Correvo nel boschetto di betulle senza calpestare la terra. Un lungo tragitto su assi di legno strette, sistemate sopra piccoli piloni. Mezzo metro sotto le tavole c’era un pantano di acqua scura e fango. Passava poca gente da quelle parti e l’erba era alta e fitta. Le assi non si scorgevano quasi, ricoperte dall’erba, e io correvo veloce. Correvo alla cieca, a tutta velocità, scostando l’erba al passaggio, e le assi tremavano sotto di me. Respiravo forte. Fuggivo da qualcosa. Non so da cosa. Non era necessario saperlo. Mi mancava l’aria e acceleravo ancora di più il passo finché ho perso l’equilibrio e sono caduto nel pantano. Affondavo nel fango nero e freddo. Ho scalciato un po’, ma era troppo denso. Sono sprofondato lentamente fino alle spalle. Ho tentato di aggrapparmi alle assi ma non vedevo niente. La notte era calata all’improvviso e provavo una terribile angoscia in quel buio totale, sprofondato nel pantano schifoso e gelido. Il fango mi arrivava ormai al mento e continuavo ad andare giù. Non riuscivo a gridare. Aprivo la bocca ma la paura mi paralizzava e non potevo emettere neppure un gemito. In qualche modo sono riuscito a tirare fuori le braccia e ho preso ad agitarle disperatamente. A quel punto mi sono svegliato. Dando manate a tutta forza. Ho cacciato un urlo e mi sono svegliato del tutto. Anche Agneta. Le ho dato una botta sul naso. Seduta sul letto, si lamenta: “Oh, oh”, e si preme il naso cercando di fermare l’emorragia. A quanto pare le ho rifilato proprio una gran sberla.
«Ti ho colpita? Ti ho fatto male?».
«Oh, sì, un sacco di volte. Troppe».
Mi scappa da ridere. Sono ancora spaventato dal-
l’incubo, ma vederla pesta e sanguinante mi mette di buonumore. Il figlio di puttana che è in me salta fuori nei momenti più inaspettati. Agneta si prende tanta cura di sé e conduce un’esistenza così asettica che mi sembra ottimo se le succede qualcosa di imprevisto.
Si deve alzare. Si lamenta. Prende del cotone. Vado in cucina e bevo un bicchiere d’acqua. È già giorno. Insopportabile. Albeggia alle tre del mattino. E tramonta alle undici di notte. Vado in bagno. Piscio. Torno in camera. Agneta è ancora seduta sulla sedia, a capo chino, che singhiozza. Se fosse Gloria le mollerei un altro ceffone e me la scoperei subito, così com’è, e le leccherei il sangue per sentirne il sapore in bocca, come Dracula. Questo farebbe impazzire Gloria che mi direbbe: “Infilamelo dentro, di più, fino in fondo, cazzo, e picchiami ancora, ancora”. E a ogni sberla avrebbe un orgasmo e io continuerei a bere il suo sangue. Ma Gloria è fuori di testa e mi sconvolge la vita più di quanto lo sia già. Penso fugacemente a tutto questo mentre osservo Agneta che singhiozza e si tampona l’esigua emorragia nasale. Mi palpo l’uccello. Lo massaggio e si gonfia subito. Davvero. Ho proprio voglia di scoparmela e darle un paio di sganassoni per farla sanguinare di più, così la pianta di fare tante storie per un nonnulla. Ma mi trattengo. Se mi lascio andare all’impulso mi ritroverò sul volo di ritorno ai Caraibi entro ventiquattr’ore. No, Pedro Juan, controllati, papito, controllati. Lei non ha colpa se è così delicata e fine e così scema. Basta, Pedro Juan, calmati, amico, torna in te. Su, figliolo, è passata, dài. Controllati.
Soffio fuori l’aria, mi rilasso. Vado in cucina. Bevo un altro bicchiere d’acqua. Guardo dalla finestra, verso il cimitero. Chiudo gli occhi e mi concentro per
qualche secondo. Poi torno in camera con un bicchiere d’acqua in mano. Mi impongo di essere affettuoso.
«Coraggio, Agnes, è passata».
Si lamenta. Il cotone è inzuppato di sangue. A quanto pare gliele ho suonate forte e mi scappa di nuovo da ridere. Una risata troppo sonora per l’alba svedese.
«Oh, Pedro Juan, perché ridi? I vicini potrebbero sentirti. Si lamenteranno. Perché ridi? Mi fa tanto male».
«Oh, tesoro, perdonami. Ti ho picchiata forte? Perdonami, amore mio, è stato un incubo».
«Sì. Botte. Molte volte».
Come sempre, quando si trova in situazioni critiche, si scorda lo spagnolo e riesce a pronunciare soltanto parole sparse.
«Molte volte? Oh, quanto mi dispiace».
«Sì».
Non riesco a trattenermi. Scoppio in una risataccia fragorosa.
«Oh, ma com’è possibile? Non ridere, per favore.
Non ridere».
Non ce la faccio proprio a smettere. Lei sorride, controvoglia. Quando finalmente riprendo il controllo, mi sento benissimo.
«Vediamo un po’, tesoro, piega la testa».
«Cosa dici?».
«La testa all’indietro, Agnes, la testa. All’indietro». Prendo un altro batuffolo e l’aiuto. Le accarezzo la testa. E basta. In due minuti il sangue si ferma. Guardo l’orologio. Le quattro e un quarto. Ho sonno. La convinco a tornare a letto. Mi copro gli occhi con un fazzoletto nero. L’accarezzo un po’. Siamo nudi. Abbiamo fatto una bella scopata alle undici di notte,
quando siamo andati a letto. E adesso ce l’ho di nuovo duro. Non devo toccarla. Mi piace, questa stronza. Le prendo la mano per farle accarezzare un po’ l’animale. Le piace. Accarezza con una particolare dolcezza e sembra una gatta. Fa quasi le fusa. Basta. Si scorda le sberle e il naso rotto.
«Piantala, Agnes, che ho sonno».
«Sì, sì. Dormi. Scusa».
«Scusa?».
«Sorry».
«Dormi e smettila di chiedere sempre scusa sennò ti faccio succhiare il cazzo subito e ti scordi tutta ’sta finezza di merda».
«Pardon?».
«Niente, dormi».
La sveglia suona alle sette del mattino. Sento il suo tepore accanto a me. L’accarezzo. La bacio. Mi bacia a bocca chiusa, ma io le infilo dentro la lingua. Mi piace l’alito del sonno. Lei invece sembra imbarazzata. È così asettica che non sa niente sugli odori. Scendo fino alla fica. Puzza, con tutto lo sperma di stanotte. Immagino che sto leccando un cimitero di spermatozoi. Ha un ottimo odore e il sapore è ancora meglio. Le do una slinguazzata che la spedisco nella stratosfera. Sono come Saturno: divoro i miei figli. La faccio volare in un’altra galassia. Viene. E riviene. E riviene. E a questo punto, la scopo. Cazzo, quanto gode. Chiude gli occhi e si perde. Mi lascia fare. E io la trapano a lungo finché arrivo al capolinea e sbuffo come un cavallo.
Uf, questo appartamento chiuso ermeticamente! Mi sento soffocare. Mi prende la claustrofobia. Balzo giù dal letto, metto la vestaglia di felpa. Guardo l’orologio. Le sette e quaranta. Vado verso il balcone e apro
la porta. Una boccata d’aria fresca, cazzo! Aria fresca fino a scoppiare! Non sopporto queste tende tirate e le porte e le finestre sempre chiuse. Il termometro segna 20 gradi. I giardini verdi, il sole splendente, il silenzio e la quiete. Il cielo azzurro. Gli uccellini che cantano. Nessuno in giro. Assolutamente nessuno. Ma dove cazzo si infilano gli svedesi di questo quartiere? A volte penso che abbiano dei tunnel segreti e si muovano sottoterra, come talpe.
Vado in cucina. Preparo il caffè per me e il tè per lei. Agneta arriva di corsa, disperata.
«Sono in ritardo».
«Le scopate mattutine attentano alla stabilità lavorativa».
«Come... non ho capito... be’, me lo dirai un’altra volta».
«Il tè. It’s ready».
«Non ho tempo».
Mi dà un bacio. Due. Tre. Si precipita per le scale. Il prossimo treno locale passa alle sette e cinquantasei. Può farcela benissimo, ma arriverà comunque in ritardo al lavoro. Verso le otto e mezzo, probabilmente. Credo che dovrò starci più attento con le scopate mattutine. Se dovessero licenziarla non me lo perdonerei. Va bene essere figli di puttana, ma non fino a questo punto.
Rimasto solo, esco sul balcone. Aria pura e caffè. A un certo punto mi passa un’idea per la testa e, senza starci a pensare su, vado in camera e distendo in un angolo del pavimento il mio fazzoletto rosso. Ci metto sopra un bicchierino di vodka, un sigaro e le collane di Changó e Obbatalá. Accendo una candela e sistemo le immaginette di Santa Bárbara, San Lázaro e la Caridad del Cobre che ho portato con me. Prego, of-
fro e chiedo. Anche all’africano e all’indio. Mi viene un brivido. Qualcuno sta chiedendo acqua. Prendo un bicchiere d’acqua e lo offro, recitando alcune preghiere che so a memoria. Che peccato, non ho a disposizione le erbe propiziatorie. Leggo tre volte la preghiera al Giudice Giusto degli uomini. Qualche giorno prima di lasciare L’Avana, Gloria l’ha ricopiata su un foglietto e me l’ha data: “...i miei nemici vedo arrivare, ma tre volte ripeto: se hanno occhi, che non mi vedano. Se hanno mani, che non mi tocchino. Se hanno bocca, che non mi parlino. Se hanno piedi, che non mi raggiungano”.