Alla televisione fanno rivedere spesso l’incontro di pugilato tra Floyd Patterson e lo svedese Ingemar Johansson a New York, nel 1959. Gli svedesi ricordano con piacere quella batosta. Johansson che pesta duro il nero e il tipo che finisce al tappeto. Si rialza. Serie di ganci destri. Al tappeto di nuovo. Si rialza. Altre sberle. Ganci corti. Un diretto al volto. E al tappeto. Jab al fegato. Al tappeto. E così via per non so quante volte. La televisione insiste a far rivedere il filmato, finché l’arbitro dichiara il knock out per l’americano. Poi fanno vedere loro due oggi, quarant’anni dopo, vecchi e grassi, sorridenti, che ricordano quella serata al Madison Square Garden. Sono diventati amici. Patterson è venuto diverse volte in Svezia. Ha imparato la lingua, si è sposato una svedese bionda e dalla pelle candida. Johansson conclude sempre con le stesse parole: “A champion always is a champion”. I giornali pubblicano ancora le foto di allora. In una si vedono
Frank Sinatra e Floyd Patterson molto giovani, sorridenti, di notte, che escono da un bar di Stoccolma.
Mi piace vedere certi filmati e foto. A quei tempi avevo otto anni e i miei genitori si barcamenavano come potevano. Abitavamo in un minuscolo appartamento a Matanzas. C’era un balconcino e l’unica cosa buona era avere il mare e tutta la baia a dieci metri da noi. Un condominio con tante stanze e piccoli appartamenti e due bagni in comune. C’erano libanesi, spagnoli, polacchi, un vecchio poliziotto, un vecchio marinaio, un paio di vecchie puttane inservibili. Insomma, un’accozzaglia di morti di fame vivevano in quell’edificio di fronte al mare. Ci abitava anche una puttana piena di clienti, che si chiamava Zoilita, proprio come mia madre. Gli uomini le mandavano messaggi su pezzi di carta: “Zoilita, sono nel bar di Mayito. Sbrigati. Ernesto”. Cose del genere. Li facevano recapitare da qualche bambino. A volte i ragazzi sbagliavano porta, perché chiedendo “Dove abita Zoila?”, qualcuno gli indicava la nostra porta. La prima volta successe una sera verso le sei. Mio padre era in casa e preferisco dimenticare il putiferio che si scatenò. Meglio lasciar perdere. Per poco non ha ammazzato mia madre. Per fortuna lei era una tipa sveglia e ha capito subito come stavano le cose. Uscì nel pianerottolo e cercò di fermare il ragazzino che stava scendendo per le scale. Ma quello filò via di corsa e allora mia madre andò a bussare da Zoilita. Le aprì e mia madre, educatamente, le consegnò il messaggio.
«Questo è per lei, signora?».
«Ah, sì, mi scusi, è che i bambini a volte...».
«Abbiamo lo stesso nome, ma io sono una signora rispettabile».
«Non importa...».
«Non importerà a lei, ma a me sì. Spieghi bene ai suoi amici dove abita. Non voglio che si verifichino altri equivoci del genere».
Comunque, sarebbe successo ancora, ma a quel punto tutti sapevamo che la puttana era l’altra Zoilita, e non mia madre.
Mi piaceva quel quartiere. Avevo tanti amici. Ero un ragazzino a dir poco vivace e stavo sempre in giro. Poi, quasi tutti se ne sarebbero andati a Miami. Di notte rubavano le barche e i motoscafi per lo sci nautico ormeggiati ai moli del Circolo Nautico e due giorni dopo telefonavano dalla Florida. Noi saremmo rimasti, pur avendo i passaporti e i visti già pronti. Ma questa è un’altra storia. Più interessante, invece, quella di Concha, che abitava lì, ed era la persona più infelice e sfortunata che abbia mai conosciuto. Se un giorno dovessi scrivere un romanzo sulla sua vita sarebbe un disastro totale perché nessuno crederebbe a una simile sfilza di disgrazie dalla culla alla tomba. Una donna desolata e schiacciata dalla vita come uno scarafaggio. Faceva la maestra rurale in un villaggio a casa del diavolo. Usciva all’alba e rientrava la sera. Tre o quattro notti la settimana veniva a trovarla il suo eterno amante: Cheo. Un tipo grasso, panzone, rozzo, sulla cinquantina. E per giunta aveva una moto Cushman rossa che gli somigliava. Lui e la moto sembravano fratelli gemelli. Tra noi c’era un’istintiva antipatia reciproca. L’unico televisore in tutto il quartiere – un orrendo Hotpoint con lo schermo piccolo – era quello regalato da Cheo a Concha. E io scendevo giù, salutavo Concha, ignoravo Cheo, e mi sedevo lì a vedere gli incontri di pugilato. Boxe professionista, sui dieci round. Duelli tremendi. A volte li trasmettevano dal Madison. Cheo mi odiava perché io entravo
con la mia faccia tosta, non lo degnavo di uno sguardo, proprio lui, il proprietario del televisore, e seguivo sfacciatamente tutti gli incontri, fino all’ultimo. Anni dopo avrei pensato che forse al tipo piaceva scoparsi Concha guardando il pugilato, e io li interrompevo. Ma come diceva mio nonno, certe cose le indovina soltanto Dio. Per me era un sacrificio dover sopportare la puzza di merda e piscio dei cani e gatti di Concha e, come se non bastasse, anche la faccia incazzata di quel vecchio stronzo. Quelle serate furono per me una base di studio. Poi, quando mi arruolai nell’esercito, cominciai a tirare di boxe e, non dovrei essere io a dirlo, avevo già una tecnica molto elegante e precisa. Mi chiamavano El Dandy, ma i miei pugni non erano abbastanza forti. L’allenatore me lo ripeteva sempre: “meno eleganza e più muscoli”. Adesso guardo il match tra Patterson e lo svedese e penso a quel periodo. Sto diventando vecchio. Evidentemente. I giovani non hanno niente da ricordare. Io sì. Ho troppa memoria. A volte credo sia eccessiva. Anche se preferisco vederne il lato positivo: una grande memoria è come una grossa radice. Fa scorrere la linfa in corpo. E questa mi nutre e mi sostiene.
Agneta telefona tirandomi fuori da tutto ciò. In fondo ripensare a certe stronzate non serve a niente.
«Mi potresti accompagnare questo pomeriggio nel carcere di Saint Jacques?».
«Saint Jacques? Dov’è? In Francia?».
«No, qui».
«E perché si chiama così?».
«Non lo so. Mi potresti accompagnare?».
«Un carcere... boh, è come andare all’obitorio... non so... hai qualcuno dietro le sbarre? Un fratello, un nipote?».
«Per favore, Pedro, per favore. Nella mia famiglia... insomma, faccio parte di un’organizzazione che offre un aiuto. Poi ti spiego. Oggi pomeriggio devo portare dentro riviste e libri. Ho bisogno di te. Sono tre borsoni, molto pesanti».
«Se è così...».
«Non mi piace andarci da sola».
«Potrebbero violentarti o ucciderti?».
«Non credo proprio. Ci sono eccellenti misure di sicurezza».
Accidenti, non capisce mai quando scherzo. Prende sempre tutto sul serio.
«Va bene, va bene. D’accordo, ti aiuto io». Mi dà precise istruzioni sul luogo e l’ora.
«Per favore, sii puntuale, Pedro Juan».
«Certo, non sono forse stato sempre puntuale?».
«A volte no».
«Ma a volte sì. Ah ah ah».
«Ah ah ah».
Alla fine ha riso un pochino. Ci siamo visti all’ora prestabilita, nel posto indicato. Abbiamo preso il treno giusto. Alle cinque e quarantacinque Agneta ha premuto il pulsante alla porta principale di Saint Jacques. Le hanno chiesto qualcosa al citofono. Lei ha risposto. Un’attesa di due minuti. Per facilitare il loro compito guardiamo verso la telecamera sopra le nostre teste. Il portone si apre con un ronzio. È una prigione piccola, pulita. Un solo edificio massiccio, a quattro piani, dipinto di beige chiaro e bianco. Il tutto circondato da una muraglia con filo spinato, e sbarre bianche alle finestre. Ci sono anche prati e aiuole ben curate, alberi e fiori e due piccoli campi sportivi. Tutto molto lindo e pulito. Ci riceve una giovane deliziosa e un po’ mascolina che si chiama Per-
nilla, stando a un tesserino che porta sul petto. Il mio sguardo si sposta direttamente dal cartellino al culo. Sodo e compatto. Sono sicuro che non le piace farlo dal davanti.
Ovviamente all’ingresso veniamo controllati con il metaldetector, poi i documenti, quindi ci mettono addosso un adesivo e ci fanno passare con le borse piene di libri e riviste. Corridoi e altri corridoi. Una scala. Una pulizia assoluta ovunque. I cancelli si aprono davanti a noi, grazie al tesserino magnetico di Pernilla. E si richiudono alle nostre spalle. La cosa è molto inquietante. Ho già qualche esperienza in proposito. Dobbiamo attraversare cinque cancellate. Carcere di media sicurezza. Il pensiero di infilarmi in questo labirinto di sbarre, diventa un incubo claustrofobico. Perché cazzo mi sono cacciato in una simile situazione? Ho dei ricordi ancora forti e alquanto sgradevoli che riaffiorano. Riesco a controllarmi ricorrendo a un’idea molto semplice: resterò qui dentro soltanto pochi minuti per consegnare i libri e poi tornerò all’aria aperta. Tranquillo, Pedro Juan, non succede niente.
Arriviamo finalmente nella grande sala ricreativa che, a quanto pare, funge anche da chiesa luterana. Dobbiamo attendere che qualcuno firmi le ricevute, controlli nuovamente il contenuto dei borsoni e lo prenda in consegna. Pernilla è andata a cercare l’incaricato. Non so perché, ma pensavo dovesse essere un cappellano serio e gentile, vestito di nero.
Nella sala c’è soltanto un uomo, indossa abiti grigi da pochi soldi e scoloriti. Ha l’aspetto di un detenuto e gioca a biliardo. Da solo. Il tipo ci ha guardato quando siamo entrati. Agneta si è seduta in un angolo, accanto alla finestra. Mi avvicino a uno scaffale. Ci so-
no diversi giochi da tavolo, consunti dal lungo uso. Due mazzi di carte e alcuni giornali bisunti. Le uniche cose nuovissime e mai toccate sono dieci Bibbie e dieci libri dei salmi. Ho pensato che per il cappellano è un’impresa dura esercitare il proprio mestiere qui dentro. Mi volto verso il tipo e i nostri sguardi si incrociano. Fa un cenno quasi impercettibile con il capo e gli occhi, invitandomi a giocare con lui. Gli sorrido, perché si rilassi.
«Oh, yes, sure!».
«Do you speak english?».
«Yes».
«Good. Welcome».
Mancavano alcune bocce, il panno verde era strappato in almeno tre punti e c’era una sola stecca. Ci mettiamo d’accordo e cominciamo. Al primo tiro riesco a infilare una palla in buca. Non gioco da anni, ma la cosa mi appassiona. Soprattutto calcolare le carambole. È un gioco di estrema precisione. Bisogna fare molto esercizio. Mentre sono tutto concentrato, il tipo mi chiede:
«Sei appena arrivato? Non sei svedese».
«Cubano».
«Uhh».
«In visita. Ho portato giornali e libri».
«Parli svedese?».
«No. Sono venuto qui con lei. È la mia fidanzata».
«Uhmm».
Giochiamo ancora per un po’. In silenzio. Agneta si è messa all’erta, ma non ha battuto ciglio. Poi gli chiedo a mia volta:
«Da quanto tempo sei qui?».
«Sei anni e mezzo».
«E quanti te ne hanno dati?».
«Trenta».
«Un sacco di anni. Omicidio?».
«Sì».
Ci sono ancora quattro palle sul tappeto. Due a testa. Tocca a me. Prendendo posizione, chiedo:
«E com’è successo?».
«Cosa?».
«Quello che hai fatto».
«Ero ubriaco. Un colpo troppo forte. In testa». Lo guardo negli occhi e lui fa un gesto brusco pian-
tando il pugno destro nel palmo della sinistra. Ha un’espressione di stanchezza mista a odio.
«Cosa ti aveva fatto?».
«Gli piaceva la mia donna».
«E lei?».
«Non so. Non voglio saperne niente».
«Trent’anni per un istante di rabbia».
«Brutto affare. Ma se dovesse ricapitarmi, lo rifarei».
«Lo rifaresti?».
«Certo».
«Hai qualche amico?».
«Non ho nessuno. La mia donna è sparita. Non ricevo visite».
«Mai? In sei anni e mezzo?».
«Mai. Nessuno. Niente».
Cerco di concentrarmi sulla palla. Vorrei finire la partita. Pernilla torna, in compagnia di un secondino grasso, panzuto, pesante e con la faccia da carogna; sembra si sia appena svegliato. Il cappellano elegante e sereno, vestito di nero, esisteva soltanto nella mia immaginazione. Agneta mi chiama. Non so cosa voglia. Mi scuso con il tipo. Il secondino grasso non ci ha salutato. Si è messo a tirare fuori il contenuto
delle borse. Controlla bene. Compila una ricevuta. La firma. La porge ad Agneta. Ci volta le spalle e se ne va senza una parola. Non ha mai aperto bocca. Pernilla, Agneta e io sistemiamo le riviste, i giornali e i libri sugli scaffali. Il primo libro che ho tirato fuori dalla borsa, in inglese, ha un titolo un po’ stronzo per lasciarlo in regalo dentro Saint Jacques: Free Live Free. Quando stiamo per uscire dalla sala, vado verso il tipo, gli stringo la mano e sorrido:
«Good luck, man».
«Thank you, man».
Pernilla ha detto qualcosa ad Agneta. Il tono era molto autoritario. Non ho capito niente, ovvio. Ma è come se avvertissi il risentimento di Pernilla. Rifacciamo il percorso inverso in silenzio. Finalmente arriviamo all’uscita. Pernilla sparisce senza salutare. Noi due attraversiamo alcuni metri di giardino. Alla fine raggiungiamo il portone principale e torniamo in strada. A questo punto Agneta mi dice, in tono scontroso:
«Di cosa parlavi con quell’uomo?».
«Niente. Sciocchezze».
«In inglese? Riesci a parlare di sciocchezze in inglese?».
«Sono le uniche cose di cui posso parlare in inglese».
«È vietato parlare con i detenuti. Mi hanno detto che la prossima volta dovrai restare fuori. Non puoi più entrare lì dentro».
«E chi te l’ha detto? Pernilla?».
«Chi è Pernilla?».
«La ragazza che ci ha accompagnato».
«Come fai a sapere il suo nome?».
«Ce l’aveva scritto sul cartellino. Non lo hai visto?».
«Non ho visto niente».
«Agneta, tu non vedi mai niente... eh... va bene, non ne vale la pena. Okay. Ho capito, non entrerò più lì e non si può parlare con i detenuti».
«Proprio così».
«Perché?».
«Sono pericolosi. Quasi tutti là dentro hanno ammazzato qualcuno».
«Come quel tipo».
«Ah sì?».
«Già. Ha ucciso un uomo».
«Ohh! Ma allora è molto pericoloso. E tu ci giocavi a biliardo...».
«Io al posto suo avrei fatto la stessa cosa».
«Tu?».
«Certo. Adesso potrei essere rinchiuso a Saint Jacques, con trent’anni sul groppone».