. Bel culo. Gran bel culo davvero. Delizioso. Le offrii altro rum, misi della musica e la invitai a bal-
lare. Impossibile. Ingrid saltava freneticamente. Armando Manzanero cantava “con te ho imparato che la settimana ha più di sette giorni...”, ma lei saltellava e rideva, non c’era verso. A Cuba voleva divertirsi. Le diedi ancora del rum e cercai di stringerla a me per strofinarle l’uccello tra le cosce. Ma quella continuava a saltare come una stupida e rideva, con la faccia rossa quanto un pomodoro. Le misi le mani sulle natiche. E nemmeno se ne accorse. Non resistetti oltre e le afferrai la fica, stringendola forte. Ce l’aveva bella grossa. Una fica carnosa. Non si lasciò andare per niente e disse tremando tutta: “Oh, no, il bambino, mi dispiace, mi dispiace, scusa, addio”. E si precipitò giù dalle scale tenendo stretto il figlio per il polso. Avevo solo cercato di essere un buon cicerone e di farla divertire alla maniera cubana. Avevo fatto il possibile.
Vanno e vengono. Ognuna con la sua storia. Alcune hanno letto la Trilogia sporca e vogliono raccontarmi qualcosa della loro vita. A volte mi lasciano lettere, musicassette, restano imbambolate e aspettano che la tigre le assalga e le divori. Invece no. Non posso ficcare l’uccello in tutti i buchi umidi e pelosi che mi passano davanti. O meglio, potrei anche, ma non intendo soddisfare richieste come se fossi un cantante di cabaret. Forse sono stanco di scopare con chi capita. Da giovane ero di bocca buona e bastava che respirassero, mi andavano bene tutte. E ci provavo gusto. Qualsiasi ciofeca mi sembrava una delizia. Poi, con gli anni, si diventa selettivi e il palato pretende sapori da gourmet. Per esempio, Ingrid mi arrapava perché l’avevo spiata dal buco, ma ripensandoci meglio, era troppo grassa per i miei gusti, troppo bianca, con un eccesso di adipe. Una donna semplice, sana, un po’ lenta, di buone maniere. Una donna che
sicuramente soffoca le grida quando le infili l’uccello dentro perché gridare non è educato. La buona educazione impone di reprimersi. Tutt’al più, un discreto sospiro. Si sviluppa un sesto senso per certe cose... non era fatta per me. Altre sono troppo mascoline, delle virago muscolose. Non solo nel fisico ma anche nello spirito. Neanche queste fanno per me. Ci sono tante donne del genere che girano per il mondo. Si annoiano e sbadigliano. Non sanno cosa fare e magari si dedicano ai gatti e ai cagnolini. Qualcuna crede che le sarebbe utile avere un’avventura con un maschio rozzo e brutale. Si costruiscono l’immagine del maschio nella propria testa e vanno a cercarselo. Perché, ovviamente, non ce l’hanno mai a portata di mano. Si illudono di essere scafate perché da giovani sono scappate da casa con lo zaino e pochi soldi viaggiando verso sud. Quasi hippy. O almeno così credono. In mezzo alla massa, qualcuna brilla di luce propria. Pochissime, ma ogni tanto si incontrano.
Maura, per esempio. È intelligente e domina lo spazio intorno a sé. Non si è persa per strada, o comunque non sembra. Non è matta, né ansiosa e non ha paure. O almeno così sembra, ripeto. Ha preso una pausa dopo una lunga relazione durata tredici anni che ha appena troncato. È amica di un vecchio amico che negli anni difficili (più di questi) veniva all’Avana e mi esortava: “Vai a Malaga con Ana, qui finirai per impazzire”. Dunque, arriva Maura con una lettera del mio amico. Vuole farsi una vacanza. Nei primi giorni si era annoiata. Poi mi ha detto che un nero, uno di quelli che pedalano sui tricicli, la scopava forsennatamente tutte le notti. Con il preservativo. Mi aveva confessato che, partendo da Buenos Aires, “gli amici mi hanno regalato pacchetti di pre-
servativi perché mi facessi qualche storia prima di tornare”.
«Ma sei a riposo o no?».
«Sì, certo. Ma è un riposo spirituale. Emotivo. Il nero ha insistito tanto. Ed è un bel tipo, sai. Bellissimo. Che energia, non l’avrei mai immaginato! Tutta la notte! Mi sfinisce. Non reggo. Ha una tale immaginazione! Portentoso, quel nero, sa il fatto suo!».
Quando la immaginavo felice con il suo black taxi driver, ricompare innamoratissima di un diplomatico europeo. Un tipo che era l’esatto opposto: bianco, colto, con gli occhiali, grassoccio, tenero, delicato, stucchevole, figlio di papà, e per di più in giacca e cravatta e scarpe nere.
Mi ha lasciato di stucco. Probabilmente lei sapeva quello che voleva. Insomma, una sera uscimmo tutti e tre per andare a berci un caffè, in un locale sul Malecón. Una volta seduti, il diplomatico andò in bagno, e così non resistetti alla tentazione.
«Maura, allora? Il buon selvaggio o il cartesiano?».
«Il buon selvaggio va bene per qualche giorno...».
«Per qualche notte».
«Infatti. Qualche notte. Ma è troppo intenso, sai. Mi è venuta un’infiammazione pelvica, mi fanno male i muscoli in tutta quella zona. Oh, non puoi neppure immaginare quanto sia intenso il nero. Geniale, potente, ma non posso vivere impalata ventiquattr’ore su ventiquattro».
«E con questo signore?».
«Niente».
«Niente?».
«Niente».
«Un cambiamento radicale».
«Sì. Inoltre, è un po’ effeminato... ohh... a dire il
vero, non solo un po’. Temo sia totalmente effeminato, ma me ne vado in Europa con lui e... insomma, è così».
«Va bene. Non si può avere tutto contemporaneamente».
«Proprio così, Pedro Juan. Sei intelligente. Per essere un uomo, hai i neuroni che marciano al ritmo giusto».
«E se ti annoi, puoi sempre tornare a Cuba per qualche giorno».
«Sì, ma dovrò cercarmi qualcuno di una taglia inferiore perché quel nero è sproporzionato. Non è umano».
«Questo ti risulterà molto difficile. Non impossibile, ma difficile».
Il diplomatico tornò dal bagno. Ci interruppe. Stavo per spiegarle come fare per trovare qualcuno con le dimensioni più adeguate alla sua profondità. In quel momento entrarono tre tizi in uniforme nera, giubbotti antiproiettile e mitra. Serissimi, nervosi. Due stavano di guardia, all’erta, lanciando occhiate in tutte le direzioni. Il terzo si diresse a una macchina mangiadollari. Di quelle che infili un dollaro e hai pochi secondi a disposizione per manovrare una pinzarobot con cui tentare di afferrare un orsetto di peluche. Ma non ci riesci mai e intanto la macchina si è ingoiata la banconota che non rivedrai più. Dunque, uno dei tizi andò ad aprirla, senza mollare mai il mitra. Tirò fuori tutti gli orsetti e li contò. Prese nota su un foglio. Aprì lo sportello sotto il marchingegno, estrasse una certa quantità di dollari in biglietti da uno. Saranno stati venti o trenta. Li infilò in una borsa di tela mettendoci poi una sorta di sigillo. Richiuse la macchina. Controllò che tutto fosse a posto per-
ché continuasse a mangiare banconote. Passò il mitra dalla sinistra alla destra. Fece un cenno agli altri e tutti e tre si ritirarono verso il mezzo che li stava aspettando: un furgone blindato nero, con un grande scudo dorato e la sigla della ditta portavalori. L’autista era rimasto in attesa al proprio posto, con il motore acceso.
Se ne andarono. Tornammo alla realtà. Ci rilassammo. Riprendemmo a sorridere. Ordinammo da bere. Maura si mise a raccontare le sue avventure cubane. Non quelle con il nero. Il taxi driver era un segreto militare. Rivelarlo poteva costarle la vita. Raccontò avventure innocenti e giocose. Per esempio, dei tanti jineteros che la abbordavano offrendole di sposarla, o in subordine rum e sigari. “Non passa giorno senza che qualcuno mi proponga di sposarlo, e io rispondo sempre: nooo, calma, sono a riposo. Non voglio saperne degli uomini dopo tredici anni con quel coglione. Non so neppure come sia potuto succedere con Luis Manuel. Un colpo di fulmine inaspettato. Mi ha conquistata da gentiluomo, ma quei jineteros volgari... neanche sanno esprimersi. Non si capisce niente quando parlano”.
«Sono vagabondi in cerca di avventure, come se ne trovano un po’ dappertutto» dissi io, per appoggiarla nella sua recita.
«Non credo. Non ci sono vagabondi ovunque. Noi argentini sì, che siamo dei vagabondi. Sempre in giro per il mondo, ci riteniamo i migliori in tutto, nel calcio, negli affari, nel sesso. Alla fine riusciamo a essere insopportabili, e risultiamo antipatici a mezza umanità, e ormai nessuno vuole più sentir parlare di noi».
«Maura, stai esagerando».
«Ti dico di sì, Pedro Juan, siamo diventati insop-
portabili e a voi succederà la stessa cosa. Ovunque vada si parla dei cubani, i migliori nella musica, le donne più belle, gli uomini più qua e più là, e ci sono cubani da tutte le parti, spuntano come funghi. E uno pensa: ma questi cubani si credono al centro del mondo. Dammi retta, alla fine vedrai, non vi sopporterà più nessuno».
«Può darsi, ma forse non ci teniamo così tanto a rubare la scena».
«Chissà, magari i cubani no, ma gli argentini, di sicuro. Sempre al centro dell’attenzione, a qualunque costo».
«E non si stancano mai? Stare sotto i riflettori è snervante».
«È un vizio, Pedro Juan. Un po’ come il vizio del potere. O del denaro. Ti convinci di meritare il potere o che ti spetti tutto l’oro del mondo, o che sei inviato da Dio per salvare l’umanità. E così via. Nessuno può togliertelo dalla testa».
Il diplomatico ascoltava rapito le parole di Maura. Un tipo grasso venne a salutarlo da un tavolo vicino. E ci interruppe. Era un tizio untuoso, molliccio, gelatinoso, mezzo frocio, coperto di catene e anelli d’oro, con una camicia a fiori e un sorriso stucchevole e mellifluo. Spregevole. Il diplomatico lo salutò a distanza, ma il tipo non volle capirla, e venne a salutarci tutti e tre. Si presentò con un nome qualsiasi, e aggiunse: “Sono mercante d’arte e antichità. Con il vostro permesso, vi lascio il mio biglietto da visita”. Ne porse uno a Maura. Poi mi guardò bene. A me non lo diede. I cubani non gli interessavano. Si inchinò verso Maura: “Signora, le bacio la mano”.
Il tipo era un vero rompicoglioni. Finalmente, se ne tornò al suo tavolo. Maura sbottò:
«Che idiota!».
E il diplomatico:
«La Bavosa».
«Come? Lo chiamano La Bavosa?».
«Sì. Non lo vedi? Si lascia dietro una scia di bava».
«Ha detto che commercia in arte».
«Qualcosa di più. L’Avana funziona come un piccolo villaggio. Quando sono arrivato qui per prima cosa mi hanno mandato delle mulatte. Molte. Ma non mi interessano le mulatte. Allora sono arrivati i mulatti. Belli come adoni, efebi, incantevoli, sublimi. Neppure i mulatti mi interessano. Poi, droga. Non ne ho bisogno, anzi, sono allergico. A quel punto compare La Bavosa offrendomi oggetti d’arte: porcellane, bronzi, gioielli antichi, oro, argenteria, mobili, quadri d’autore. Tutto a prezzi stracciati. Una vera tentazione. Per poco non cado nella trappola, se un altro diplomatico non mi avesse avvertito: stop, La Bavosa è avvelenata. E da allora cerco sempre di tenerlo a distanza».
«E riesci a restare così tranquillo?».
«Be’, non è che sia Mata Hari, però ci si abitua. Se non hai i nervi saldi è meglio dedicarsi ad altro. Noi diplomatici dobbiamo inventare stratagemmi per sopravvivere. Al pari di qualsiasi mestiere pericoloso. I paracadutisti, gli astronauti, i pompieri. Ogni mestiere ha i suoi segreti».
«Per fortuna non mi piacciono i mestieri pericolosi».
«Il tuo è tremendo, Pedro Juan. Il peggiore di tutti. I potenti temono le idee e le parole. Ne sono terrorizzati».