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Gloria e io siamo due anime indemoniate. Ogni giorno di più. Il magnaccia e la puttana. La bambina e il padre. Il vampiro e la vittima. La luce e l’ombra. Cristo e la croce. Il sadico e la masochista. Il mio uccello la fa impazzire e io darei la vita per ficcarglielo dentro, bere il suo sangue e ingoiare la sua saliva. La

pazza e il pazzo. Finiremo al manicomio. Cosa ci sta succedendo? Quali sono i nostri limiti? E chi li decide? Chi li inventa? Dove sarebbero? Fino a dove posso arrivare? Quando scriverò il romanzo con lei come protagonista, cosa potrò raccontare di tutto questo? Cosa dovrò rivelare soltanto in parte, insinuare? Devo forse dire tutto? Ce l’ho il coraggio di spingermi fino in fondo e mettermi a nudo completamente? È necessario? Sono un esibizionista. Striptease. Ecco cosa faccio: striptease.

Nel pomeriggio ho letto un brano del Don Chisciotte, a Radio Exterior della Spagna. Oggi si celebra non so quale ricorrenza di Cervantes. La nascita, credo. Non mi piacciono certe letture, ma non si può fare sempre il difficile. Aspettando di intervenire – eravamo in tre scrittori – uno citava Michel Butor, diceva qualcosa riguardo La scrittura del disastro. L’altro ribatteva associando quel libro a Lezama Lima. Ufff, è impossibile trovare un punto di equilibrio tra la merda e le nuvole. Sono uscito sul balcone a prendere il fresco. Se non altro, nell’Avana Vecchia il panorama è a dir poco rocambolesco. Quando è arrivato il mio turno ho preso il telefono cominciando a leggere un brano del libro. A un certo punto sento dire: “Grazie, Cuba”. Mi fermo. Aspetto un istante. Di nuovo la stessa voce: “Non siamo più in diretta, tutto bene, grazie mille”. Me ne sono andato, come attratto da una calamita, verso il bar, tra Águila e Virtudes. Morivo di sete. Mi sono scolato varie birre Polar. Ghiacciate. C’erano due camerieri e tre o quattro clienti abituali che bevevano rum. Tutti parlavano a bassa voce. Quasi sussurrando. Un poliziotto piccolo e magrissimo, fermo all’angolo, a pochi metri da noi, ci osservava con la coda dell’occhio. Quattro put-

tanelle molto giovani gironzolavano nella zona. Guardavano fisso noi che bevevamo appoggiati al bancone. Eravamo tutti tra i cinquanta e i sessant’anni. Le puttanelle conoscevano bene il proprio mestiere. Avevo lo stomaco vuoto. Le birre mi stavano scombussolando. Sono andato a casa e ho chiamato Gloria. “Non c’è, è da sua cugina”. Qualche minuto dopo ricevo una telefonata molto simpatica. Un club di ragazze sole. Hanno preso il mio numero dall’elenco, a caso. Cercano fidanzati per telefono. Mi sembra troppo pulito, come metodo. Non ci credo. Domando:

«Siete signorine, cioè vergini? State in qualche collegio di suore, un convento?».

«No, siamo solo nubili».

«Ah, bene, okay. Allora si può fare».

«Mi chiamo Yamilé».

E si descrive: mulatta, trentadue anni. Un figlio di sedici, una figlia di cinque, lavora in una fabbrica di sigari, dove arrotola le foglie. Mi dà il suo numero. Continuiamo a parlare. Ha tante cose da dire. È simpatica. Okay, ci accordiamo per vederci uno di questi giorni.

Gloria è ricomparsa alle otto e mezza di sera, con il suo vestito giallo corto, molto corto, scarpe bianche con il tacco alto e pantacalze bianche. Bellissima, con la pelle scura, le gambe e le cosce tornite. Non le manca e non le avanza niente. Tutto perfetto. Nelle giuste proporzioni. Soltanto le mani e i piedi sono un po’ trascurati. È al culmine della floridezza. Le dico che a partire da adesso può diventare una vera signora, come un frutto sul punto di maturare. Fino a ora è stata una ragazzina scapestrata. Passata la trentina potrà solo migliorare. Le racconto di Yami-

lé. Per me è stato tutto uno scherzo. Ma Gloria l’ha fatto tante volte.

«Altro che scherzo. Se la chiami e vi vedete, sicuro che le piaci e ti salta addosso subito. L’ho fatto anch’io, dovresti saperlo».

«Dice che è un club...».

«Ma quale club. Quella è la scusa. Non posso lasciarti da solo neppure per un’ora. Sei sempre arrapato!».

«Io?! Ma sono loro che mi cercano. Io non faccio mai niente».

Va verso il taccuino accanto al telefono. C’è scritto: Yamilé, 791952. Strappa il foglio e lo fa a pezzettini.

«Eccomi qui, vado bene come mulatta, nera, bianca, donna di casa, faccio tutto io, mi adatto a fare quello che vuoi. Non ti basto io?».

«Quel numero lo so a memoria. Vuoi un caffè o del rum?».

«Entrambe le cose».

Vado in cucina. Mi viene dietro e mi toglie la caffettiera di mano.

«Lascia stare, papi. Ci penso io. Devi abituarti ad avere una donna in casa, tesoro mio».

È meglio lasciarla fare. Dopo tutto, mi piace vederla in cucina con i suoi braccialetti d’argento che tintinnano. Sono come il cane di Pavlov. Mi viene l’acquolina in bocca e mi diventa duro sentendo quel suono. O vedendola camminare per casa scalza. Mi eccitano i suoi piedi e le mani. Mi arrapo senza neppure bisogno di sentirne l’odore o toccarla. Mi basta vederla in vestaglia, che pulisce la casa, mezza nuda, in ciabatte o scalza, i braccialetti che tintinnano e Mark Anthony nello stereo a tutto volume. Fa qualche la-

voretto e comincia subito a sudare e la fica le diventa odorosa ed eccitante. Sono decisamente un essere volgare e sconcio. Un tipo da strada come tanti. Sembra sia una vocazione. Le donne eleganti, aristocratiche e profumate non mi attirano per niente.

Be’, pensandoci meglio, almeno una mi è piaciuta, di quelle signore speciali che si sono ormai estinte nella zona in cui abito. Una notte d’autunno, nell’Auditorium Nacional di Madrid. Me ne stavo tranquillo nella mia poltrona, su un palco. L’Orchestra Sinfonica di Berlino aveva in programma Beethoven e Brahms. Il concerto sarebbe iniziato con la Quinta, ovviamente. E venne a sedersi accanto a me quella signora deliziosamente sottile, magra, in calze nere, gonna corta nera, e un lieve accento francese. Gettò la pelliccia sul pavimento, ci appoggiò sopra i piedi con gesto sprezzante, piantandoci i tacchi e impolverandola. La sbirciai e mi piacque la sua espressione sadomaso. Aveva la faccia, l’aura, il campo magnetico, da vecchia puttana navigata. Puttana di lusso, puttana aristocratica. Ci guardammo, un sorriso, un saluto: “Buonasera”. Cominciammo a scambiarci domande e risposte su Beethoven, Brahms, la Sinfonica di Berlino, il direttore in quell’occasione. A un certo punto diede l’affondo, con una stoccata di rovescio:

«E lei, cosa fa?».

«Io? Molte cose. Dipende dal momento».

«Ah. Mio marito è capitano di lungo corso. Una superpetroliera. Adesso è in America del Sud».

«Lontanissimo».

«Ormai ci ho fatto l’abitudine».

«Immagino sia difficile essere la moglie di un marinaio».

«Di un marinaio, forse. Ma io sono contentissima di essere la moglie di un capitano».

«Guadagna molto di più».

«Oh...».

Gli applausi, il direttore che salutava il pubblico, l’ultima accordatura degli strumenti. E cominciò. Nonostante la musica, la squisita signora si accomodò in modo da bisbigliarmi qualcosa all’orecchio ogni due minuti. Mi diede l’impressione di essere in fase di ovulazione e che si bagnasse eccessivamente. Poi pensai che era impossibile. Aveva più di sessant’anni.

«Lei ha mai pensato quale musica le piacerebbe per il suo funerale?».

«Preferisco essere cremato. E le ceneri, nella spazzatura».

«Oh... eh... io ho sempre voluto l’Eroica».

Fece una lunga dissertazione su tutte le città europee dove aveva ascoltato quella sinfonia. Si ricordava ogni dettaglio in modo scrupoloso, come può fare soltanto chi ha ben poco o addirittura niente a cui pensare: orchestra, teatro, direttore, periodo dell’anno, stecche del pianista, nome del primo violino. Lei parlava e io guardavo le sue cosce magre avvolte nelle calze nere, lievemente aperte, e mi immaginavo inginocchiato davanti a lei, a infilarle la testa tra le gambe aprendole bene per arrivare con la lin-

gua al punto X.

Stavano ancora suonando la Quinta e lei continuava a sussurrarmi all’orecchio. Pensai che potevamo andare a casa sua. Una camera elegante, in stile XIX secolo forse un po’ troppo greve. Sul tavolino, fragole e champagne. E io che le toglievo i vestiti poco alla volta, alla luce di quattro candele profumate, lavorandomela solo con la lingua e le dita, costringendo-

la a cercarmi una frusta. Lei sussurrava chissà cosa e io fantasticavo di essere in camera sua. Alla fine mi liberai di quella tentazione. Il mio umore non era dei migliori per via di certe minacce alquanto aggressive, causate da un libro che avevo pubblicato nell’autunno. Insomma, non era la sera adatta. La mia angioletta custode mi osservava a distanza, da un altro palco. Quando uscimmo dal teatro mi rimproverò aspramente per la mia scortesia. In realtà mi rimase il desiderio di conoscere meglio quella signora lussuriosa. Comunque, penso che ci sarà una seconda opportunità. Per ora continuo a coltivare le abitudini di sempre: sono attratto dal laidume, dalla puzza di sudore, dai peli sotto le ascelle. Serve, cameriere, puttane, cuoche, sguattere, venditrici ambulanti, le più volgari, imperfette, donne senza cultura che però sanno tutto quello che c’è da sapere e indossano camicette corte, lasciano vedere l’ombelico, rimorchiano chi capita e gli fanno una sega sul Malecón, in pieno giorno, per dieci o quindici pesos. Gloria è tutto questo, riunito, condensato in una sola donna. Adesso non si rade più sotto le ascelle. Quei bei ciuffi di peli, come le tedesche, e senza deodorante, intrisi di sudore. Mi basta annusarli per arraparmi come una bestia e perdere il controllo. Il suo odore di sudore è una droga eccitante.

Mi avvicino, l’accarezzo, la bacio, l’annuso, la scaldo un po’ ed è fatta. Spengo il fornello. Il caffè rimane a metà. Prendo un sorso di rum e glielo passo in bocca. La porto a letto, la spoglio nuda e la guardo. Mi piace vederla da dietro. Si sdraia su un fianco e solleva le ginocchia fino al mento. Mi masturbo lentamente. Ci guardiamo a vicenda, senza toccarci. Fin da bambina si è abituata a vedere i cazzi degli adulti.

Guardarli soltanto. Me l’ha raccontato con ogni particolare. Fin da quando aveva sette anni. Abitava in un condominio di calle Laguna. Un sacco di gente in poche stanze, con uno o due bagni in comune. La promiscuità era inevitabile. Gloria guardava e si lasciava guardare. In quel posto e nei dintorni abbondavano i pervertiti, o addirittura i perversi. A dieci anni le piaceva l’insegnante di ballo e si era lanciata alla sua conquista. Aveva già avuto qualche esperienza. Se non altro in fatto di guardare e farsi guardare. Il tipo resisteva. Lei ci provava, cercava di eccitarlo, ma lui sapeva bene che l’abuso su minori prevede dai cinque ai dieci anni di carcere. E al processo non avrebbe mai potuto sostenere che la bambina lo aveva sedotto perché sarebbe stato accusato anche di mentire alla corte e di diffamazione nei confronti dell’innocente creatura da lui circuita.

Il pover’uomo faceva finta di niente, cercava di proseguire nelle lezioni. Ma l’innocente creatura si dimostrava diabolicamente ostinata e abile. Era molto di più che una bambina maliziosa e capricciosa. Gloria era un piccolo mostro. Un giorno entrò con un pretesto nella stanza dell’insegnante, che abitava nello stesso condominio di Laguna. Allegra e disinvolta, andò verso il serbatoio dell’acqua e si rovesciò addosso una brocca.

«Ahi, guarda qui, Rodolfo, mi sono bagnata tutta!

Mi prenderò un raffreddore».

Si tolse i vestiti e, senza lasciargli il tempo di reagire, aggiunse:

«Dài, asciugami. Prendi qualcosa per asciugarmi». Rodolfo rimase attonito. Fin dove era capace di arrivare quella bambina? Prese un asciugamano. Chiu-

se la porta. Aveva un pensiero fisso: la galera.

«Bimba, accidenti a te, stai calma, mi metterai nei guai».

«Asciugami, Rodolfo, dài».

Quando si avvicinò con l’asciugamano, lei gli toccò l’uccello dentro i pantaloni. La piccola non tergiversava. Andava dritta al sodo.

«Fammelo vedere».

«Ragazzina, dannazione, mi vuoi rovinare?».

«Ecco. Guarda».

Si accomodò su una sedia, sollevò le gambe, le aprì e gli mostrò la piccola fica, con già qualche pelo nero, anche troppi per i suoi dieci anni. Gliela offriva.

«Tiralo fuori. Fammelo vedere».

Lui andò alla porta. Controllò che fosse chiusa bene. Tornò e lo tirò fuori. Ce l’aveva già mezzo duro. Lei lo accarezzo un po’ e poi lo prese in bocca. Non l’aveva mai fatto ma, forse con l’intuito, sapeva come comportarsi. Rodolfo venne nel giro di due minuti e lei si lasciò bagnare dal suo sperma. Allegramente. Se lo spalmò su tutto il corpo, come se fosse una crema. A Rodolfo la cosa piacque. Lei sapeva che correva il rischio di finire in galera.

«Non avere paura. Non lo dico a nessuno. Ci penso io a sistemare le cose».

«Vuoi essere la mia fidanzatina?».

«Se voglio? Ma io lo sono già. La tua fidanzata, la tua donnina, tutto quello che vuoi».

La relazione tra la bambina di dieci anni e l’uomo di quarantadue sarebbe durata molto tempo. Ma Gloria non credeva nella fedeltà. È sempre stata assolutamente infedele, con convinzione. E non lo fa apposta. Le viene naturale, istintivo, come respirare o bere un bicchier d’acqua. Oltre all’amore per Rodolfo, ne

combinava di tutti i colori. A quattordici anni un ragazzino della sua età la penetrò. Qualche giorno dopo pretese che anche Rodolfo la penetrasse. Lui chiese cosa fosse successo e lei glielo raccontò come la cosa più naturale del mondo. Lui si sentì offeso. Era un diritto che gli spettava. Non poteva sopportare che l’avesse data a un moccioso di quattordici anni. La relazione divenne tormentata. Si sa: amore e possesso. L’eterna confusione. L’origine della famiglia, la proprietà privata e lo stato. Gloria, pragmatica e determinata, tagliò corto. Era troppo giovane per cominciare a soffrire dietro agli uomini. Quando me l’ha raccontato, alla fine sembrava un po’ rattristata.

«Gli ho voluto tanto bene. Ma niente è eterno».

«Lo rivedi ancora?».

«Sì. Vive sempre da solo. Adesso ha più di sessant’anni. È diventato un tipo chiuso, un po’ incarognito».

«Abita lontano da qui?».

«Nello stesso posto, il condominio di Laguna. Mi fa tristezza quando lo vedo così povero, infelice, amareggiato, senza figli, senza nessuno che si prenda cura di lui. E mi respinge. Vive nella miseria più nera. Ogni tanto vado a trovarlo per dare una pulita alla sua stanza, aiutarlo, ma niente da fare. Non me lo permette, mi manda via».

«Ti eri innamorata».

«Alla follia. Nella mia testa giocavo a immaginarlo mio marito, pensando di avere dei figli con lui, e tutto il resto».

«Tu non sei mai stata bambina».

«Sì, invece. I miei erano giochi da bambina, come se mi trastullassi con le bambole».

«E intanto giocavi con un uccello vero, altro che bambole».

«Ah ah ah! Credo che lì se ne siano accorti tutti. Stavo sempre nella sua stanza. Ero una bambina di dieci, undici anni, e gli lavavo la roba, facevo le pulizie, cucinavo, tutto, badavo a tutto io. Però la gente lo rispettava. È sempre stato un uomo serio, molto dignitoso. Non me ne fregava niente se lo sapevano».

«E se qualcuno l’avesse denunciato?».

«Avrei detto che non era vero dando dell’infame a chiunque si fosse azzardato ad accusarlo. La gente è sempre pronta a far del male al prossimo. Però lì lo rispettavano tutti. È una persona seria».

«Io credo che tu sia nata puttana».

«Non darmi della puttana».

«Te lo dico con affetto».

«Una volta qualcuno mi ha detto che in una vita precedente ero una donna di cabaret che se la spassava un mondo. E in un’altra ancora prima, ero una gitana».

«E in questa vita ti stai perfezionando».

«Sì, papi, mi piace divertirmi con gli uomini. E mi piace vedere cazzi. Tanti cazzi. Diversi. È forse una brutta cosa? Guarda i cani, che lo fanno in mezzo alla strada; è assolutamente normale».

«Noi non siamo cani».

«È lo stesso, siamo comunque animali».

E mentre parlavamo, dolcemente, gliel’ho infilato dentro poco alla volta, accarezzandoci.

«Sei come un animaletto. Tiepida, tenera, pelosina».

«Sì, papi, sono un animaletto. Mi piacciono i cani. Ahh, comprami un bel cane grande e grosso, nero, di quelli da combattimento, con il muso incarognito, la lingua lunga».

«Per farne cosa, pazzerella? Che ci vuoi fare con un cane?».

«Farmi scopare da lui davanti a te. Per fargli qualche sega».

Ha continuato a menarsela con la faccenda del cane nero. A un certo punto mi ha fatto voltare per leccarmi il culo. Mi ha infilato dentro un dito. Due dita.

«Ahiii, papito matto, così mi piace, essere tua moglie e tuo marito. Se almeno avessi una banana, un cetriolo, una carota. Questo culo è mio. Sei mio, completamente. Non ho mai avuto un maschio come te, mi fai impazzire, bastardo».

Io mi rilassavo, la lasciavo fare.

«Voglio tornare al bordello per te, papi. Per te posso farlo, eccome. Tutte le volte che me lo chiedi. Voglio mantenerti. Mi piacciono i papponi, papi».

Gloria è tutta Gloria. È al di là della gloria. Siamo andati avanti così per un paio d’ore. Possiamo farlo per tutto il tempo che ci pare. Ha un’immaginazione incredibile. Si rinnova ogni volta. Che talento. Puro talento innato. Quando non ce la faccio più, riesco a concentrarmi con uno sforzo di volontà. Lo tiro fuori velocemente e vengo nella sua bocca. Se lo ingoia tutto.

«È di nuovo acido. A volte ce l’hai dolce e altre è acido». Ride. «Mi brucia la bocca, mi si legano i denti...».

Relax. Vado in cucina. Finisco di preparare il caffè e ce lo beviamo. Fumiamo. Attacchiamo con il rum. Gloria accende il mangiacassette e Roberto Carlos entra in scena. Quando beve qualche bicchiere, scopa, beve ancora, e si rilassa, diventa loquace. E intanto io accumulo materiale per il romanzo.

«Raccontami qualcosa del bordello di Milagros».

«Fai sempre domande, domande. Perché vuoi saperne di più?».

«Vestiti. Andiamoci subito».

«È chiuso».

«Bugiarda».

«Ma è vero».

«Quando l’avrebbero chiuso?».

«Mesi fa. Per poco a Milagros non le tolgono anche la casa».

«E perché?».

«Perché gestiva un bordello. Caro mio, ma tu vivi qui o sulle nuvole?».

«Che stai dicendo?».

«Il suo casino era famoso, amore mio. Ci veniva gente da tutte le parti. Dai tipi danarosi, di alto livello, fino ai contadini dalle campagne. E tutti con il portafoglio gonfio. Arrivavano certi contadini dai mercati generali con le tasche piene di soldi! E come glieli sfilavo! A volte neanche dovevo scoparci perché bevevano tanto che poi non gli si rizzava. E io li alleggerivo a dovere. Non se ne accorgevano nemmeno. Ah, quanta grana passava da lì!».

«Allora era piuttosto grande».

«Sette stanze e dieci o dodici donne. A volte di più.

Un andirivieni continuo».

«C’era il bar?».

«Qualcosa del genere, nella sala. Ormai era diventato un bordello nel bordello. E quando è arrivata la polizia... be’, io non ho avuto problemi perché me n’ero già andata».

«Come mai?».

«Non stavo più lì».

«Così, da brava bambina, te ne sei andata via tranquillamente?».

«Mi ha sbattuta fuori Milagros».

«E perché?».

«Per via di suo marito, che mi aveva presa di mira

e alla fine me lo sono dovuto fare, almeno un paio di volte. Lei lo ha saputo e mi ha sbattuta fuori. Senza fare tanto chiasso. Da persone discrete, sì, però me ne sono dovuta andare via di corsa».

«Senti, ma tu te le vai proprio a cercare. A chi verrebbe in mente di scoparsi il marito della padrona?».

«A me».

«Sì, soltanto a te. Senza cervello».

«Io senza cervello? No, papito, io non faccio mai niente perché mi gira, così. Il tipo fa il macellaio e pagava bene. Certe volte mi dava duecento pesos per una sveltina di cinque minuti. Avrei dovuto rinunciarci? No, caro, no, per niente al mondo! E non ci ho scopato di più solo perché qualcuno ha spifferato la cosa a Milagros e sono rimasta fregata».

«Ti è andata bene, hai evitato di finire nei guai con la polizia».

«Sì, ma c’è sempre da lavorare. Ci sono anche i piccoli bordelli di quartiere. Sapessi quanti. Però sono proprio piccoli, lì non arriva certo la gente con la grana. Bordelli per morti di fame, non ne vale la pena. Io guadagnavo anche cinquecento pesos al giorno in quello grande. Un giro grosso».

«Lo riaprirà, vedrai. E magari ti perdona».

«No. Non torno mai sui miei passi. E poi, quando lascio qualcosa, è finita. Finché c’ero anch’io, il bordello era sempre pieno di uomini e i soldi scorrevano a fiumi. Appena una settimana dopo avermi cacciata ha dovuto chiudere e per poco non le tolgono la casa e la schiaffano in galera. Lei, il marito, quello del bar. Stavano per arrestare persino la vecchia che puliva e cambiava le lenzuola. Hanno lasciato perdere perché Milagros ha scucito soldi a un sacco di gente. E allora, tutti zitti».

«Sei vendicativa».

«È una dote che ho. Quello che lascio, va in malora».

«Ci andavi di notte?».

«A tutte le ore. Lavoro a seconda dell’ispirazione. E basta. Perché vuoi sapere tutte queste cose? Sei geloso?».

«No, piccola, è per il romanzo».

«Quanto rompi con ’sto romanzetto. Poi, magari, non lo scriverai mai».

«E invece sì, uno di questi giorni dovrò decidermi a cominciarlo».

«Tu non scriverai niente, lo so».

«Sì, ti dico di sì. La cosa più difficile è il titolo e la prima pagina».

«Hai detto che vuoi intitolarlo Molto cuore. O hai già cambiato idea?».

«Sì, è un buon titolo, ma... non so che mi succede. Ho un sacco di materiale... ma non so da dove cominciare. Mi sono perso».

«Tu saresti capace di raccontare tutte queste storie del bordello e metterci dentro me con tanto di nome e cognome».

«Come ti vorresti chiamare?».

«Nel romanzo?».

«Sì».

«Tranne Gloria, qualsiasi nome va bene».

«Scegline uno».

«Katia».

«Mi piace di più Gloria».

«Ma così la gente capirà che sono io. Che vergogna, accidenti a te, non farmi una cosa simile! Almeno cambiami il nome».

«Chi potrebbe pensare che si tratta di te?».

«Insomma, basta. Tanto sei solo un vagabondo e non scriverai mai niente».

«Ti piaceva il bordello?».

«Certo, si fa la bella vita. Niente sentimenti. Hai mai visto una puttana sentimentale?».

«Agli uomini piacciono le puttane».

«Stronzate. Gli piacciono le puttane per strada e in un bordello, ma in casa vogliono una signora. Proprietà privata e non calpestare il prato».

«Tu mi piaci molto».

«Sì, certo... per divertirci a letto».

«Nessuno conosce il proprio destino. Che ne sai, magari ci metteremo insieme...».

«Macché metterci insieme. Sposarci. E vestiti di bianco. Con...».

«Basta, piantala. Sempre la stessa storia».

«E avere qualche bella bimba, papi».

«Tu non ci stai con la testa. Io non li sopporto, i bambini. Hai mai visto un vecchio che alleva dei neonati? Ne ho già tirati su tre. Basta così, Gloria. E tanto meno delle mocciose, poi!».

«Ohi, ohi. Sei proprio buffo. Sei tu il bambino. Ma quale vecchio, papito. Sei un bel pezzo di maschione».

«Io?».

«Che sfacciato. Quanto ti piace sentirti fare dei complimenti, ah ah ah».

«Quello che mi piace, è la tua risata».

«Bugiardo. Non piace a nessuno. Non mi lasciano mai ridere».

«Perché?».

«Dicono che ho la risata da puttana».

«È solo perché sei una tipa allegra».

«Sì, ma fa incazzare gli uomini. Si vergognano».

«Sei mai stata triste, al bordello?».

«Una sola volta».

«Con un uomo?».

«Sì».

«Perché?».

«Mi ero innamorata. Di un cinese. Un cinese mulatto. Bellissimo».

«Pelle scura?».

«Non sai com’è un cinese? Mulatto con i tratti da cinese. Cinese-mulatto. Aveva un dragone tatuato sul braccio, fantastico. Una Madonna del Cobre sulla schiena e un canino d’oro. Che follia, e quanto gli piaceva vestirsi di bianco, sempre tutto lindo e lustro, come un dandy. E un cazzo così... lungo almeno... dieci pollici. Aveva un cazzone con i fiocchi e controfiocchi».

«E tu, con quella fichina stretta e corta che hai».

«Stretta e corta...? Non dire scemenze, tesoro. Questa si allunga e si allarga come una gomma da masticare. Che ti credi? Gli piaceva scoparmi sul pavimento. Sempre sul pavimento».

«E perché ti sei innamorata?».

«Ah, non lo so. Mi scopava in un modo diverso dagli altri. Era affettuoso, per niente rozzo, carinissimo. Un po’ come mi scopi tu, con amore, e mi diceva cose gentili. Non so. Certe cose non si possono spiegare. Ti innamori e basta».

«E ti pagava?».

«All’inizio sì, è ovvio. Poi, no. Però mi dava comunque dei soldi. Non come compenso, ma mi faceva un mucchio di regali. Guadagnava bene. Portava i turisti in giro per le spiagge. Un bel tipo. A un certo punto me lo sono ritrovato intorno a casa, diceva che voleva lasciare la moglie per me, tirarmi fuori dal

bordello e sposarmi. La storia è durata per un po’... circa un anno, un anno e qualcosa. Mi portava a passeggio, a bere una birra, ma a un tratto è sparito e non ho più saputo niente di lui. L’ho rivisto poco tempo fa. Ha detto che si è fatto quasi due anni di galera. Già prima era stato dentro per un anno».

«E perché?».

«Ti ricordi quando i dollari erano proibiti?».

«Sì, certo che me lo ricordo».

«Lo hanno beccato con duecento dollari, una barcata di anni, ma alla fine è rimasto dentro soltanto un anno».

«E adesso?».

«Adesso fa il jinetero, con le straniere. Non perde il vizio. Del resto, è carino da matti. Meno male che è finita così, perché avrei sofferto troppo. È un uomo che ci sa fare, un gran maschio. Gironzola per la spiaggia e le straniere lo guardano a bocca aperta. Figurati... sceglie quella che gli pare a lui. Non ha l’obbligo di scoparsele per forza. Sai, non gli piacciono le bionde e neppure le bianche in generale».

«Solo more?».

«Come me. Ambrate, diciamo. Prima o poi si sistema. Si sposa con qualche gringa e quella se lo porta al suo paese, a fare la bella vita».

«Non lo rivedi più?».

«Sì, ogni tanto. Ma è acqua passata. Tutto passa. Non ha mai preso una decisione, ci incontravamo sempre per la strada, così, senza impegno. E a un certo punto è finita. Non c’è niente di eterno, in questa vita. Come succede a noi adesso. Io non posso certo passare la mia vita dietro a te e tu a fare il bel maschione, perché dopo un po’ mi stufo, o spunta qualcun altro che mi piace e risolve tutti i problemi, mi

sposa, mantiene me e mio figlio, e basta. Non voglio neppure pensarci, ma è la verità».

«Sì, hai ragione».

«Mi è già successo con il padre di mio figlio. Poi con il Cinese, e anche... ecco... qualche altra volta. E se tu continui a non prendere una decisione...».

«Senti un po’, cos’è ‘sta storia? Che vuoi da me?».

«Che voglio da te? Quello che vorrebbe qualsiasi donna: sposarmi, vivere con te, avere figli, essere amata da mio marito, e una casa nostra. Organizzarmi la vita decentemente».

«Hai detto niente».

«E tu intendi vivere sempre da solo? Hai bisogno di qualcuno che si prenda cura di te».

«Prendersi cura di me? Ti sembra forse che abbia la faccia di un bambino, di un neonato?».

«Tutti gli uomini sono dei bambini. Hanno tutti bisogno di una donna che si prenda cura di loro».

«Ahhh».

«Io ho tanta pazienza, papito. Sono innamorata di te come una cagna, ma tutto ha un limite. Pensaci. E prendi una decisione, perché tutto ha un limite».

«Gloria, la cosa non è così semplice. Mi sembra logico che tu a ventinove anni faccia progetti per il futuro».

«Ah, non fare il vecchietto».

«Non sto facendo il vecchietto, ma la realtà è che apparteniamo a due generazioni diverse».

«Uhm».

«Tu vai dritta all’obiettivo. E non ti rendi conto del resto. Ma per la mia generazione le cose hanno girato in modo diverso».

«E come?».

«Ci hanno fatto concentrare sul resto. E dimenticarci di noi stessi».

«È per questo che sei sempre così amaro».

«E confuso. E defraudato di tutto. Almeno io non mi sono suicidato, che è già molto. Adesso quello che mi salva è il cinismo. Sono ogni giorno più cinico e scettico. L’unica cosa che voglio è stare in disparte. Che continuino pure a tirarsi sassate tra di loro. Che vadano avanti con l’odio e i rancori. Ma a me non mi devono più rompere i coglioni, non voglio prendere altre batoste in nome di questo o quell’altro. Ciò di cui ho bisogno sono quattro dollari in tasca e un po’ d’amore e compassione nel cuore».

«Oggi sei proprio malinconico, papi».

«Malinconico un cazzo! Non farmi parlare troppo sennò divento ancora più amaro del solito. Andiamo a cercare del rum. Poi ti rifilo quattro cinghiate e via, a letto».

«Selvaggio, pensi sempre alla stessa cosa».

«A ballare e a godere con la Sinfonica Nazionale.

Dài, Gloria, muoviti, che è già tardi».