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Nel fine settimana non è successo niente. Questa vita matrimoniale mi annoia a morte: andare al supermercato, comprare birra, latte, formaggio, pane, uova, caffè. Sabato è arrivato un pacco: televisione via cavo. L’ho installata. Finalmente potremo vedere qualche film porno. Adesso abbiamo dodici canali in più, compreso uno francese. A lei interessano di più la Bbc e la Cnn.

Ho nascosto così bene la lettera di Gloria che me la sono scordata. Una mattina sono da solo, che fisso il soffitto. Che faccio? Il silenzio è opprimente. Incredibile. Ma come fanno gli svedesi a mantenere il silenzio assoluto in un quartiere dove ci sono tanti condomini? Un silenzio interminabile e perfetto. Cazzo, la lettera di Gloria! La vado a prendere, la metto in tasca, infilo le scarpe da tennis, scendo le scale e vado nel piccolo cimitero. Ci sono fiori freschi su alcune tombe. È un bel posto, verde, tranquillo, con piccole e discrete lapidi di pietra.

Accanto alla cappella c’è una panchina, sotto alcuni enormi alberi, dal fogliame fitto, di un verde in-

tenso. Mi siedo e apro la busta. Un foglio ripiegato pieno di baci rossi, bruni, dorati, argentati, verdeblu. Due fiori secchi e una lunga lettera di quattro pagine: “...Sono un’inguaribile romantica. Tu mi procuri un certo calore intimo. In fondo ci assomigliamo, anche se sei come sei, un po’ difficile, ma questo mi dà uno strano piacere. Prego sempre Dio che tu possa accettarmi come sono. A volte penso di essere pazza, ma la sera accendo una candela, mi siedo e mi pongo delle domande. Faccio luce dentro di me e allora so che tutto è in ordine e che ho la coscienza pulita e così mi addormento serena, senza soffrire per la solitudine. Sono andata in varie chiese, della Caridad e della Regla, a Las Mercedes, e mi sono inginocchiata davanti al Signore chiedendogli di proteggere mio padre e te e tutti, e che abbia pietà di noi...”.

La rileggo diverse volte e alla fine raggiungo uno stato di profonda quiete e non penso a niente. Passeggio sul prato soffice e guardo le date sulle tombe. Ce ne sono molte di gente vissuta nel XIX secolo. Ecco cosa siamo in definitiva: polvere e silenzio. Ma ci atterrisce pensarlo e allora facciamo tanto rumore e casino, tra l’inizio e la fine della vita.

Torno senza fretta nell’appartamento e scrivo una lettera a Gloria. “Quando torno ti porto una bella frusta. Tanto amore. Ti prometto baci, cazzo e frusta. Voglio domarti e renderti mia schiava. Sarai il mio animaletto. Non hai mai avuto in vita tua un uomo così, e non lo avrai mai. Mi ispiri. È qualcosa di spirituale e fisico al tempo stesso. Risvegli dentro di me l’angelo e il demone. E quindi dobbiamo approfittarne adesso perché il futuro è oggi. Mi piacerebbe vivere con te in una grande casa. Noi due soli, con un cane nero a tua scelta. E non potrai depilarti le ascel-

le e le gambe. Niente. E tanto meno deodoranti o profumi. Tu e io. Al naturale. Soli e selvaggi in una casa fuori L’Avana. Lontani dalla gente che si intromette e fa domande. E voglio metterti incinta. Sogno di possederti e ingravidarti. Bella, con il pancione, da adorare. Voglio adorarti. Tu, con un neonato in braccio e le tette che si ingrosseranno, sgocciolando latte. Ti adorerò come non hai mai immaginato possa amarti un uomo. Mi fai impazzire”.

Ah, quella donna non mi lascia in pace neppure in Svezia. Con lei ho tre possibilità: farle fare la puttana a tempo pieno ed essere il suo pappone. Mi piace l’idea di renderla schiava e farmi consegnare i soldi. Me l’ha chiesto tante volte. Oppure tirarla fuori da quel quartiere. Cercare una casa in un posto tranquillo. Magari sul mare. Dove non ci conosce nessuno. Avere due o tre figli e fare una vita normale. Mi ha chiesto anche questo. L’ultima possibilità sarebbe dimenticarla. Andarmene dal quartiere. Lontano. Da solo. E non rivederla più.

Non so cosa fare. Mi tormenta. Mi fa uscire di testa. E anche questa stronza di una svedese mi sta inoculando il suo virus. Poco a poco. Ogni giorno è più affettuosa e seducente e furba.

Uf, questo silenzio assoluto e i troppi pensieri. Metto su Pavarotti e Zucchero, il Miserere. Esco sul balcone. Ho bisogno di respirare aria fresca. C’è il sole e la giornata è splendida. Due ragazze si incontrano all’angolo dell’edificio. Una ha un pastore tedesco. L’altra una cagna nera dal pelo lungo. Si salutano. I cani intanto si annusano e cominciano ad agitarsi. Giocano. I guinzagli si intrecciano. Sembra fosse tutto previsto. Le due ragazze si erano date appuntamento lì. Lasciano andare i cani nel piccolo campo di calcio,

recintato da una rete alta cinque metri. Richiudono il cancelletto e i cani si rincorrono, mordicchiano, abbaiano. Rizzano le orecchie, si annusano. Riprendono a correre. Poi il maschio monta la femmina. Una sola volta. Velocemente. Le ragazze non aspettano un solo istante di più. Ognuna richiama il proprio cane. Allacciano i guinzagli. Si salutano e vanno via in direzioni opposte. La cagna e il cane, ansimanti, obbediscono alle padrone e si allontanano anche loro. Si voltano a guardarsi, sconsolati e ansiosi. Il cane tenta di tornare indietro. Sono rimasti entrambi insoddisfatti. Uno strattone al guinzaglio lo costringe a desistere. China la testa e segue la padrona. Resto ancora un istante sul balcone e intanto il Miserere finisce. Vado verso lo stereo e vedo sullo schermo digitale il tempo di durata del pezzo: 4:15. Tutto è accaduto in meno di quattro minuti. Forse le ragazze sono svedesi vergini. O vergini svedesi. E non capiscono niente. Non se lo immaginano neppure cosa significhi.

Quando arriva Agneta glielo racconto e lei mi risponde secondo la logica femminile, implacabile e perfetta:

«Che età avevano le ragazze?».

«Sui... diciotto o diciannove anni».

«Macché vergini. Sanno benissimo come vanno le cose, ma non sopportavano che i cani fossero felici e loro no».

Prepara una tazza di tè. Ha ormai rinunciato a offrirmi il tè alle sei del pomeriggio. Si siede a sferruzzare, sta facendo un maglione per me. Ci lavora da mesi. Non c’è fretta. È vero. Non c’è fretta. Non andiamo da nessuna parte.

Restiamo in silenzio per un bel po’ di tempo. Lei

sorseggia il tè senza zucchero e sferruzza. Io sto pensando di farmi una vodka e cola e uscire sul balcone a fumare, ma il cielo si è annuvolato e la temperatura scende velocemente. Mezz’ora fa il termometro segnava 22 gradi. Adesso è già a 17.

«Oh, guarda. Vediamo un po’. Magari siamo diventati ricchi».

Tira fuori un biglietto della lotteria. Lo gratta con la punta del ferro da maglia. Niente. Come sempre. Ogni tanto gioca ai cavalli. E perde regolarmente. Tre o quattro volte la settimana, tra lotteria e cavalli.

«Ricca? Sarai sempre più povera se continui a comprarne tutti i giorni».

«Non tutti i giorni».

«Quasi».

«Voglio diventare una vecchia milionaria. Come la vicina di mia madre».

«È milionaria?».

«Dodici milioni di corone».

«Come fai a saperlo?».

«È uscito sul giornale. Ogni anno pubblicano l’elenco delle persone ricche che pagano più tasse».

«Non va bene. Potrebbero sequestrarle o ammazzarle».

«È quello che dicono loro. Ma c’è la libertà d’informazione».

«Uhm».

«Anche mia madre ha un po’ di soldi da parte».

«La mettono sul giornale?».

«Non ne ha così tanti».

«Dovrebbe distribuirne un po’».

«Credo che abbia delle azioni. Compra e vende in borsa».

«Credi?».

«Non ne sono sicura. Non parliamo mai di queste cose».

«Perché?».

«Non parliamo mai di soldi. Suppongo che abbia delle azioni perché controlla sempre le quotazioni sui giornali».

Il giornale di oggi dedica due pagine a un festival rock. Le chiedo di tradurmi il titolo.

«È morta una ragazza al festival».

«Come?».

«Asfissiata. Nella calca».

«Cosa dice l’inizio?».

«La polizia ha arrestato in media un ragazzo ogni sei minuti».

«Sarebbe questo l’inizio?».

«Sì».

«Facciamo una passeggiata?».

«Nel bosco?».

«Sì».

«C’è vento».

«Non importa. Copriti bene, Agnes. E andiamo».

Mettiamo la giacca e le scarpe. Ci incamminiamo nel boschetto. Lungo il sentiero che costeggia il canale.

«Ti annoi in casa, Pedro Juan?».

«Ogni tanto».

Fa freddo e tira vento. Infilo le mani in tasca. Trovo una gomma da masticare. Una sola. Gliela offro.

«Vuoi una gomma?».

«Sì».

La prende. Mi resta la voglia di masticare una gomma alla menta. Una bella barca a vela passa lenta sul canale diretta verso il mare aperto. Si sente una sinfonia nell’aria. Proviene dalla cabina dello yacht. L’hanno messa a tutto volume.

«Non è il modo migliore per ascoltare quella musica».

«È Mahler. La Sinfonia numero sette».

«Conosci a memoria tutta la musica, Agneta?».

«Oh, no, solo una parte».

Sullo yacht è successo qualcosa. La prua ha puntato verso la sponda e in pochi secondi si è incagliata tra il fango e l’erba. Senza scosse, ma in modo definitivo. Per tirarla fuori di lì ci vorrebbe un’altra barca che le getti una cima a poppa. Adesso la prua è a meno di un metro da noi. Mi fermo a vedere cosa succede. Agneta continua a camminare. Un uomo corpulento, in pantaloncini e berretto, esce in coperta. Il tipo barcolla faticando a mantenere l’equilibrio, è completamente ubriaco. Si sporge dal bordo. Per poco non cade in acqua. Era da tempo che non vedevo qualcuno così sbronzo. Quando ha visto la prua incagliata in quel modo sulla riva del canale, si è passato le mani sulla faccia e ha emesso un gemito. Mi sembra che stia per mettersi a piangere. Si lascia cadere su una sedia di tela e ha lo sguardo fisso nel vuoto. Osservo la situazione pensando a cosa fare. Legare una cima a poppa e tirare dalla riva. No. Sprofonderebbe ancora di più nel fango. Ci vuole un’altra imbarcazione che tiri dal centro del canale. È l’unica soluzione. Comunque, posso sempre fargli un po’ di coraggio. Il tipo sembra essere solo sulla barca. Sbronzo e disperato com’è, non risolverà nulla. Gli grido:

«Ehi, man, it’s no problem».

Agneta si tiene a distanza. Quando mi sente gridare, torna indietro di corsa, mi afferra per un braccio e mi trascina via.

«Ehi, mollami!».

«Evita di cacciarti nei guai, Pedro Juan».

«Ma quali guai. Sto solo cercando di dare una mano».

«È ubriaco».

«E allora? Chiunque prenda una sbronza combina un casino».

«Come dici? Non capisco».

«Chiunque può ubriacarsi. Quello ha un problema, ma è facile...».

«Andiamocene, andiamo via. Non puoi permetterti di avere guai».

A bordo Mahler è sempre a tutto volume. Fragorosamente. Guardo il tipo. Piange sprofondato sulla sedia di tela. Si copre la faccia con le mani e singhiozza come un bambino smarrito.