A mezzogiorno vado a correre in un bosco di pini, querce e betulle. C’è un sentiero vicino a un canale. Terra nera, soffice e umida. Ricoperta di muschio e
aghi di pino. Mi sento in perfetta forma facendo jogging e guardando la gente che rema in canoa e kayak. Altri nuotano nelle acque gelide del Baltico. Oggi ho capito perché mi piace tanto: in un bosco identico a questo, in Lituania, dalle parti di Vilnius, ho passato una giornata di amore sfrenato con una bellissima lituana. È stata un’esperienza alquanto strana. Lei parlava soltanto russo e lituano e nemmeno una parola di inglese, francese o spagnolo. Ci eravamo conosciuti la sera prima a una cena. Abbiamo ballato. Io avevo allora trentacinque anni ed ero molto emotivo. Lei faceva la ballerina in un gruppo folkloristico ed era romantica e alta e magra e allegra e deliziosa. Ci siamo piaciuti al primo sguardo. Abbiamo ballato per un po’ ma sembravamo due serpenti avvinghiati l’uno all’altra. A quel punto, ovviamente, la nostra intenzione era di salire nella mia stanza d’albergo, al quarto piano. Impossibile. Un energumeno sulla soglia le sbarrava il passo. Lei non era ospitata lì. Gli ho offerto qualche rublo. Niente da fare. L’albergo era riservato agli stranieri. Quindi, la ragazza non poteva salire in stanza. I sovietici erano così, davvero incantevoli. Ancora non mi spiego come abbiamo fatto a intenderci io e la lituana; comunque, quella notte siamo andati a fare una passeggiata, scaldandoci a vicenda nei limiti del possibile. L’indomani, in quel bosco, abbiamo fatto l’amore come due pazzi. Vino e birra a volontà. La sera, un po’ sbronzi, io le ho cantato Nosotros. Sono fissato con quella canzone. Sembra che Pedrito Junco l’abbia composta appositamente per me e non per dire addio alla sua donna, poco prima di morire di tubercolosi:
Noi
che ci amiamo tanto,
dobbiamo separarci non farmi domande.
Non è mancanza di affetto, ti voglio un bene dell’anima e in nome del nostro amore e per il tuo bene,
ti dico addio.
Lei ha pianto. E io pure. Poi mi ha sussurrato una canzone d’amore lituana. Altre lacrime. Altra birra. L’indomani sarei tornato a Cuba mentre lei sarebbe andata in Germania con il suo gruppo folkloristico. Non so come avessimo fatto a dirci quei particolari. Non le ho chiesto il suo nome né lei il mio. Indirizzi, numeri di telefono, niente di niente. Abbiamo camminato per un po’ nel bosco, che mi sembrava il paradiso terrestre, e ci siamo detti addio piangendo sconsolati. Addio per sempre. Non ci saremmo più rivisti.
Adesso faccio jogging in un bosco del tutto simile e ricordo quel momento struggente, di amore e dolore, vissuto quindici anni fa.
Accanto a un piccolo molo ci sono tre giovani che fanno il bagno. Completamente nudi, sui diciotto anni. Si pisciano addosso a vicenda. Mi fermo a osservarli, nascosto dietro i cespugli e le betulle. Uno sale sul pontile e piscia sulla testa degli altri due. Quelli in acqua chiudono gli occhi, aprono la bocca e ricevono la pioggia dorata sulla faccia. Quando finisce, si tuffa e sale su un altro, che fa la stessa cosa. Interessante, il giochetto. Denudatevi, sodomiti, e pisciatevi addosso gli uni con gli altri.
Non si accorgono della mia presenza. Sono troppo concentrati nel loro gioco urinario. Riprendo a correre. Ogni tanto sbircio tra i cespugli. Chissà che non
scopra il corpo di una donna assassinata. La prima volta che sono venuto in questo bosco, Agneta mi ha detto che pochi giorni prima avevano trovato il corpo di una donna assassinata. La notizia era uscita sui giornali, ma non indicavano il punto esatto. Agneta mi ha solo detto: “L’hanno trovata in questo bosco”. Così, cerco anch’io un cadavere tra le betulle.
Torno a casa. Agneta mi aspetta. C’è posta per me. Una lettera di Gloria. La metto da una parte senza aprirla e, soprattutto, senza darle alcuna importanza. Squilla il telefono. È sua nipote che viene qui tra pochi minuti. Abita in centro e vorrebbe fare una passeggiata nel bosco insieme a noi. Posso? Ma sì, certo, vieni pure. Agneta non ha figli. Ha due nipoti. Mi vesto. Venti minuti dopo suonano alla porta. La nipote è con Erika, la sua bambina di quattro mesi o giù di lì. Lei è una tipica svedese di trent’anni: molto magra, grandi tette, biondissima, sorridente, occhi azzurri, parla il minimo indispensabile. Due minuti dopo Erika comincia a strillare. La madre si accomoda su una poltrona, tira fuori le sue grosse tette, sode e appetitose, e la piccola si ingurgita un paio di litri di latte. Resto imbambolato a guardare quelle tettone bellissime. Forse mi brillano troppo gli occhi e mi si legge in faccia la voglia di staccare Erika e mettermi a succhiare al posto suo. La prendono male e diventano scure in volto, la nipote rimette via le sue tentazioni in fretta e furia. Restiamo in silenzio, tutti e tre a fissare una parete diversa. Erika invece non guarda da nessuna parte. Si è addormentata con
la pancia piena.
Dopo un po’ mi alzo. Esco sul balcone e do un’occhiata in giro. Niente. Non c’è niente da vedere. Soltanto alberi. Quello che vorrei fare è afferrare quel
paio di tette e... Rientro. Mi infilo le scarpe, la giacca, il berretto:
«Vado a prendere una boccata d’aria fresca. Vi aspetto giù».
«Va bene».
Ci mettono una mezz’ora, a scendere. Di sicuro la nipote avrà detto alla zia che si è presa in casa un delinquente e che stia attenta eccetera. Alla fine arrivano. Passeggiamo nel bosco. Per un quarto d’ora. Senza scambiare una parola. Insomma, non è poi così grave. In qualsiasi posto al mondo gli uomini cercano di sbirciare le tette alle donne e le donne fanno vedere qualcosina ma non tutto. A quanto mi risulta è un fatto normale e non merita un simile dramma e questo silenzio mortale. Dovrei forse sentirmi in colpa? Ebbene no, non mi sento affatto in colpa e non mi pento della mia lussuria.
Fa freddo. Nel bosco, ancora di più. La nipote fa una telefonata sul cellulare. Sbuchiamo su una stradina. Dieci minuti dopo arriva il marito in macchina. Saluta dietro i vetri del finestrino. A malapena un cenno con gli occhi. Rispondiamo da lontano: “Hi”. Se ne vanno. Mi si sono gelate le mani, la faccia, i piedi, le orecchie. Ci sediamo su una panchina di fronte al canale. A un centinaio di metri, attraccati al molo, una quarantina di yacht di lusso. Quasi tutti a vela. Battono bandiera tedesca.
«Bellissimi! Compratene uno così, Agneta, e ce ne andiamo in giro per il mondo».
«Mhm. Una di quelle barche vale... il mio stipendio di... venti o trent’anni».
«Cazzo!».
«Tedeschi. Loro sì che hanno i soldi».
«In Europa tutte le colpe sono dei tedeschi».
«No, no, è che... insomma, quelli che vengono qui hanno un sacco di soldi. Davvero tanti».
«Come ovunque. Chi non ha la grana se ne sta a casina sua. E a proposito di casa, andiamocene perché sto congelando».
«Oh, hai freddo?».
«Tesoro, che cazzo, quando siamo usciti c’erano dodici gradi, e adesso saranno dieci».
«Per me si sta benissimo».
Una volta tornati a casa Agneta prepara qualcosa per cena. Prego Dio che non sia salmone. Non ne posso più di salmone, pane e formaggio. Cerco un po’ di musica alla radio. Trovo qualcosa in spagnolo. Incredibile ma vero. In FM. Un’emittente che si chiama Match 81.9. Una lunga intervista, in inglese e spagnolo, a un cubano che vive a Washington. Siamo proprio dappertutto. Roba da matti. Il tipo è membro dell’Accademia della Lingua Spagnola negli Usa. Buon per lui. Dice che lo spagnolo si diffonde sempre di più ed è una lingua mondiale. Mi piace sentirlo dire. Anche se non è vero. Troppo inglese mi sconvolge. “Quando sono arrivato a Washington, circa quarant’anni fa, bastava sentir parlare qualcuno in spagnolo e subito ci si salutava e si faceva amicizia. Oggi no. Oggi è normale incontrare persone che parlano spagnolo nei negozi, nei ristoranti, ovunque”.
Cena a base di insalata e rostbeef. A quanto pare il salmone perde terreno.
«Ma ti piace così tanto il salmone, Agneta?».
«Sì, è una tradizione. Mangio sempre salmone e caviale».
«Caviale in crema. Non è possibile. Sembra dentifricio».
«Oh, no».
«Oh, sì».
Dopo aver cenato riemergono le mie abitudini borghesi: caffè, whisky e un buon sigaro. Sul balcone, ovviamente. È questo che non mi piace dell’Europa. Undici gradi, eppure mi tocca fumare fuori benché mi si congelino i coglioni.
«Agneta, vieni a farmi compagnia?».
«Sure!».
A volte è bello fumare in compagnia, anche se preferisco farlo in solitudine. Fumare un buon sigaro è un momento di riflessione, di meditazione. È come pescare. Da soli. Starsene lì, con la lenza. Pensi, parli, ti lasci risucchiare dentro di te. La sigaretta è nevrotica. Il sigaro è filosofico.
In un angolo del condominio, sul prato, ci sono alcuni cassoni di sabbia, con amache, altalene, casette di legno. Il municipio spende abbastanza soldi per i bambini e la stagione estiva. Adesso ci sono due bambine e un bambino. Le due bambine si dondolano come matte sulle amache. Arrivano al limite e strillano. Si spingono al massimo. L’amaca è legata con catene di ferro, per sicurezza. Qui è tutto estremamente sicuro. Ogni cosa risulta ben rifinita, ben avvitata, perfetta, di alta precisione. La gente si è ormai dimenticata persino il senso della parola “insicurezza”. Le bambine si dondolano a 180 gradi. A tutta forza. Si divertono, gridano, ridono, hanno paura, si controllano. Continuano così. Spaventate, ma non smettono. Al massimo. Il bambino è più prudente. Un po’ vile. Non si azzarda. Si muove appena. Le bambine invece se la spassano e strillano per la paura e magari se la sono fatta nelle mutande, eppure continuano a dondolarsi come folli. Le osserviamo.
«Da bambino facevo la stessa cosa».
«Sì?».
«Sempre al limite. Mi buttavo sull’amaca e dondolavo fino a rovesciarmi. Mi cacavo addosso dalla paura ma mi piaceva. Stringevo il culo e tenevo a bada la paura. Mi piace: arrivare al limite e mantenere il controllo».
«Ti credo».
«Sono così fin da bambino».
«Fai tutto allo stesso modo. On the top».