Mi sono eccitato troppo scrivendo una lettera a Gloria: “Ti bacerò il culo, ti succhierò il sangue, non desidererai altro nella vita. Sarai al tempo stesso schiava e regina, mi amerai e mi odierai e ti sentirai felice e vorrai morire, e non potrai mai allontanarti da me. E saremo due pazzi innamorati. Mi imbizzarrisco come uno stallone selvaggio quando chiudo gli occhi e penso a te”.
Era assolutamente vero. Scrivevo senza riflettere. Mi usciva tutto dal cuore. Quando non ne ho potuto più l’ho infilata in una busta, sono andato fino alla cassetta all’angolo e l’ho spedita. Una volta rientrato a casa, mi sono sdraiato nudo sul piccolo balcone. Tre del pomeriggio. Un bel sole e 23 gradi. In realtà non riesco a stendere completamente le gambe – il balcone è minuscolo – ma almeno riesco ad abbronzarmi un po’. Continuo a essere eccitato. E mi masturbo. Soltanto un pochino. Ah, perdio, a cinquant’anni mi comporto ancora come un adolescente. Mi trascino in salotto. Se mi vedesse un vicino, potrebbe chiamare la polizia. Comunque, non so dove diavolo se ne stia nascosta la gente. Non vedo mai nessuno. Non si affacciano neppure alle finestre. Cosa fanno? Dove sono? Il cuore batte forte e mi metto in piedi davanti a uno specchio a masturbarmi ancora un po’, con Gloria sempre ficcata nel cranio. Sono pazzo. Quella troia mi fa uscire di senno. Mi fermo in tempo e aspetto che torni Agneta. Non intendo sprecare sul pavimento quello che potrebbe far godere qualcuno. È arrivata la posta. Pubblicità. Tutta roba da buttare. Leggo qualche pagina di un romanzo di una scrittrice italiana che va di moda. Eccessivamente lento e noioso. Trovo sempre meno
autori che mi soddisfano. Dev’essere l’età. Si diventa più selettivi, i gusti si affinano. Mancano tre ore al rientro di Agneta e ho sempre il cazzo ritto. Chissà come si dice in svedese. Ci sarà un termine per definire il momento di desiderio in cui il muscolo si riempie di sangue e si ingrossa e cresce senza però raggiungere la massima tensione? Sì, devono avercela anche loro, la parola giusta. Musica. Eric Clapton. Ci sono alcune riviste spagnole abominevoli. Il jet set europeo a bordo degli yacht o alle feste di matrimonio. Sono ansioso. Ho voglia di bere e fumare, ma resisto. Sarei tutto il giorno ubriaco. Prendo la Bibbia. Mi piace tanto la storia di Sara che seduce il Faraone d’Egitto e si fa passare per la sorella di Abramo. Alla fine il Faraone scopre l’inganno e gli rimanda Sara, lo espelle dal suo territorio, ma il tipo si porta via tutte le ricchezze e come se non bastasse si prende un’enorme fetta di terre per il suo bestiame, allontana il cugino di lui, anch’egli diventato ricco grazie al raggiro architettato ai danni del Faraone. Insomma, una gran bella storia. Se dovessi scrivere un remake, tanti direbbero: “Oh, che cinico, questo autore”. Come no. In realtà, non c’è niente di nuovo sotto il sole. Sara potrebbe essere una jinetera, Abramo un tipico pappone dell’Avana e il Faraone un industriale tedesco pieno di soldi, per esempio. Nulla di originale. La vita è un eterno remake. Alle sei, finalmente, arriva Agneta. Ci diamo solo un bacetto fugace. Torna sempre tesa. Si toglie le scarpe e la giacca.
«Oh, non ne posso più».
«Eh?».
«L’interprete che doveva venire da Göteborg la prossima settimana non viene più. Mi ha telefonato oggi. Ha la lombaggine. Non so cosa fare. Perché si ammalano tutti? Che succede?».
Io che pensavo di sbatterle dentro l’uccello e farla godere, e lei è stressata per la lombaggine di una certa signora. Mi scoraggia. Mette su un disco. Mozart. Concerti uno e due per flauto e orchestra. Allegro maestoso.
«Vuoi una tazza di tè?».
«Tè?».
«Preferisci un caffè?».
«Agneta, una tazza di tè a quest’ora fa male».
«Non capisco».
«It’s dangerous. Very dangerous».
«A cup of tea?».
«Yes, very dangerous. It’s no time for a cup of tea!
Che paio di coglioni!».
«Oh!».
«It’s time for a big glass of rum».
«Oh!».
E mi preparo un gran bicchiere di sakè e cocacola. Il prezzo del rum è troppo alto. Diamoci sotto con il sakè.
«Bevi molto».
«Non credere. Tu non sai neanche cosa sia, bere molto. Comunque, c’è una bottiglia di vodka nell’armadio».
«Ah, sì, tempo fa... ecco, me l’ha regalata un amico». E comincia ad arrossire.
«Un amico? Un amante platonico, forse».
«Platonico? Oh, sì, ah, non so...». Adesso in faccia è rosso fuoco.
«Ti vergogni di avere amanti platonici?».
«No. È solo un amico».
«Tutte le donne comprese le ottantenni hanno amanti platonici. Piacciono a tutte questi flirt campati in aria. Senza neppure sfiorarsi. Cioè, a volte si
può arrivare a toccare una tetta, a scambiarsi qualche bacino...».
«Tu la sai lunga sulla psicologia femminile».
«Sulla psicologia, proprio un bel niente. Diciamo sulla prassi. Il diavolo impara più dall’esperienza fatta che dall’essere un diavolo».
«Come? Non ho capito».
Devo ripetere il detto varie volte, aggiungendo varianti, finché riesce a intuirne il senso.
«Bene, Agneta, l’importante è che ti ha regalato un bottiglione di vodka. Quindi, avanti con il platonico, e se a un certo punto vuole mordicchiarti una tetta, puoi anche permetterglielo, sempre che continui a regalarti vodka. O meglio, per la prossima, fatti regalare del whisky».
«Ah, sì? Preferisci il whisky?».
«Yes! Scotch. Solo scotch».
Un paio di sorsi di sakè. Ho provato a farglielo assaggiare ma non riesco a liberarla dal tè. Va bene, pazienza. Mi butto. Una bella scaldatina sul divano. Mozart come testimone. Altro sakè.
«Mettiti addosso un po’ di sakè, tesoro».
«Cosa? Non capisco. Sei ubriaco».
«Ubriaco io? Ma no! Sono allegro. Vieni. Andiamo sul letto».
E ci andiamo. Non arriva neppure al venti per cento delle grandiose scopate con Gloria, ma va bene così. Dopo tutto, siamo a pochi chilometri dal Circolo Polare Artico. Non si può pretendere di più. Almeno credo. Le spruzzo tutto il getto di sperma sulla faccia. Il suo stile è l’arrendevolezza. Chiude gli occhi e si abbandona e ha diversi orgasmi. Silenziosi. Sospira appena e si bagna e sbrodola e sospira ancora ma con discrezione e intanto vola come un uccellino. E io sopra, che ci do dentro a tutta forza.
«Agneta, in qualche vita precedente non eri certo svedese, né eschimese o lappone. Credo che tu sia stata una nera africana, o della Polinesia, dei Caraibi, una gitana andalusa. Qualcosa di più caldo, intendo dire».
«Sì?».
«Certo. A quarantaquattro anni hai avuto in tutto dieci o dodici uomini. È un buon record per queste parti, mi sembra».
«Tu credi? È un record? No. È normale».
«Mi piace. Qui la gente parla poco, ma on the road, cerca di fare quello che più le piace».
«Io non sono mai andata in cerca di nessuno. Ho passato anche anni interi senza un fidanzato».
«Sai che mi piaci proprio. Sei una che sa godere, ci provi gusto. Non immaginavo fossi così calda».
«Neanch’io».
«Ah, Agneta, non dire stronzate. Hai quarantaquattro anni. Vorresti farmi credere di essere sempre stata una gatta morta?».
«Gatta morta? Cosa vuol dire?».
«Fredda, senza stimoli».
«Oh, no, no. Credimi, io non immaginavo... ohh... non sono mai stata così. Non ho mai provato...».
«Non hai mai provato cosa? Dài, parla. Lasci sempre le frasi a metà. Perché sei così timida con me?».
«Non sono timida. Devo pensarci. Lo spagnolo è molto difficile. Non trovo mai le parole».
«Va bene, non preoccuparti. Non hai mai provato cosa?».
«È che... ho sempre pensato di essere, anzi, sono un pezzo di ghiaccio, congelata, frozen. Come si dice?».
«Frigida? Cioè non senti niente?».
«Ecco. Frigida. Non ho mai provato quello che pro-
vo adesso. Con te è diverso. Non so cosa mi succede e... oh... non so come spiegartelo. Sono confusa».
«Tu non sei confusa proprio per niente. Piantala con le nevrosi e i drammi e goditela, scopa, che il mondo prima o poi finirà».
«Che dici? Non capisco».
«Godi, che la menopausa incombe».
«Ah, la menopausa. No. Mancano ancora degli anni alla menopausa».