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Rimasi per diversi giorni senza far niente. Prendevo il commuter train, poi il metro e andavo in centro e nella parte antica della città. A guardare, passeggiare, vedere gente, slumare le svedesi. Alcune sono bellissime e con grandi tette. Magre e senza culo, ma mi piacciono. Hanno stile. Forse i culi grossi li considerano volgari. Nel pomeriggio tornavo ai miei boschi. Oggi sono rimasto a oziare per casa. Un’inaspetta ta giornata di nubi, pioggia e freddo. Faccio una corsa nel bosco. Rientro sfinito. Una doccia. Mangio polpette e cracker. Mi metto a curiosare tra gli scaffali e trovo diversi libri di Umberto Eco. Uno è la versione inglese della sua ricerca sulla storia del linguaggio in Europa e i rapporti con la cultura. Ne leggo qualche pagina, con lentezza. In italiano mi ri-

sulterebbe più facile.

Agneta torna più presto del solito e si mette a riordinare la casa come una forsennata. Raccoglie la roba sporca. Ce n’è molta. Si infila un paio di zoccoli vecchi e consumati, e scende più volte nello scantinato del condominio, dove c’è la lavanderia. Poi, scalza, passa l’aspirapolvere. Pulisce dappertutto. In fretta. Mette un cd, Pavarotti and his friends. Un panno umido sui mobili, quindi va in bagno, detergente al limone, sfrega, strofina, lava, una pulizia a fondo. La osservo. Ah, accidenti, è una fanatica tale e quale a Gloria: pulisce tutto, di corsa, come una pazza, scalza, e con la musica a tutto volume. Laggiù, cassette di Willy Chirino e La India, qua, Pavarotti. Stessa storia. Mi immagino già la fica sudata e odorosa. Mi eccito pensando a Gloria. Me lo tengo dentro. Cerco di calmarmi.

Più tardi parliamo del libro di Eco.

«Ti interessa?».

«Sì».

«Ti contraddici, non sei coerente».

«Perché?».

«Qualche giorno fa hai detto di non essere un intellettuale».

«Mi stai addosso? Te lo ripeto: preferisco vendere pomodori e carote. La mia vera vocazione è il commercio, tirare somme. Guadagnare soldi. È la prima cosa che ho fatto da bambino, con mio padre: vendere gelati, buste di carta e fumetti usati. Però ogni tanto mi piace leggere cose intelligenti, ben documentate, scrupolose. È affascinante che qualcuno riesca a realizzare un libro così perfetto. Sono un tipo semplice. Capisci? Mi piace oziare, lasciare i miei libri a metà, starmene a pancia all’aria, sudicio».

«Filosofia da venditore di pomodori».

«Può darsi. Mi piace andare in giro sporco, per il mercato, a vendere lattughe, pomodori, quello che capita. E mi piace quel tipo di gente. Tra loro sto bene. Donne con grossi culi, volgari, provocanti, disposte a fare qualsiasi cosa per qualche pesos. Donne di strada, battone dell’Avana. E se sono nere o mulatte, poi...».

«Davvero? Le preferisci?».

«Sì. Totalmente. Quelle furbe e pronte a fregarti. Bisogna stare attenti perché cercano sempre di spillarti soldi. Ci provano in tutti i modi. Conoscono migliaia di trucchi. Sono attrici consumate».

«Lo farai sul serio?».

«Cosa?».

«Vendere pomodori».

«Sicuro. Scrivo un altro libro e poi basta. Non credo di avere ancora granché da raccontare. E non vo-

glio annoiare la gente solo per incassare qualche dollaro e poi sentirli dire: “Quel tipo è un imbecille e scrive scemenze”. No. Ho in testa ancora un altro libro, e chiuso. A vendere pomodori fino all’ultimo dei miei giorni. E magari continuo a dipingere. Quando dipingo non penso. E questo va bene: non pensare».

Agneta rimane in silenzio. Alla fine mi chiede:

«Di che libro si tratta?».

«Molto cuore. Una sorta di biografia di una giovane cubana. Un’amica mia».

«Sono d’accordo. Benissimo. Se mi vuoi vengo a Cuba per un anno e ti aiuto».

«Ah ah ah».

«Dico sul serio. Anch’io ho bisogno di vendere pomodori e lasciare l’ufficio e imparare lo spagnolo».

«A Cuba impareresti il cubano. È un dialetto».

«Ah ah ah».

«E voglio cubanizzarti. Voglio colonizzarti. Ti mollo tra i neri del mercato di Cuatro Caminos e quelli ti cubanizzano».

«Oh, no. Soltanto con te. Non lasciarmi da sola».

«Questo lo dici qui. Laggiù vorrai essere lasciata da sola. Nel giro di una settimana ti cubanizzi e ti godi il folklore e la negritudine».

Un’altra pausa di silenzio.

«Ho conosciuto Eco».

E indica il libro sul tavolo.

«Sì? Cazzo, che amicizie esclusive! Bene».

«L’ho conosciuto in una certa occasione. È venuto per partecipare a un congresso che ho organizzato io all’università ed è amico del mio amico irlandese».

«Del tuo fidanzato irlandese».

«No, ah ah ah, è che... entrambi compiono ricerche... e, eh eh eh...».

«Questa risatina nervosa... Hai la casa piena di libri sull’Irlanda, Dublino, flauti, souvenir, cartoline, quadri, dischi. Qua sembra di essere al consolato d’Irlanda di Stoccolma».

«Oh, ah ah ah».

«Pensavo fosse finita. Stai ancora con lui?».

«Oh, eh eh eh... ehhh».

«Va bene così. Non rispondere.».

«Ehhh...».

«Non rispondere».

Preparo un po’ di vodka con ghiaccio e cola. Prendo un sigaro e me ne vado sul balcone. C’è un bel tramonto. Una bambina deliziosa, di una decina d’anni, gioca con un cane nero. Lo fa quasi tutti i pomeriggi. Nel giro di qualche anno sarà una bella svedese molto sexy. Per ora è solo una bambina sensuale, una vera provocazione nel parco. Si rotola sul prato, giocando con il cane. Porta uno slack molto attillato e i seni cominciano a spuntare e le sta crescendo il culetto. Si nota già in lei una certa sensualità. Accendo il sigaro e assaporo il fumo mentre la osservo. Ah, accidenti, tramonto, vodka e sigaro. In fondo Agneta è come Gloria. Soltanto che è nata in Svezia. Indomabile come quell’altra. È per questo che scopa così bene e gode tanto. Sta ancora con l’irlandese. E io imbecille che pensavo all’esclusiva. Proprio come Gloria: vorrebbe farmi credere di essere l’unico, e intanto continua di nascosto a coltivare la vocazione della puttana. Sono uguali, queste due troie. Persino lo stesso odore della fica. L’unico svantaggio di Agneta è che non sa fare i pompini, ma sta imparando. Lentamente, ma impara. Venire da tanto lontano per scoprire una cosa simile. Agneta esce sul balcone. Annusa il fumo del siga-

ro. Le piace.

«Vuoi un po’ di vodka? Te ne verso ancora?».

«No. Preferisco mangiare qualcosa per cena».

«Siediti. Fammi compagnia».

«Va bene, ma solo qualche minuto. Poi ceniamo».

«Mhm».

Guardo il cielo e le indico la luna crescente:

«Guardala lì, che ci gira intorno. Non si nasconde.

Gira in tondo sulle nostre teste».

«Ahh».

«Mi fa impazzire».

«Ci credo. Influisce su...».

«Influisce su tutto. Con questa luna gli spermatozoi mi salgono fino al cervello. Mi succede sempre».

«Non capisco. Cosa sono gli sperma...?».

«Gli spermatozoi?».

«So cos’è lo sperma».

«E gli zoi, no?».

«No».

«È una sola parola. Spermatozoi. Quei bambini microscopici che corrono velocissimi verso l’ovulo, e fanno a chi arriva prima. Così è la vita. È la prima cosa che si fa: correre come un pazzo, gareggiare, per arrivare da qualche parte. Da qualunque parte, che nessuno sa dove sia. Quei bambinelli microscopici corrono e corrono e non sanno neppure dove vanno. Non immaginano nemmeno perché lo fanno».

«Mhm».

«Alla fine se ne salva uno solo. Il più forte, il più veloce. Il più furbo, quello che ha sgomitato e fatto lo sgambetto agli altri. Il più forte, aggressivo e astuto».

«Oh, sì, ma... non corrono. Scusa se ti correggo, ma non corrono. Nuotano».

«Ahhh, svedese della mia vita... esatto: nuotano.

Non corrono. Nuotano, disperatamente. Si giocano la vita in quella gara».

La vodka mi ha messo allegria. Ascolto i Van Van. Ballo un po’. Da solo. Non riesco a farle ballare la salsa o il son o qualcosa del genere. Ho provato a insegnarglielo, ma non ne vuole sapere.

«Non ti piace?».

«Sì. Mi piace, ma non so».

«Tu scopi bene e godi come si deve e muovi il bacino ottimamente quando ce l’hai dentro».

«Oh, Pedro Juan».

«È la stessa cosa. Scopare e ballare. O ballare e scopare».

Sul serio, la luna mi scombina. Non è una stronzata, come crede Agneta. La notte, scopiamo un sacco. Giochiamo. Anzi, gioco io. Lei si lascia fare. Le piace essere il mio giocattolo. Un’ora e mezza, forse. Ci addormentiamo di sasso. Sveglia alle sette. E io lì, con l’uccello duro un’altra volta. Scopata di mezz’ora. Si alza e corre verso il nostro tè quotidiano. Non ha neanche il tempo di farsi una doccia.

«Oh, farò tardi. Non ho più tempo».

«Ah, chissenefrega. A Cuba si fa così. Arriviamo tutti prima o poi, ma nessuno riesce ad arrivare in orario».

«Siamo in Svezia, Pedro Juan, siamo in Svezia».

«Hai fatto la doccia?».

«No».

«Benissimo. A metà mattinata ti infili un dito dentro e lo annusi».

«Ah, no. Sei pazzo».

«È buonissimo. Anche le scimmie si annusano. E gli piace».

«Oh».

«Lì dentro c’è il latte mio e tuo, mescolati. Fa un ottimo odore. Vedrai che ti piacerà».

«Forse è una buona idea. Lo farò. Oh, it’s very late». Quando è confusa non riesce a parlare in spagno-

lo. Alle dieci le telefono in ufficio.

«Sei arrivata molto tardi?».

«Quindici minuti di ritardo».

«Ah, non è niente».

«E invece è molto. Oh, non ho tempo, adesso non posso parlare».

«Hai molto lavoro?».

«Sì, sì».

«Bene, ci vediamo più tardi».

«Ahh, Pedro Juan, ehh... non sono incinta».

«Sicura?».

«Sì».

«Ah, meno male. Che sollievo».

«Devo lasciarti. Ho un sacco di lavoro da sbrigare».

«Ti durano per diversi giorni?».

«Sì. In genere cinque giorni».

«E che facciamo? Usiamo il culo?».

«No, no...».

«E allora dal davanti, con il sangue e tutto il resto.

No problem».

«No. Oh, sei... Ti lascio. Sei pazzo. Riattacca, per favore. Ho troppo lavoro da fare».

E ho riattaccato.