Dopo aver pranzato vado sul balcone. Mi spoglio nudo. Caffè e sigaro. Agneta mi raggiunge, si siede di fronte a me. Ha portato il caffè e dei cioccolatini. Mi guarda l’uccello e:
«Oh!».
Dà un’occhiata in giro. Qualche vicino potrebbe vedermi.
«Non c’è problema. I vicini non mi vedono».
L’ho calcolato. La ringhiera mi copre. Apro le gambe e mi esibisco. Agneta osserva e intanto le brillano gli occhi.
«Non hai mai avuto un marito prestante quanto me».
«Mai».
Mi piace esibirmi. Il cazzo si gonfia, si allunga, comincia a sollevarsi come la proboscide di un elefan-
te. Be’, non proprio. Come la piccola proboscide di un elefantino. Agneta sospira.
«Oh, Pedro».
«Guarda qui, Agnes, me lo fai venire duro senza nemmeno toccarlo, tesoro. Per telepatia».
Lei continua a guardare, imbambolata, l’animale che si allunga e si gonfia.
«Pedro Juan, sei osceno».
«Che finezza».
«Cosa?».
«Osceno. Bella parola. Suona bene: osceno. È una bellissima parola per indicare cose presumibilmente sporche. E mi piace come lo dici: “Oh, Pedro Juan, sei osceno. Leggermente osceno”».
«Non leggermente. Totalmente osceno. Molto osceno».
«Crudamente, profondamente osceno. L’ho appena capito. Non mi era mai capitato di pensare in questi termini. Credo di essere un tipo del tutto normale».
«Però...».
«Però cosa?».
«Mi piaci msolto».
«Perché sono osceno?».
«Credo di sì».
«Certo. Hai sempre avuto mariti educati e discreti. E ancora ti manca qualcosa».
«Cosa mi manca?».
«La sodomia. Quando ti sodomizzerò vedrai che farai il tuo ingresso nell’esclusivo Club degli Osceni».
«Oh, ah ah ah».
«Ridi pure. Poi piangerai. Di dolore e di piacere».
«No, no, it’s a joke».
«Non devi preoccuparti. Userò la vaselina».
«Cos’è la vaselina?».
«Una crema. E per oggi basta. Guarda il bosco e lascia riposare un po’ l’animale. Vuoi che andiamo nella casa di campagna?».
«Sì, andiamoci».
Mi rivesto sul balcone. Mi alzo in piedi. Agneta si arrabbia.
«Pedro Juan, i vicini...».
«Non preoccuparti. Se ne staranno tutti dietro le tendine a masturbarsi».
«Dico sul serio. Qui potrebbero chiamare la polizia».
«Lo show è gratis. Ci vuoi scommettere che se ne stanno nascosti a spiare e a masturbarsi?».
«Sei matto».
«Ah ah ah. Su, andiamo».
La casa in campagna è a mezz’ora d’auto. Oggi per fortuna non ci vanno né la sorella né le nipoti. Soltanto noi. È completamente isolata, nei pressi di una grande tenuta con pascoli e pecore. La casa più vicina è a cento metri. In mezzo, ci sono muretti di pietra e arbusti. Sistemiamo le sdraio nel giardino sul retro, ci spogliamo nudi e prendiamo il sole, leggendo qualcosa. Venti minuti dopo il cielo si annuvola e comincia a spirare un vento freddo. È finita la festa. Dentro. Nel giro di un’ora la temperatura scende da 25 a 15 gradi. Per fortuna in sala ci sono due morbidi divani, caldi tappeti e pareti rivestite in legno di noce e nocciolo. Il caminetto è pronto, anche se sarebbe esagerato accenderlo. Le grandi vetrate consentono di ammirare un bel panorama. Siamo su una collina. Laggiù, in lontananza, la striscia grigia e brumosa del Baltico. Tra noi e il mare ci sono circa dieci chilometri o poco più: un’enorme distesa di prati verdi, campi di grano, patate, cipolle, alberi, fattorie e stalle per-
fettamente dipinte di rosso e bianco, vacche e pecore e una strada stretta dove transitano veloci auto e camion. Mi infilo la giacca. Agneta sta leggendo tutta concentrata.
«Vai a fare una passeggiata?».
«Sì».
«Ti annoi?».
«No, Agnes. Ho gli occhi stanchi. Vado a camminare un po’».
Raggiungo la strada. L’attraverso e cammino lentamente su un prato. A circa duecento metri, accanto alla strada, c’è un gruppo di case con un cartello: Loppis. Mercato delle pulci. Sulla pianura sterminata il vento fa ondeggiare l’erba alta e i fiori. Poco distante dalla strada, alla fine di un sentiero corto e stretto, c’è un cumulo di detriti. Un grosso mucchio di mattoni, calcinacci, polvere, pezzi di porte e finestre, vetri rotti, legni vecchi. Contrasta con la bellezza delicata ed essenziale di questa savana coperta di minuscoli fiori di tutti i colori, e ciuffi verdi, seppia, bianchi, gialli. Pianticelle tremolanti e licheni e muschio attaccati alle pietre.
Mi avvicino al Loppis. Ci sono alcuni tavoli e sedie, tre pali bianchi con la bandiera svedese. Di fianco, una fila di staccionate sporche e logore, costruite con vecchi pezzi di legno, assi recuperate da qualche incendio, filo di ferro. Galline, galli, conigli. Non vedo nessuno in giro. Unici rumori, il vento e i miei passi sulla ghiaia. C’è un grande tendone di tela. Il vento lo scuote violentemente. Fa uno strano suono. Di fronte, all’aperto, almeno un centinaio di biciclette vecchie e arrugginite. Non valgono un centesimo, per come sono ridotte. Un mucchio di ferraglia, eppure ognuna ha il prezzo attaccato sul sellino con il nastro adesi-
vo. Le osservo attentamente e confronto i vari prezzi. Non so perché lo faccio. Entro sotto il tendone. Ci sono vestiti usati, cappotti appesi, ceste di vimini, orologi, lampade, specchi, fili elettrici, padelle, macchine da scrivere, ferri da stiro, tagliaerba, interruttori, campanelli inservibili. Tutta roba vecchia, rotta, coperta di polvere. In uno scatolone, noto alcune fruste. Di cuoio intrecciato, lunghe anche tre metri. Una decina di fruste sul fondo di un grosso scatolone. Hanno scritto il prezzo con il pennarello sul cartone: 10 corone, cioè un dollaro e qualche centesimo. Ne prendo una. La osservo bene. È perfetta, flessibile e quasi nuova. La arrotolo velocemente e l’infilo nella tasca della giacca. Non intendo pagare neanche una corona. Voglio rubare una frusta.
Esco e passo nell’altro tendone. Non vedo nessuno. Sembra un posto abbandonato. Qui ci sono soltanto libri vecchi, in svedese. Qualcuno anche in inglese. E altre cianfrusaglie inutili e impolverate. Tostapane, bilance, cestini, ornamenti per alberi di Natale, pezzi d’ogni sorta. Il pavimento di terra battuta è ricoperto di vecchi tappeti lisi. Il vento infuria e scuote il tendone. L’impressione è che da un momento all’altro potrebbe sradicare tutto e portarselo via. Ci sono oggetti che mi ricordano momenti particolari della mia vita. Vecchi dischi, nelle rispettive custodie. Cantanti statunitensi di mezza tacca. Mi fanno ripensare alla fine degli anni cinquanta e all’inizio dei sessanta. All’Avana, nelle case dei miei zii aristocratici, c’erano proprio quei dischi. Armadi pieni di centinaia di dischi statunitensi, ma loro ascoltavano solo opere e musica sinfonica fino allo sfinimento.
Ci sono anche delle cartelle in similpelle. Sembrano degli anni sessanta e settanta, di colore beige. Mi
ricordano la Bucarest socialista. Negli anni settanta molti uomini camminavano per le strade di quella città con cartelle simili, in completo e cravatta da quattro soldi in tessuto sintetico. Di solito nelle cartelle portavano soltanto un panino all’aglio e olio, un vasetto di yogurt e un pacchetto di sigarette di tabacco biondo insipido.
Il terzo locale è più solido, di mattoni e cemento. All’entrata c’è un piccolo bancone e qualche tavolino e sedie. Vendono caffè, cioccolata, dolci, bibite. Finalmente trovo qualcuno. Due persone che si riparano dal vento gelido. Seduto a un tavolo, un signore corpulento, massiccio, in maniche di camicia. Deve avere una sessantina d’anni. Quando entro suona un campanello. Il tipo mi guarda con un gesto lento. C’è qualcosa di aggressivo e torvo nel suo sguardo. Sembra che il cervello gli funzioni a fatica. Dico “Hi”. Non si muove. Distoglie lo sguardo. Non risponde al saluto.
A un altro tavolo c’è una donna grassa e nana, con la faccia da mongoloide. Farfuglia qualcosa in svedese rivolta all’uomo e mi sbircia di traverso. Sta bevendo un caffè e mangiando una pasta. Quando solleva il capo e mi guarda, emette un rutto fragoroso. Poi rutta di nuovo mentre fa una smorfia e scuote la testa. C’è molta polvere nell’aria. Risalta contro la luce che entra da una grande finestra dai vetri sporchi. Sul fondo ci sono altri cumuli di oggetti vari, tra la polvere: stoviglie, berretti, cappelli, portacenere, penne inservibili, bottiglie vuote, riviste e fumetti usati. Qualche scatolone con dentro riviste degli anni quaranta, le uniche cose interessanti. Riportano notizie della guerra. Quasi tutti gli oggetti in vendita risalgono a quell’epoca. Qualcuno potrebbe essere usato co-
me soprammobile. Ma no, è tutta roba arrugginita, rotta e inutile. Alcuni candelabri e piccoli pezzi di bronzo dovevano essere stati belli, un tempo. C’è un armadio colmo di sassi. Centinaia di sassolini qualsiasi. Un cartello giallo annuncia che costano cinque corone ciascuno. Di fianco, un altro armadio con migliaia di vecchie cartoline postali, macchiate di umidità, sporche, con i bordi consumati.
Esco camminando lentamente, con le mani in tasca. Tasto la frusta. Getto un’occhiata al vecchio e alla nana. Sono rimasti in silenzio. Nella stessa posizione. Dico di nuovo “Hi”. Non mi degnano di uno sguardo. Mantengono una sdegnosa espressione di rimprovero. Ho la sensazione che il vecchio sia sul punto di chiedermi che me ne vada via subito e non mi faccia più rivedere.
Il campanello risuona quando apro la porta ed esco all’aria fresca. Torno lungo il sentiero di ghiaia, ascoltando il rumore dei miei passi. Adesso ho il vento di fronte. Gelido. Lo sento sulla faccia. Con la mano destra accarezzo la frusta nella tasca.
Arrivato a casa, mi sembra confortevole e calda. Apro una lattina di birra. Guardo il termometro. 14 gradi Celsius. Ho voglia di cacare e mi dirigo in bagno, ma Agneta mi chiama dalla sala. Ha un album di foto in mano. La casa in campagna durante l’inverno. In anni diversi. Agneta e sua sorella compaiono nelle prime pagine ritratte da bambine, che giocano con la neve. “Era il Natale del ’55, la neve arrivava alla finestra, due metri di altezza”.
«In inverno questa casetta dev’essere un congelatore».
«Come?».
Stringo il culo per non farmela addosso e rispondo:
«Un freezer».
«Yes, but, sometimes...».
«Agneta, mi sto cacando addosso».
«Mi piace il paesaggio. In inverno è molto diverso».
«Non mi piacerebbe vivere qui con un freddo simile».
«A volte scende a meno 25».
«Mi sto cacando addosso!».
«Vieni qui. Guardiamo le foto insieme».
Mi prende per il braccio e mi fa sedere in una poltrona.
«Mi scappa da cacare. Non mi capisci?».
«Non capisco. Che dici?».
«Cacare. Un verbo della prima coniugazione. Come amare».
«Non so».
«Vado in bagno». E corro via.
«Oh, sì. Sorry, sorry».
Entro in bagno e, ah... che sollievo. Un piacere. Mi sento più leggero. Il bagno è piccolo. Chiudo gli occhi, appoggio la fronte al lavandino e ascolto il vento che soffia fuori. Fa scricchiolare le assi delle pareti. È come un lamento. Sibila senza interruzione, sovrastato soltanto dai belati delle pecore. Verso sera le pecore si avvicinano alla casa. Vengono a pascolare e restano per un po’ nei dintorni, camminando e brucando l’erba. Ascolto le raffiche del vento dal Baltico e i belati delle pecore e caco ancora un poco. Mi concentro fino a espellere tutte le feci, e intanto ascolto gli scricchiolii del legno e mi sento svuotato. Che bello.