Quella notte non saremmo tornati a casa. Alla Salamandra Loca abbiamo incontrato una coppia alquanto squilibrata: Elena, una sivigliana giovane, allegra, disinvolta, ottima ballerina, collega d’ufficio di Agneta. E il marito, uno svedese calvo, trent’anni più di lei, incapace di muovere un solo passo di ballo. Indossava un completo nero, camicia bianca e cravatta grigia. Ha detto di chiamarsi Svensson e faceva il direttore commerciale di una catena di grandi magazzini. Ho ballato la salsa con la sivigliana al centro della pista e ci siamo divertiti moltissimo. Quando Agneta diventava troppo gelosa ballavo un po’ con lei. Svensson non ci provava nemmeno.
Alle tre del mattino la sivigliana ha insistito: “Andiamo tutti a casa nostra e dormite lì. È qui vicino. E domani facciamo colazione insieme”. Abbiamo accettato. Ci siamo andati a piedi. Stava albeggiando su Stoccolma e tutto sembrava tranquillo. Transitavano automobili degli anni cinquanta – Chevrolet, Cadillac, Ford – con sopra gente ubriaca che sbraitava. Un tipo attaccava manifesti di un concerto heavy metal. A casa di Svensson ed Elena abbiamo bevuto ancora un po’. Agneta ha preferito una tazza di latte tiepido. E siamo andati a letto. Ci hanno messo a disposizione una piccola camera. Era ormai pieno giorno. Alle
quattro del mattino, sole splendente e cielo azzurro. Agneta si è addormentata di colpo. Io invece non avevo sonno. Leggermente ubriaco, mi sono seduto alla finestra. Di fronte c’era un kino club. Escono alcuni uomini, con fare discreto. Se avessi le chiavi di casa andrei a bere ancora un bicchiere, o forse anche due, con le tailandesi. Tutti questi kino club sono uguali: un piccolo porno shop e una scala sul fondo, custodita da un Joe Palooka muscoloso, il solito buttafuori. Dieci gradini più sotto c’è il club privato, con le bevande più care al mondo, musica, luci soffuse e puttane di ogni sorta, a tariffa fissa. Credo siano a loro volta le puttane più care al mondo. Persino i preservativi li fanno pagare una fortuna. A un tratto arriva davanti al kino club una sontuosa auto nera con due signore tailandesi molto magre, professionali, eleganti, sui cinquant’anni portati benissimo. Scendono frettolosamente, entrano. Due minuti dopo escono con due dipendenti. Portano fuori grossi sacchi di plastica. Lenzuola e asciugamani sporchi. Li infilano nel bagagliaio. La signora più anziana dirige le operazioni, energica, il tipo di donna che potrebbe gestire con successo un bordello oppure capeggiare l’opposizione in parlamento. L’eleganza si dissolve perché sembra incazzatissima. Sbraita con i due dipendenti, li spinge, fa il gesto di prenderli a schiaffi. I tipi, sottomessi, non reagiscono. È proprio infuriata. Sale in macchina e parte come un missile. È evidente che qualcosa non va per il verso giusto. La signora ha bisogno di un gerente dotato di maggiore carattere per il suo kino club. Mi sdraio, chiudo gli occhi e mi addormento subito.
Mi sveglio con un dolore cervicale, nausea e spossatezza. Vado in bagno e incrocio Elena. È già sveglia e pronta a ricominciare la rumba, benché siano solo
le nove e mezza del mattino. Instancabile. Persino adesso parla senza sosta e ride continuamente. Ammirevole. Io, con un marito come Svensson, non farei altro che piangere.
Facciamo colazione. Sopra un tavolino c’è lo scheletro di legno di un dinosauro. Lo guardo. Tanto per guardare qualcosa. I postumi della sbronza si fanno sentire. Svensson mi chiede:
«Stai guardando il dinosauro?».
«Eh?».
«Il dinosauro».
«Ah, sì».
«Rappresenta un vero e proprio concetto filosofico. Ne ho un altro sulla mia scrivania, in ufficio».
«E...?».
«Sono scomparsi milioni di anni fa. E non erano necessari. Senza di loro, tutto è continuato come prima, se non addirittura meglio. Almeno per noi, la situazione è migliore senza quegli animali giganteschi. Dunque, anche noi potremmo scomparire. E tutto andrà avanti lo stesso. Forse meglio. Quindi, caro amico, tutto è possibile. Tutto. E non dobbiamo prenderci troppo sul serio».
«Bene, Mr. Svensson. Grazie per averci esposto le sue idee».
Era così compiaciuto della sua esposizione. Talmente soddisfatto di quanto fossero brillanti e originali le sue idee, che smentiva in pieno la faccenda di non prendersi sul serio. Lui si prendeva enormemente sul serio. Se la sivigliana l’avesse piantato su due piedi, sarebbe crollato, per poi spararsi un colpo in testa. Un certo tremito alle mani lo tradiva. A quanto pare mi ha letto nel pensiero. Bisogna riconoscere che è perspicace. Mi dice:
«Flowers every Friday. That’s the secret». Parlavamo mescolando spagnolo, inglese e svedese.
«Come?».
«Ogni venerdì, da ormai sette anni, regalo fiori a mia moglie».
Elena ha annuito sorridendo. Molto compiaciuta.
«Quando Elena si vede con le mogli dei miei amici chiede se i mariti regalano loro dei fiori. Quelle dicono “no”. Elena, allora, dice: “Ah, mio marito invece sì. Non si dimentica mai. Qualunque cosa succeda, ogni venerdì ho il mio mazzo di fiori”».
Sono rimasto in silenzio. L’ho osservato. Aspetto che il tipo mi elargisca le sue trionfali conclusioni.
«So, it’s an excellent invest. Non dobbiamo risparmiare su questo. Investo su un giorno alla settimana e guadagno nei sei giorni rimanenti. Ecco il segreto della nostra felicità».
Tutti zitti. Elena e Svensson soddisfatti, amorevoli, sorridenti, spalmavano burro sul pane tostato e si guardavano con dolcezza. Mi sarei voluto infilare nel cervello di lei. Come faceva a sopportare un tipo simile e arrivare addirittura a mostrarsi felice e serena? Un marito come quello può condurre una donna alla pazzia, alla depressione e al suicidio. O forse no. Magari il tipo le aveva fatto un lavaggio del cervello perfetto e la manteneva immersa nel suo mediocre pragmatismo.
Il silenzio si è prolungato troppo. Avevo voglia di salutare la compagnia e andarmene a piedi verso la metropolitana. Ma ho ceduto alla tentazione di provocarli un po’:
«Qui davanti c’è un kino club».
«Mhm».
«Ma è molto discreto. Sono quasi tutte tailandesi».
Svensson ignora l’argomento. Va avanti dritto a spalmare marmellata. Elena invece abbocca:
«Le ragazze del kino club? No. Vengono da tutte le parti. Ci sono anche delle svedesi».
Neppure Agneta, ancora mezzo addormentata, sembra attratta dal kino club. Elena dice:
«Ti interessa la prostituzione?».
«A me? Be’, detta così...».
«No, no. Ti spiego. Tutti parlano di prostitute tranne loro stesse. È un fatto sociologico. Occorre studiarlo».
«Ah, non saprei».
«Io sì. Conosco un po’ la questione».
«Ah».
«Adesso ti racconto. Due anni fa un istituto di studi sociali di Stoccolma ha tenuto un seminario sulla prostituzione. L’ho seguito dall’inizio alla fine. Psicologi, sociologi, giuristi, tutti a dire la loro. Sostenevano che è la povertà a spingere le donne in strada, eccetera. E che non ci sono programmi di recupero adeguati. Allora si alza una donna molto bella, vestita in maniera un po’ stravagante, e dice: “Sapete una cosa? Io sono una prostituta. Fin da ragazzina. Saranno più di vent’anni che lo faccio, se non trenta. E adoro la mia professione. Amo il mio lavoro. Mi piace. Niente di tutto quello che ho sentito qui è vero. La disoccupazione, la mancanza di lavoro. No, no. Macché. Io faccio la prostituta perché amo questa professione. Sono brasiliana e in Svezia mi trovo benissimo. Non vorrei fare nessun’altra cosa”».
Finita la colazione, siamo andati nel piccolo giardino sul retro. Abbiamo parlato dei fiori e di quanto sia bella l’estate e i tulipani e i girasoli e finalmente ci siamo salutati. Tornando in treno mi sono un po’
rinfrancato. La vista dei campi verdi e fioriti, il sole splendente. L’umore è decisamente migliorato. Agneta mi ha parlato del suo lavoro e della capufficio, che diventa ogni giorno più insopportabile.
«Quella vecchiaccia ha bisogno di una buona stantuffata».
«Non capisco. Hai conosciuto la mia capa, ricordi che...?».
«Sì, me lo ricordo. Quel pomeriggio che sono venuto nel tuo ufficio e ho rovesciato lo zucchero sulla moquette. È diventata isterica».
«Già».
«Ha bisogno di una ripassata».
«Cosa vuol dire?».
«Qualcuno che se la scopi. La sua è mancanza di marito. E dire che è ancora passabile, elegante».
«Pedro!».
«Se mi capita a tiro la sistemo io...».
«Scordatelo, perché vi ammazzerei tutti e due».
Avevo voglia di scherzare, ero di buonumore. Ma lei mi sembrava fin troppo seria.
«Vi uccido e vi butto in acqua da questo ponte. Di notte. E già che ci sono ammazzo anche l’americano e lo scaravento un po’ più in là».
L’americano è un californiano che lavoro nello stesso ufficio. Ha avuto una storia con Agneta. L’ha piantata per mettersi con la sua capa. A quanto pare, Agneta non perdona. Nel giro di cinque secondi è diventata acida.
«Così finisci in galera».
«Non me ne frega niente. Andrò in galera».
«Cazzo, ti sei svegliata aggressiva, oggi!».
«Sì. Per giunta, non dirò a nessuno che il tuo ultimo desiderio è essere cremato. Via, sottoterra. Una
punizione in più. L’ultimo castigo. Marcirai sottoterra. E in Svezia. O magari sistemo le cose per farti seppellire in Lapponia. Nella terra ghiacciata. Ben lontano dai tropici e dai tuoi amici supermacho e dalle tue amanti nere».
«Uhaooo, l’estrema punizione del latin lover!».
«Esatto».
«Troppi crimini in una volta sola. Non sembri neppure una svedese».
«Sì, sono svedese, eccome. Svedese fino al midollo». È serissima. Temo non stia scherzando. Guardo per un po’ dal finestrino. Il treno fila ad alta velocità. Mi piacerebbe camminare in quei boschi e perdermi e non sapere più dove sto andando. Chiudo gli occhi, re-
spiro a fondo, soffio fuori tutta l’aria, e le dico:
«È così, Agneta. La vita scorre e noi ci facciamo del male e accumuliamo tutto dentro. Un dolore che potrebbe farci schiantare».
Restiamo in silenzio, fissando i boschi al di là del vetro. Sento che è furiosa. Mentre io sono sereno. Quattro minuti dopo arriviamo nella nostra stazione, scendiamo e ci incamminiamo senza fretta. Siamo esausti.