Lavoravo in un campo umido e il fango si attaccava alle suole degli scarponi. Dovevo lavorare stando chino. Infilavo le mani nel fango e tiravo fuori le patate. La giornata era grigia, piovigginava e avevo un
gran freddo. Le cornacchie gracchiavano. Si udivano distintamente. Era una sofferenza estrarre quelle patate. Bisognava infilare il braccio fino al gomito nel fango scuro e gelido. A un certo punto ho notato che delle grosse sanguisughe, scure come la terra e viscide, si arrampicavano lungo le mie braccia, e poi sul collo, e in faccia. Le sentivo avanzare anche sulla schiena. Alcune si attaccavano alla pelle e succhiavano. Le sentivo succhiarmi il sangue, ma non riuscivo a liberarmene. Era impossibile sfuggire a quelle bestie schifose che aumentavano sempre più. E non potevo smettere di lavorare. Il braccio destro era affondato nel fango, per tirare fuori le patate. Il sinistro ricoperto di sanguisughe nere e ripugnanti. Totalmente ricoperto. Non si vedeva più la pelle. Sentivo che mi stavo lentamente trasformando in una sanguisuga. Mi sono svegliato urlando e dando manate per togliermele di dosso, ma non c’erano più. Uff, mi sono alzato. Agneta ha borbottato, si è voltata di schiena e ha continuato a dormire. Neanche se n’è accorta. Sono andato in cucina a bere un po’ d’acqua. Ho pisciato. Due del mattino. Ho guardato dalla finestra. Il vento agitava i cipressi, le betulle e le querce del cimitero. Le nuvole nascondevano la luna ma la notte era egualmente luminosa e le tombe si scorgevano nitide. Le ho contate. Ventisette. Altre erano coperte dagli alberi e dalla piccola chiesa luterana.
Ho bevuto altra acqua, e ho chiuso gli occhi pensando: “Sto dormendo poco e male. Vediamo... dalle undici e mezza fanno solo due ore e mezza”. Sono tornato in camera, sdraiandomi senza far rumore. Dovevo dormire ancora un po’. Allora mi sono reso conto che l’incubo delle sanguisughe era a colori, con tanto di odori, tatto, suoni, temperatura, ma nel frat-
tempo sto camminando per una stradina sporca. C’è un amico con me, non so chi sia esattamente, ma è un amico. Una ragazza, una giovane puttana, piscia contro il muro. Strano, per una donna. O quanto meno difficile. Eppure lei ci riesce. Un bel getto d’urina contro il muro. Quando ha finito, entra nell’edificio. Da una vetrata, le altre ragazze si mettono in mostra. Era un bordello. Tutte nude, sui letti, che si contorcevano lascive, aprivano le gambe e si lasciavano guardare. Quella che pisciava per strada è entrata in quel momento. Era Gloria. Non poteva vederci. Aveva una faccia diabolica. Un’espressione perversa. Si è spogliata sdraiandosi con le altre, ha aperto le gambe mostrando il sesso rivolta alla finestra. Con gli occhi socchiusi. Non sapeva chi la stesse guardando. Voleva soltanto i soldi. E mi ha fatto un male cane! Ho provato un grande dolore vedendo che Gloria faceva una cosa simile, con quell’espressione di finta goduria e soddisfazione e al tempo stesso di odio e vendetta. Mi sono sentito distrutto dentro e ho cominciato a piangere. Mi scendevano le lacrime e singhiozzavo e mi colava il naso. Non riuscivo a trattenermi. Sapevo che Gloria non era più mia e che non avrei più potuto toccarla. In quel momento stavo perdendo Gloria e lei continuava a contorcersi morbosamente sopra quel letto. Mi sono guardato intorno e ho visto dei pezzi di mattone. C’erano detriti e pietrisco per tutta la strada, oltre a merde di cane e schifezze d’ogni genere e vomitate. Ho preso a scagliare mattoni e sassi contro la vetrata del postribolo ma non si rompeva. Li lanciavo con furia, piangendo e imprecando, ma nessuno si accorgeva del mio dolore e della mia rabbia. Che orrore. Mi sono svegliato piangendo. Singhiozzavo come un bambino. Incon-
tenibile. Angosciato. Mi mancava l’aria. Seduto sul letto, alla fine sono riuscito a controllare il pianto e a convincermi che era stato soltanto un incubo. “Era solo un incubo” mi ripetevo. Fuori tuonava. Sono andato in salotto e mi sono seduto sul divano. Erano le due e mezza. I tuoni risuonavano secchi e forti. Senza eco, nessuna risonanza. Sembrava una valanga di grosse pietre che precipitano da un costone e cozzano tra loro. Un lampo. Per un istante si sono viste le nubi nere attraverso la grande vetrata del salotto. E subito dopo, il rumore sordo e secco di un tuono. Pochi secondi di silenzio e oscurità, poi un’altra frustata di luce e il tuono che rimbombava. Ha cominciato a piovere.
Non mi faccio la barba da tre giorni e non mi lavo. Mi annuso, ma niente. Ho bisogno di sentire i miei odori, ma qui è difficile. Sudo poco e l’aria è secca. Impossibile avere odori forti. Quando sento il mio sudore acre, divento un selvaggio. Qui mi sto rammollendo. Di questo passo diventerò sempre più moscio. Bella fregatura. Mi piace essere il tronco di quercia, la frusta, la spada del diavolo, che cazzo! Cammino un po’ nel bosco e intanto penso a tutto questo. Come fanno a vivere in un modo così noioso? Cerco di rasserenarmi. Torno indietro. Agneta lavora senza tregua: passa l’aspirapolvere, lava i panni e scende ogni quarto d’ora nello scantinato. Porta su e giù i panni. Trascina due tappeti sul balcone e li batte. Tutto contemporaneamente. A mezzogiorno preparo il pranzo: insalata messicana, salmone, formaggio, pane e birra. Spunta il sole, il cielo si apre, la temperatura aumenta. Adesso fa caldo e c’è un po’ di umidità. Andiamo in una spiaggetta vicina. È un modo di dire. In realtà si tratta di un vasto prato con
poche decine di persone che prendono il sole. C’è un bosco enorme, l’erba e un molo di legno che si addentra nel Baltico di qualche metro. Alcuni si avventurano a nuotare per alcuni minuti.
Scegliamo un posto spazioso per stendere un lenzuolo rosso e gli asciugamani. Il sole picchia. Ci spalmiamo l’olio addosso. La persona più vicina è una signora sulla sessantina. Forse sessantacinque. A tre metri da noi. Ha accanto a sé una bicicletta e un grosso zaino. Si è tolta il reggiseno del bikini e ha la pelle rugosa, scura e con migliaia di lentiggini e macchie. I capezzoli sono lunghi, scuri ed eretti. Un tempo doveva avere seni grossi e sodi. Adesso sono soltanto sacche di pelle afflosciata che le penzolano ai lati. Tiene le braccia in alto, sulle ascelle pochi peli biondi, bianchi e lunghi. Resta sdraiata, con la bocca aperta, mostrando i denti giallastri e sporchi. Così abbandonata, distante, la pelle rugosa, così immobile, così nuda. Sembra un cadavere. Guardo meglio e, in effetti, respira appena. È il cadavere di una signora vecchia e brutta. Il cadavere di un corpo usato e consumato. Dal mare spira una brezza costante e lieve, che odora di zolfo. Un gran silenzio. Soltanto il mormorio di qualcuno che parla piano vicino a noi e il lievissimo rumore delle onde che si infrangono sugli scogli della riva. Non ci sono gabbiani né altri uccelli. La brezza non riesce a scuotere le fronde. Non ci sono bambini. O meglio, sì, qualcuno c’è, ma non gioca, se ne sta tranquillo. Si sente appena il rumore di qualche motoscafo che passa veloce sul mare di fronte a noi lasciandosi dietro una scia di spuma bianca. Mi sento solo. Completamente e assolutamente solo nel mondo. È desolante avere quest’impressione di totale solitudine. Leggo un po’, bevo caffè, mi abbronzo.
Agneta mi dice che non può restare troppo tempo al sole.
«Saranno due anni che non prendo il sole».
«Da così tanto?».
«O anche di più. Forse tre. Non ricordo».
«Va bene, non devi preoccuparti. Tra poco andiamo all’ombra di quegli alberi».
«No, no».
«Ah, la tua allergia».
«Sì, c’è un sacco di polline. Non mi voglio neppure avvicinare a quell’erba».
«Uhm, vado a fare una nuotatina».
«È gelata, forse non sarà per niente gradevole». Quindici minuti dopo torno. Adesso spira un ven-
ticello più forte e sempre quest’odore di zolfo. La signora-cadavere è rimasta nella stessa posizione. Sarà morta? È impressionante vedere quel corpo; così desolante e nudo, abbandonato sull’erba. Non respira quasi, assolutamente immobile.
«Agneta, togliti il reggiseno».
«Eh?».
«La parte superiore del bikini».
«Ah... no, no».
«Perché?».
«No».
«Così ti abbronzi uniformemente. Hai le tette bianche».
«No».
«Ti vergogni?».
«Sì».
«Eppure per tante altre cose sei così svedese. Sembri una contadina».
«Io sono nata e cresciuta in campagna». Dall’altra parte del canale alcuni camion stanno
scaricando sabbia sopra gli scogli sulla riva. Tre camion giganteschi che fanno un rumore d’inferno. Buttano la sabbia, sollevano un gran polverone e se ne vanno. C’è una fabbrica da quelle parti. Tutto torna nel silenzio di prima. Un’ora dopo rientriamo a casa. Agneta prepara la cena e io uno Screwdriver. Prendo il mio bicchiere. Vado in salotto. Accendo il televisore. Ci vuole ancora un po’ per i Simpson. Stanno trasmettendo un programma della polizia. Servizi di dieci o dodici minuti. Un africano ha urtato un modellino di auto giocattolo in un negozio. Il titolare ha chiamato la polizia e adesso pretende che se lo portino via. Il nero tira fuori una banconota. Vorrebbe pagare l’automobilina. Il titolare non vuole che paghi. Vuole soltanto fotterlo e che la polizia se lo porti via. Non capisco. Parlano in svedese. L’africano si oppone e parla, gesticola facendo capire che il tipo voleva stringerlo per il collo e strangolarlo. Lui vorrebbe soltanto pagare il giocattolo e basta. I due agenti, molto sereni, parlano anche loro. L’obiettivo si allarga e si vede che è Natale. Poi ricompare l’africano che parla all’esterno, accanto alla volante. In piedi sulla neve. Intorno a loro ci sono alberi natalizi. Agneta mi chiama. La cena è pronta. Spengo il televisore e finisco di preparare il mio Screwdriver.