Tornai nella mia casa sul tetto. Niente da fare. Accesi il televisore. Trasmettevano una riunione di presidenti di vari paesi. Lo spensi. Uscii in terrazza. All’aria pura. Il mare mi calma. La perturbazione aveva sporcato l’azzurro del cielo. E trascinato a riva mucchi di alghe. Mi sarebbe piaciuto essere un marinaio. Partire e ripartire. Allontanarmi da tutto. Vivere a distanza. Dire sempre addio. Una volta dopo l’altra. Addio, addio, fino a perdermi in alto mare. Brammm! Lo schianto mi distolse dai miei pensieri. O dai nonpensieri. Una vecchia Oldsmobile del ‘50 o del ‘51. Tettuccio bianco e il resto rosso mattone, un colore strano e sgradevole. Non esattamente rosso ma neppure mattone. E neanche il bianco è bianco. L’avevano verniciata con il pennello. Si notavano i colpi di setola, un pessimo lavoro, sopra ammaccature e graffi. Si bloccò in mezzo a calle San Lázaro facendo un fracasso infernale. Era partito un semiasse, il posteriore sinistro. La ruota si era staccata rotolando fino al marciapiede e l’auto sembrava un animale ferito, sbracato a terra come un enorme e vecchio dinosauro che non riesce più a camminare e crolla bocconi in mezzo alla selva. Il semiasse spezzato si piantò nell’asfalto bollente. Due tipi in pantaloncini, maglietta e ciabatte di gomma scesero tranquillamente dalla macchina. A quanto pareva erano abituati a simili disastri. Non si scomposero. Sollevarono l’auto con il cric, infilarono sotto pietre e mattoni, e si misero a ripararla lì, in mezzo alla strada. Lo scarso traffico scorreva a sinistra e a destra dei due tipi. In pochi minuti il dinosauro si dissanguò. Si formò tutto intorno una pozza di liquidi oleosi e grassi. I tipi non sem-
brarono preoccuparsene. Presero degli attrezzi dal baule. Erano ben equipaggiati. E ci diedero dentro. Saranno state le quattro del pomeriggio. Avevano luce sufficiente. Se fossero andati avanti fino a sera, avrebbero continuato a tentoni.
Me ne stavo lassù. Osservavo come riparavano il dinosauro, e già che c’ero sbirciavo una ragazza superculona e supertettona che da poco aveva traslocato nell’edificio di fianco. Indossa vestiti così stretti che a volte non riesce a respirare bene. Si toglie le scarpe, mette la musica a tutto volume ed esce sulla terrazza a prendere secchi d’acqua dai serbatoi. Spazza, sfrega, lava, come una matta. Il marito è ingegnere. Abitano in una piccola stanza che hanno improvvisato loro stessi usando mattoni, assi di legno e tettoie ondulate. Circa quattro metri per quattro, sulla terrazza dell’edificio. Mi piace starla a guardare nel tardo pomeriggio, quando cala il sole. I due si siedono in terrazza, al fresco, e lavorano un paio d’ore: fanno collane e braccialetti di perline per la santeria, fibbie, cinturini, fermagli per capelli. Vivono di quello. Lo stipendio non basta loro neppure per cominciare il mese. Ogni tanto lei lascia il marito a infilare perline e corre a lavare il pavimento. È ossessionata dalla pulizia. Forse infilare perline la sfinisce intellettualmente. Il suo cervello non resiste a un lavorìo così intenso e allora pianta tutto e va a lavare. A consumare energie sfregando il pavimento. E sembra felice nel mostrare il culo e le tette, perché tutti sappiano che è appetibile come un dolce di cocco.
Bussarono alla porta. Trucutú e Pelé. Venuti a sistemare l’antenna. Sono giovani. Avranno circa trent’anni. Sono nati e cresciuti qui e conoscono il quartiere come le proprie tasche. Non gli sfugge niente.
Andare al Vedado, al Cerro o a Guanabacoa, lo considerano un lungo viaggio. Qualche mese fa Pelé ha piazzato sulla mia terrazza un’antenna per ricevere le trasmissioni da Miami. È illegale, ma lui va pazzo per lo show di Cristina. Tutti i suoi fratelli vivono a Miami. Trucu ha un’officina da gommista e i due sono vecchi soci. Girano sempre insieme. Nel bene e nel male. Rattoppano pneumatici, lavano macchine, le riparano, fanno di tutto: meccanico, elettrauto, idraulico, mercato nero. Tutto per guadagnarsi la giornata. Nonostante ciò, Trucu patisce la fame ed è magro. Una magrezza da affamato. Pelé invece è robusto e sembra alimentarsi meglio. La Oldsmobile in panne si è fermata proprio davanti all’officina. Dalla terrazza, osserviamo i due tipi al lavoro. Trucu sbotta:
«Quei morti di fame taccagni tireranno avanti così fino a domani».
«Perché? Li conosci?».
«No, ma ci siamo offerti di ripararla noi e quelli hanno detto di no, che ci pensano loro».
«Non dev’essere troppo complicato: in due o tre ore...».
«Due o tre ore? Un semiasse? Si vede che di meccanica non sai niente, Pedro Juan. Ci metteranno almeno dieci ore, se va bene. E tutto per risparmiare qualche peso».
«Sì, altro che qualche pesos. Tu e Pelé gli fareste sborsare almeno trecento pesos».
Pelé intervenne in tono deciso:
«Quel lavoro vale cinquecento pesos, amico. Per meno non lo farei mai. Però è garantito. Noi diamo la garanzia. Quella bagnarola di merda potrà rompersi da tutte le parti tranne lì. Il semiasse che ripa-
riamo noi non si spezzerà mai più in tutta la loro vita. Puoi giurarci!».
«Va bene, ho capito. Non farti troppa pubblicità. Quando comprerò una macchina sarete i miei meccanici di fiducia».
«Hai intenzione di comprarti una macchina, amico? Cazzo, ottimo. Allora hai dei soldi nascosti. Sei un tipo in gamba. Pedro Juan, tu non puoi continuare ad andare in giro con quella bicicletta, come un morto di fame qualsiasi. No, no, no. Io sono tuo amico e te lo dico sinceramente: hai bisogno di una bella macchinina, che ti dia un certo prestigio. Un’auto adeguata al tuo stile. Tu hai una personalità notevole. E noi te la troveremo. Una cosa speciale per te».
E Trucutú:
«Pedro Juan, noi sappiamo dove cercare e possiamo procurarti qualcosa di speciale. Una macchina che non ti dia troppi problemi. Guarda, per te sarebbe perfetta una Chevrolet del ’56 o del ’57. Grigio acciaio, cromata, sedili foderati in similpelle tigrata. Un bello stereo digitale, pneumatici larghi con fascia laterale bianca. Roba da toccare il cielo con un dito, amico. Un vero lusso. Ti immagini quante bambine rimorchieresti? E via, sulla spiaggia a spassarsela come matti, e birra a fiumi!».
«Ehi, Trucu, scendi dalla nuvola, fratello. Stai solo galleggiando in aria o hai già imparato a volare?».
«Be’, bisogna sempre sognare almeno un po’. Però la cosa è fattibile, amico. Ecco, io chiudo gli occhi e mi vedo lì. Noi tre. Tutti e tre! E con tre ragazze spettacolari sui vent’anni. O magari diciottenni. Meglio di sedici. Belle tenere. E lattine di birra in mano».
«Va bene, va bene. Non agitatevi troppo. Quando avrò i soldi in mano mi metterò d’accordo con voi».
«Esatto, amico, esatto. Ti fai uno di quei viaggetti che sai fare tu in Europa e porti la grana per sistemare la Chevy. E vedi di tornare, eh? Che non ti succeda come a tanti che ritrovandoti con tutti quei bigliettoni in mano, decidi di restare laggiù».
«Tu sai che io torno sempre indietro».
«Sì. Sei l’unico».
«L’unico no. C’è tanta gente che parte da Cuba e poi rientra».
«Insomma, non pensarci troppo su perché adesso i prezzi sono bassi, ma potrebbero salire alle stelle come niente e allora la Chevy ti costerà il doppio».
Si misero a pulire l’antenna di Pelé. La salsedine ossida l’alluminio. Una scatola di diodi si era staccata. Andai a prendere il poco rum che mi era rimasto. Ce lo scolammo. Intanto, ammiravamo la superculona, che se ne stava sempre sulla terrazza. Adesso lavava un cagnolino. Pelé tirò fuori un po’ d’erba e preparò uno spinello. Fumandocelo, finì il rum. Allora Trucu scese giù e tornò con un’altra bottiglia. Quando il livello di stonatura fu al punto giusto, Pelé andò in cucina, scaldò un piatto e stese un po’ di coca. Due righe ciascuno. Era tanto tempo che non sniffavo. Diventai euforico. Mi sentivo un re. Li feci divertire. Una battuta dietro l’altra, poi mi misi a ballare, e intanto raccontavo le mie scopate folli sulla spiaggia. Pelé continuò a ingurgitare rum. Era proprio goloso. Rollò un altro spinello e se lo fumò tutto. Da solo. Io e Trucu non ne volevamo più.
«Oggi avevi la cartuccera carica di pallottole, amico».
«È l’unica cosa che mi resta, Pedro Juan. Che altro potrei fare».
«Come sarebbe a dire? Cercati una pollastra, Pelé.
Sei ancora così giovane».
«Sono innamorato di Patricia. Oggi fanno tre mesi che non mi chiama. Sto celebrando la ricorrenza. Pare si sia già trovata un altro con il portafoglio gonfio. E Pelé, che marcisca nella sua miseria».
Si intristì. I genitori erano morti da anni. I quattro fratelli, a Miami. È stato in galera un paio di volte. Per poco tempo. Un anno e qualcosa in ciascuna condanna. La sua donna aveva organizzato un viaggio in Venezuela di nascosto, avvisandolo quando stava ormai andandosene all’aeroporto, e dicendogli di non preoccuparsi perché lo avrebbe chiamato là per vivere insieme, in Venezuela o a Miami. Pare avesse cambiato parere. Non aveva più dato segni di vita. Pelé mise una cassetta di Feliciano e rimase in un angolo ad ascoltarla, più triste e depresso di una vedova in lutto.
Quelli della Oldsmobile continuavano ad affaccendarsi là sotto. Era ormai notte e non si vedeva niente. O comunque ben poco. Lasciammo in pace Pelé con la sua sbronza triste. Trucu mi si avvicinò.
«Lascialo stare, amico. Dài, Pelé, dormi, dormi». E rivolto a me, sottovoce:
«È meglio che dorma altrimenti con i postumi della sbronza comincia a piangere. O peggio ancora, gli prende la rabbia e spacca tutto. Ha distrutto anche la casa. Non c’è rimasto più niente. Ha fracassato mobili, lampade, tutto. La casa è ridotta un porcaio. Quando scasserà anche il televisore non potrà più vedere neppure lo show di Cristina, l’unica cosa che gli piace guardare».
«Cazzo, ma quella donna l’ha distrutto».
«Patricia?».
«Già».
«Ah, lascia stare».
«Perché?».
«Finché lei era qui lui ha sopportato quintalate di merda. Adesso che non faccia tanto il romantico. Sa benissimo che Patricia è una poco di buono e stava con lui solo per scroccargli soldi».
«E allora?».
«Tutta scena. Gli piace vivere come in una telenovela. Ascoltare i boleri di Feliciano, sniffare, rivoltarsi nella merda. Ah, è mio socio ma io me ne frego. Che romanticone! C’è gente che vive così, passando da una sceneggiata all’altra. E se domani avrà un’altra, stessa solfa, fa il tragico, e il geloso, e rompe le palle finché la tipa non si stufa e lo pianta o lo prende per il culo».
«Tu sì che sei forte, Trucu. Ti sei fatto una bella scorza navigando».
«Sette anni. Sono a terra da sei, e ne ho pieni i coglioni: nave alla fonda, niente guadagni».
«Non ti hanno più chiamato?».
«Che ci vuoi fare, amico. È una storia chiusa».
«Le navi sono ancorate in porto».
«Qualcuna di quelle piccole sta ancora a galla. La maggior parte della flotta è andata in malora. Ormai è una storia vecchia. Perché parlarne? Meglio scordarselo».
«Tu hai cominciato da ragazzo».
«A diciotto anni mi sono imbarcato sulla Río Perla. Sette anni di navigazione, sempre verso nord, verso i ghiacci».
«Brutta età per finire su una nave. Te l’hanno anche messo nel culo?».
«No, no. Non sono mica frocio. A bordo c’è un
gran rispetto e tutto l’equipaggio riga dritto. Su nessuna nave vogliono froci. Li sbattono fuori».
«È la regola?».
«No, si inventano una scusa e li mandano via. I froci non li vogliono da nessuna parte, caro mio. E tanto meno a bordo di una nave, perché creano problemi. I marinai finiscono per combinare dei gran casini per poterseli inculare. No, no. Bisogna essere uomini, in mare».
«E che facevi? Ti sparavi delle seghe?».
«Amico, adesso ti spiego. I marinai non ne parlano mai perché certe cose portano sfortuna se soltanto le accenni. Ma tu sei un amico e quindi resta tra noi. So che non ne parlerai con nessuno. Io ho sempre avuto una donna fissa. Se non era una era l’altra, ma avevo sempre una donna che mi aspettava a terra. E qui sta il punto, per un marinaio. Se non hai cervello, finisci male. Ascolta: io lo sapevo perfettamente che sono tutte uguali. Tutte. Senza eccezioni. I trenta o quarantacinque giorni che resti a terra è tutto un amore mio, e quanto sei carino, e sei il mio tesoro, e aprono le gambe ogni mezz’ora. E te le scopi, e godi. Dopo un po’ ti stufi, ma continui a darci dentro perché lei ti provoca e ti fa contento. Ma, al tempo stesso, magari hai appena intascato, diciamo... mille dollari, o duemila e cinque, o settemila pesos cubani, per sei mesi di ingaggio. Un marinaio guadagna cinquanta volte, cinquecento volte più di un medico, per dire... insomma, renditi conto... tutta questa grana la tipa te la succhia in meno di un mese, amico. Nel giro di un mese te la fa sparire. E anche le cianfrusaglie che le hai portato: vestiti, scarpe, orologi, stereo, tutto. Alla fine devi chiedere soldi in prestito per tirare avanti l’ultima settimana perché sei rimasto in mutande. Il
giorno che riparti, hai già dei debiti, ma lei non ti molla perché ha fatto i suoi conti, la furba, quella è tutta cervello con l’aggiunta di due gambe, e sta seminando per il prossimo raccolto, e con te fa l’affettuosa quando ti accompagna sul molo, e bacini per papi, bello mio, sei il mio tesoro, quanto mi mancherai e scrivimi tutti i giorni. Una sceneggiata con tanto di lacrimucce. E quando sentirò quella certa canzone penserò a te. Ma tu, che ormai hai un certo pelo sullo stomaco, perché la vita ti ha costretto a imparare in fretta come vanno le cose, vedi che a trenta metri c’è il pappone di lei che fa finta di niente, in bicicletta, appoggiato a un palo, che l’aspetta. Tu lo conosci perché lo hai visto gironzolare intorno e stai in campana. Perché un marinaio a terra dorme sempre con un occhio aperto. È così. Una volta che mi giro di spalle e salgo sulla nave, lei è già tutta allegra e se la ride, sparite le lacrime, e il tipo si avvicina, la carica sulla bicicletta e se la porta via sghignazzando e dicendo: “Cazzo, alla fine se n’è andato, quel fesso”. E le scarpe e i tuoi vestiti e il tuo profumo li userà il tipo quella stessa sera, e si scola qualche birra con i tuoi soldi, che lei ha nascosto alla faccia tua».
«Ah, Trucu, hai l’amaro in bocca, amico. Stai esagerando».
«Pedro Juan, non sto esagerando. Di certe cose non parlo mai con nessuno. Solo con te, che ti considero un amico e so che sei una persona riservata. Non sei uno che va a raccontarlo in giro. Non lo dico a chi capita perché a nessuno piace fare la figura del fesso. Ti sto raccontando quello che mi è successo con almeno cinque donne diverse. Una dopo l’altra. Dici che ho l’amaro in bocca. Quello che ho è il cuore di pietra. Il cuore, l’anima, tutto. Di pietra. Non provo più niente.
In sette anni da imbarcato mi è successa la stessa cosa con cinque donne. E allora, sarei io in malafede? Sono forse io quello che sbaglia? Io sono il figlio di puttana e loro le brave e buone? Quando sbarcavo mi capitava addirittura di vedere quei papponi, proprio qui nel quartiere, con i miei vestiti, scarpe e orologi, e la bella di turno giurava di esserseli venduti perché moriva di fame e doveva raggranellare un po’ di soldi. Balle. Puttane, tutte quante. Non ce n’è una che non lo sia. Le donne sono tutte uguali. Ci provano gusto nel fare a pezzi e schiacciare l’uomo che hanno accanto. Ridurlo sul lastrico. Sfruttarlo. Vivere alle sue spalle. Con chi si dimostra troppo buono, certo. Perché la sanno lunga. Amano le carogne, chi le picchia e rompe loro le ossa e non le lascia aprire bocca o alzare lo sguardo. I figli di puttana, ecco quelli che preferiscono. Ma se hanno di fronte un tipo onesto, che gliele dà tutte vinte, fa regali, sborsa soldi, allora lo fanno a pezzi. Ti distruggono, caro mio, ti distruggono. E io a congelarmi nel Nord Atlantico. Congelato! Pedro Juan, non hai idea di cosa vuol dire. Congelato! Tiravo su le reti ghiacciate. E separavo i pesci a mani nude, buttandoli nelle cassette lì, sul ponte. A venti gradi sottozero. Anche trenta sottozero. Ti si congelano persino i coglioni. E la notte, non ne parliamo. L’uccello duro come un palo, ma se ti abitui alle seghe, è finita, perché il lavoro è durissimo, il cibo pessimo, e se in una simile situazione ti fai anche le seghe... uff, ci crepi!».
«E tu come facevi? A quell’età, neanche una sega?».
«Controllo mentale. Un grande controllo mentale. Non puoi permettere al cervello di dominarti. È meglio se non ti tocchi neppure e lasci che lo sperma esca da solo, quando dormi, e sogni. Tutte le mattine
mi svegliavo impiastricciato. Sembrava colla. E poi, a lavare le lenzuola, perché in certi periodi me ne usciva un litro per notte. Altre volte ero più tranquillo e allora venivo di meno. E sempre aspettando di scendere a terra, fosse anche per due giorni, a comprare qualche stronzata, rivendersi le scatole di sigari, lo sai, le cianfrusaglie dei marinai, perché se torni a Cuba a mani vuote, la troia non ti degna di uno sguardo. Lei si concia da gran signora, ma è tutta scena. Un bel teatrino. In realtà è una troia e le devi portare profumi e scarpe e tutto quello che ti ha chiesto. O lo fai o non scopi e una volta a terra rischi di andare in bianco. Allora sì che diventi pazzo. È un’ossessione, Pedro Juan».
«Ma così non si vive».
«Sì, invece. Ci si adatta a tutto. Adesso sto anche peggio. Me ne sto lì in officina, e so che ormai quello che potevo fare nella vita l’ho già fatto. Adesso non c’è più neppure una flotta, niente navi, pesce, lavoro, niente di niente. E io non ho moglie né figli, soldi neanche a parlarne, niente. Nemmeno un buco dove crepare, perché mi hanno spolpato quando ero qualcuno. E intanto gli anni passano».
«Senti, piantala di piangerti addosso, compare.
Non fare il depresso con me perché...».
«No, no. Te l’ho detto che sto parlando come non faccio mai con nessuno perché tu sei un amico. E quello che dico è la verità. Non sto inventando niente e non faccio dei drammi: mi vedo lì, in officina, a riparare gomme per qualche pesos al giorno. Non mi bastano neanche per mangiare, Pedro Juan. Ormai lo so che non mi toglierò più la miseria di dosso. Ogni tanto uno per tirarsi su pensa: magari succede qualcosa e faccio un mucchio di soldi, arriva a tiro
una vecchia danarosa che mi sposa, muore subito dopo e io resto con la grana. Macché. Sogni a occhi aperti. Ma quali soldi, e brave donne, e vecchie ricche, ma quale amore, in questo mondo del cazzo. Stronzate che uno si inventa per non buttarsi giù da questa terrazza e sfracellarsi là sotto, sull’asfalto».
Lo presi per un braccio.
«Ehi, Trucu, che ti succede? Datti una regolata e piantala con questa lagna, che qui ci sei solo tu a darti corda».
«Ma va là, non crederai che mi butterei giù davvero, eh? Sto parlando tanto per parlare, amico. Tu prendi tutto sul serio».
Pelé uscì in terrazza barcollando e vomitò come una bestia. Aveva un mare di porcherie nello stomaco. Scivolò e cadde nel suo vomito. E lì rimase, seduto sul pavimento, sporco come un maiale. Lo guardammo per un po’. Anche noi avevamo preso una bella sbronza. I tipi della Oldsmobile continuavano a trafficare là sotto. Da quante ore si improvvisavano meccanici? Rimasi a fissare il vomito e dissi a Trucu:
«Non si può confondere l’amore con il diritto di proprietà».
«E chi ha detto una cosa simile, Pedro Juan? Cazzo, tu sei un uomo di strada, laureato come me all’università della vita. Le donne bisogna sempre sottometterle, Pedro Juan. È stato così per tutta la vita e sarà così in eterno. Lei deve sapere chi comanda. Se sei troppo tenero, se ne approfitta e ti rovina. Guarda me».
«La donna te lo lascia credere. Ma alla fine è lei che comanda».
«No, no. Ti sbagli. O comandi tu o comanda lei. È una guerra. La storiella dell’amore è una gran balla».
«Troppi anni in mare. Tu saprai tutto del baccalà e dei merluzzi, ma sulle donne non hai imparato niente».
«Perché?».
«Con te facevano la sceneggiata, ti spolpavano, ti prendevano in giro come un bambino. Eppure continui a credere di poterle comandare e che loro obbediscano. Le donne sono più intelligenti di noi, Trucu, più furbe, più coraggiose, più determinate, più sveglie».
«Su cosa ti basi per dire una cosa del genere? Non hai mai letto Vargas Vila? I libri di Vargas Vila sono come la Bibbia».
«Non dire cazzate, Trucu. Vargas Vila? Stronzate, amico. Non a caso ti chiamano Trucutú».
«E invece Vargas Vila lo ha scritto chiaro: seducile, corrompile, dominale. Sono tutte puttane. Ce l’hanno nel sangue, la troiaggine».
«Senti, cambiamo argomento perché siamo tutti e due ubriachi e non arriviamo a niente...».
Bussarono alla porta. Era Gloria. Vedendoci in quello stato si prese la soddisfazione di fare la padrona di casa e recitare la parte che le veniva meglio:
«Ma che schifo! Che luridi ubriaconi! Pedro Juan, il giorno che smetti di bere vado ad accendere venti candele a San Lázaro e resto inginocchiata davanti a lui finché non si spengono fino all’ultima. Ogni promessa è debito, mi è testimone Cristo in croce».
«È inutile che fai la schizzinosa, proprio tu...».
«Io, cosa? Non mi sono mai sbronzata in questo modo schifoso. Guarda Pelé, sembra un cane in mezzo al vomito, arghhh... E senti come puzza! Prendimi un secchio d’acqua per dare una pulita, e poi, che se ne vada via. Su, Trucutú, forza, aiutami!».
«Gloria, calmati. Mi rimangono soltanto due o tre secchi d’acqua nel serbatoio e non posso consumarli per Pelé».
«Tu sei più schifoso degli altri».
«Ci penseremo domani. Magari arriva dell’acqua nel condominio».
«Sai bene che l’acqua non c’è da una settimana e bisogna scendere giù a prenderla. Il fatto è che sei uno sfaticato e un lurido maiale».
«Lasciami in pace e non giocare alla moglie».
«No. Altro che lasciarti in pace. Finché sono la tua donna, finché sto con te, qui le cose vanno fatte nel verso giusto. Preparo tutto per farti un bagno e andarcene a letto. Vuoi un caffè?».
«Un caffè sì, ma niente bagno. Vado a letto subito. Trucu, tu che fai? Pelé non lo smuove da lì nessuno».
«Io rimango qui, amico. C’è ancora un po’ di rum».
«Sicuro?».
«Sicuro. Non preoccuparti. Andate pure a letto.
Resto a prendere il fresco quassù».
Io e Gloria andammo a sdraiarci. La camera è accanto alla terrazza. Cascai sul letto come un sasso. Gloria aprì le persiane, accese la lampada e cominciò a spogliarsi.
«Ehi, troia che non sei altro, Trucu potrebbe vederti».
«Lo faccio apposta. Infatti mi sta guardando».
«Vaffanculo».
«E adesso voglio scoparti, così si farà delle gran seghe. È l’unica cosa che sa fare: masturbarsi e scopare vecchie di settant’anni».
«E tu come lo sai?».
«Ah, non chiedermelo».
Mi si buttò addosso e cominciò a succhiarmelo.
Non mi si rizzava. Ero troppo ubriaco e non sentivo niente. Mi girava tutto intorno e mi addormentai. Poco dopo mi sembrò di udire un bisbiglio di fianco a me. Feci uno sforzo e vidi Gloria e Trucu sul letto. Non ne sono sicuro, ma credo proprio che fossero loro due.
Quando mi svegliai era ormai giorno. Gloria russava accanto a me, nuda, soddisfatta, a gambe larghe. Avevo dormito abbastanza. Mi sentivo la gola secca e l’uccello duro. Mi abbassai fino alla fica di Gloria. Uhmmm, era umida e sapeva di formaggio. Proprio di formaggio. Così mi piace ancora di più. A volte sa di pesce. In questo caso aveva un ottimo sapore. Si svegliò facendo le fusa come una gatta. E cominciammo. Lentamente, senza fretta. Mi piacciono le scopate mattutine. Entrare dentro di lei e abbracciarla forte. È come un uccellino. Mi bacia il tatuaggio. Le piace il serpente rosso. Ci accarezziamo. E parliamo. Chiude gli occhi e si lascia andare. Me lo dice sottovoce: immagina che sono suo padre.
«Ah, sì, mi baciava e mi toccava la passerina, me l’accarezzava. Io gli stringevo l’uccello. La mia manina non bastava per il suo cazzo. Ce l’aveva troppo grosso... ah, no, no, no. Non è vero, ho detto una stupidaggine. Era Rodolfo che mi faceva certe cose».
«Era tuo padre, stronza».
«No, mio padre no. Mio padre era una brava persona. Un uomo decente. Mettimi incinta, dài, mettimi incinta. Voglio sposarmi con te e avere dei figli».
«Sposarci?».
«Tu e io. Vestiti di bianco. E se sono gravida, meglio ancora. Con il mio bel vestito da sposa e il pancione di sei mesi. Ah, cazzo, sì, così, spingi fino in fondo, quanto ti diventa duro e grosso, maledetto,
carogna! Come lo sento dentro! Ti piacciono le puttane, vero? Ti diventa enorme, papi. Mettimi incinta così avrò un figlio con te e me ne resterò tranquilla a casa nostra».
«Come Minerva? È questo che vorresti, eh?».
«Sì, è proprio così. Avere un marito e stare a casa a lavare e cucinare, papi, e scopare con te dappertutto».
«E anche farti dare quattro cinghiate».
«Ah, quello mi fa impazzire. Se mi picchi muoio per te. Non dirlo che vengo subito».
«Sì. Prendi questo, troia». Le rifilo quattro schiaffi.
«Sì, picchiami con quella tua mano ruvida così vengo come una cagna. Ah, sono nata per essere maltrattata, dammi delle botte, mi piace... Senti come sono bagnata, papi, senti».
Muove il bacino come un frullatore. Sto per venire anch’io. No. Mi trattengo. La rigiro a faccia in giù. Lei mi lascia fare. Le lecco il culo, glielo bacio, ci infilo molta saliva. E glielo metto dentro. Dolcemente. Ha un buchino nero, bellissimo, con i peli ricci da mulatta. E lo stringe e poi lo spinge fuori. È una tentazione. Insaziabile, la piccola. La inculo dolcemente, piano, senza fretta. Mi sdraio sulla sua schiena e la mordo. E mescoliamo i nostri sudori. Si muove bene. Gode e ne vuole ancora. Ha le natiche piccole. Tutto in lei è piccolo, maneggevole, perfetto, con quella pelle abbronzata. È una diavola, una strega insaziabile. Le piace prenderlo nel culo, ma non sempre. Bisogna saperla sedurre, tirarla fuori dal guscio. Scaldarla. Trovare il suo punto debole. E colpire. Nel punto debole. Allora perde la testa e mi dice tutte le porcate che le passano per la testa. Non so mai se dice la verità o delle gran balle. Gloria è una mescolanza di ve-
rità e bugie. È la donna più scatenata e allegra e pazza che abbia mai avuto. Parla senza sosta:
«Portami dal tipo che fa i tatuaggi. Ne voglio uno su una chiappa, su una tetta. Dove vuoi tu, papi. “Io sono di Pedro Juan”. “Pedro Juan è il mio maschio”. Così, per fare invidia agli altri uomini. Perché si ingelosiscano. E gli dirò: “Questo è il mio uomo. Il namberuán. Il numero uno. Il mio maschio. Prendo i soldi a voi per mantenere lui”».
«Sul serio? Vuoi farti un tatuaggio?».
«Sì, sì. Mi prendo una bella sbronza, mi fumo uno spino, e via. Ah, perché ti diventa così grosso? Mi fai male, me lo sento in gola, ah, ma cosa mangi, papi? Perché ce l’hai così duro? Cosa mangi?».
«Carne di cavallo e peperoncini, piccola».
«Il cavallo sei tu. Sei un animale. Continua, continua. Dammelo tutto quel tuo bel cazzone».
Mi fa impazzire. Non ce la faccio più. E vengo dentro di lei. Ufff... relax. Ci baciamo, restiamo per un po’ a poltrire sul letto. Poi mi alzo e vado a fare il caffè. Sulla terrazza c’è il lago di vomito di Pelé, che si secca al sole e puzza ancora di più. Centinaia di mosche. Ci butto un po’ d’acqua. E Gloria spunta fuori a sgridarmi:
«Non fare certe cose. Non devi occupartene tu. Non sopporto gli uomini che fanno le faccende da donne».
«Ah, Gloria, non rompere le palle. Saranno vent’anni che vivo da solo. Vorresti insegnarmi come fare adesso?».
«Ma adesso hai una donna. Le faccende di casa riguardano me. Qua sembra una baracca di schiavi neri, con le tue sbornie e i tuoi amici del cazzo. Ci mancano soltanto i pidocchi e le piattole, ah. Senti, vai al
mercato e prendi del riso, carne di maiale, qualcosa. Il frigo è vuoto. Non c’è nemmeno una bottiglia d’acqua. Io non lo so come fai a vivere in mezzo a un casino simile. Passando da una sbronza all’altra».
«Gloria, Gloria, non scassare i coglioni e lasciami in pace!».
Le piace giocare alle faccende di casa: preparare pranzetti, pulire, lavare, badare ai bambini. Nel giro di un attimo si trasforma. Cambia personalità. Superman-Clark Kent. Della gran puttana scatenata di pochi minuti prima, non resta niente. Eppure non so se è sincera o mi prende per il culo. Non so se si diverte a giocare con me o se ci crede sul serio. Riesce a confondermi e non capisco mai dove sia il limite tra realtà e finzione.
Si infila una vestaglia a quadretti non troppo pulita, si annoda un fazzoletto sulla testa, mette un paio di ciabatte di gomma, vecchie, consumate e sporche. E diventa la casalinga modello. Sbraita, dà ordini, rassetta, mi spedisce al mercato a comprare da mangiare. Assume il comando. E a mezzogiorno è soddisfatta. Tutto in ordine, i pavimenti lustri, deodorante nell’aria. Ha persino piantato dei fiori nei vasi. E, finalmente tranquilla, si siede a guardare la sua telenovela. Non mi lascia neppure aprire bocca quando danno quella stronzata insopportabile con la biondina scema che canta continuamente ai gabbiani. Si concentra totalmente, ride, piange, si mangia le unghie, si immerge nella storia. Non la reggo. Mi rifiuto di convivere con la stupidaggine. Devo controllarmi per non buttarla giù dalle scale. Ma quando la fa finita con il ruolo da signora-mamma-casalinga, allora si trasforma nuovamente. Le spuntano i canini e diventa la lupamannara, la grande seduttrice, la divoratri-
ce di uomini, la vipera. Gloria la cubana. Gloria la fatale. La mia follia, l’amore mio, la donna che desidero. Quella che mi fa sentire un caprone belante di piacere sulla cima della montagna.
La vita è così. Dolore e piacere. Bevo una tazza di caffè, accendo un sigaro, ed esco per andare al mercato. La lascio alla sua telenovela. Ho messo una maglietta rossa e mi sento forte come un toro. Con il mio tatuaggio in bella vista, sotto il sole. Mi piace scopare duro con Gloria. Senza tregua. Un paio d’ore a sudare, e poi una passeggiata da solo. Con addosso l’aroma di sudore, sperma, Gloria, letto. Un animale forte e sano. Un puledro vivace e muscoloso che cammina per Lagunas o lungo Animas verso Belascoaín. Mi sento come un cavallo selvaggio imbizzarrito, con gli spermatozoi che si agitano dentro di me, fertili, disperatamente in cerca della via d’uscita per raggiungere l’ovulo. Se ne stanno lì, i miei spermatozoi, allegri e mattacchioni, i miei microscopici bambini, che se la ridono, colmi di felicità, aspettando che risuoni lo sparo di partenza e si alzi la sbarra, per precipitarsi fuori nuotando a tutta birra verso l’ovulo. Loro lo sanno. Soltanto uno potrà introdurre la testa, forzare, spingere, e infilarsi dentro.