Finiamo esausti. Dormicchiamo un po’, una mezz’oretta. E poi torniamo alla carica. E dire che non mi stimola granché. È troppo passiva. Si lascia fare. Ma nonostante ciò mi piace lo stesso. Sudiamo come due bestie e, insomma, tutto il resto si può immaginare. Mi ero riproposto di non raccontare certe intimità, sul serio. Devo fare uno sforzo perché mi piacerebbe descrivere ogni dettaglio. Ma non va bene. Pare che l’ambiente svedese influisca molto: moderazione e silenzio.
Poi facciamo una doccia calda e andiamo sul balcone, con caffè e gelato. Lei insiste per fare una passeggiata. Non ne ho voglia. Prendo un libro, tento di leggere qualche pagina. In realtà mi sento stanco. Non sono più allenato a fare due scopate consecutive, ma non voglio riconoscerlo.
«Mi piacerebbe andare a vedere certi quadri in una galleria. È qui vicino».
«No, Agnes, no. Vacci da sola».
«Da sola no».
«Sei un po’ ansiosa?».
«Un po’».
«Vai a fare una passeggiata. Io me ne sto qui tranquillo».
«Allora vado al supermercato a comprare il latte.
Ti serve qualcosa?».
«No. C’è già tutto».
Se ne va. Anch’io sono ansioso. Un po’ inquieto. Ma non mi va che lo sappia. Si avvicina la partenza. Mi resta solo qualche giorno e per di più sono stanco. Troppo sesso. Siamo sfiniti. Ogni tanto penso in termini di moderazione e prudenza e faccio persino un programma per controllarmi sul cibo, il bere, il fumo, il sesso, l’esercizio fisico. Ma poi non lo rispetto. E continuo con gli eccessi. Forse l’inquietudine dipende da questo.
Mi sdraio. Non riesco a prendere sonno. Sono troppo nervoso. Il gran simpatico freme. Mi sintonizzo su Radio Match. Lo speaker sta propagandando una vertiginosa svendita promozionale sugli articoli estivi in un supermercato e poi annuncia “a new cd of Orlando Contreras, famous cuban singer of boleros”. Sfiora l’assurdo. Un bolero di un cubano di Miami in una piccola emittente alla periferia di Stoccolma. Mi precipito sullo stereo e lo registro:
Ovunque io sia
il mio desiderio sarà sempre tornare.
Un giorno tornerò
nel posto dove sono nato,
da dove mi hanno fatto andar via.
E tornerò
nella terra dei miei amori dove ho lasciato fiori appassiti senza il mio calore.
Oh, santo Dio, perché mi fai soffrire?
Guarda che voglio tornare, qui non ci voglio morire.
Subito dopo mettono So long, Marianne. Oggi a Radio Match dev’esserci qualcuno in preda alla nostalgia. Ho registrato il bolero. Lo riascolto più volte. Si tenta spesso di cambiare vita. Riuscire a controllarsi, prevedere gli eventi. Sapere in anticipo le conseguenze di ogni decisione presa. E invece no. Siamo simili alle formiche che corrono come pazze in giardino e si scontrano tra loro e perdono continuamente la direzione.
La sera andiamo in un locale in campagna. A ballare la salsa. È una sorta di radura in un bosco, con una vecchia pista da ballo di legno. Vendono da mangiare e da bere e suonano gli Stockholm Soneros. Sono svedesi, la cantante è uruguayana e fanno musica cubana. Ma se la cavano. Balliamo un po’, salutiamo qualche conoscente, beviamo un paio di birre. Il tramonto è lento e struggente. Poi comincia a fare freddo e andiamo verso la macchina a prendere le giacche. Tra noi due aleggia un velo di malinconia. Indefinito e grigio, ma indubbiamente triste. Era inevitabile. Abbiamo cercato di dimenticarcene ballando, chiacchierando con qualche amico, ridendo, ma continua a restare sospeso sopra di noi – silenzioso – l’angelo della tristezza. Infiliamo le giacche, richiudiamo la macchina e torniamo lungo il sentiero nel bosco. Silenzio assoluto e pace. A un tratto Agneta mi prende la mano, la stringe forte e mi costringe a fermarmi. Guardandomi negli occhi dice:
«Non andartene».
«Che dici?».
«Non tornare laggiù».
«Ah, Agnes, non sai quello che dici».
«Potremmo sposarci. Domani stesso».
«No, no, no. Neanche per sogno».
«Ehhh... così otterresti la residenza. Pensa, ti darebbero la cittadinanza».
«Ti ho detto di no».
«Perché no?».
«Non è nei miei progetti».
«Tu non hai progetti. Non ti piace fare progetti né sperare in qualcosa».
«Non complicare la situazione. Io non voglio vivere qui».
«Per la lingua?».
«Per tutto».
«Anche per me?».
E le sono spuntate le prime lacrime.
«Ehi, un momento. Niente pianti e lacrimucce e drammi. Le cose sono sempre state chiare tra noi, quindi niente capricci».
«Parla più lentamente, per favore. Non capisco».
«Ho detto di non piangere. Niente lacrime».
«Sei un animale e uno...!».
«Cosa sarei?».
«Uno stupido. Sei stupido!».
Abbiamo alzato la voce. Ha mollato la mia mano e se ne va verso la pista da ballo. La seguo. A passi lenti. E con la mente in bianco. Per me era tutto chiaro fin dall’inizio. Restare in Svezia? Neanche morto! E a un tratto mi si accende una lampadina in testa. Mi avvicino.
«Andiamocene insieme a Cuba».
«Ci ho già pensato. È impossibile».
«Perché?».
«Non troverei mai un lavoro. Qui invece potremmo cavarcela entrambi».
«Qui non posso restare perché morirei come un uccello in gabbia».
Rimaniamo in silenzio per un po’. Uno accanto all’altra. L’orchestra suona un son.
«Credo sia meglio che non ne parliamo più, Agnes.
Non ne vale la pena».
«Va bene».
Torniamo a casa presto. Guardiamo per qualche minuto le stelle dal balcone. Andiamo in bagno separatamente, e poi a letto. Ero stanco ma mi ritrovavo su una corriera affollata e dovevo portare borse e zaini pesantissimi. La calca mi sballottava e spingeva e facevo fatica a tenere d’occhio tutti quei bagagli. Stavo in piedi nel corridoio e non riuscivo a vedere niente dai finestrini. C’era troppa gente intorno a me. Soffrivo di claustrofobia. Provavo una sensazione di soffocamento e mi mancava l’aria. Allora scendevo, trascinandomi appresso tutta quella roba, e mi ritrovavo in una città sconosciuta. La gente parlava e non capivo in quale lingua. Non sapevo dov’ero né dove stavo andando. Prendevo un’altra corriera affollata come la prima, sempre con le borse e gli zaini stracolmi di roba. Non venivo da un posto preciso e non avevo una destinazione. Non andavo da nessuna parte, eppure non potevo fermarmi. Dovevo andare avanti così, trascinandomi dietro tutto quel peso, senza potermi riposare e senza capire. Angosciante. Sembrava una condanna. Dovevo continuare a viaggiare su corriere affollate, con l’aria irrespirabile, senza sapere perché. Scendevo da una e risalivo su un’altra. Ero costretto a proseguire anche se non riuscivo a respirare. Mi sono svegliato in preda al panico. Che mi succedeva? Ho represso l’impulso disperato di alzarmi e andare a respirare aria fresca sul balcone. C’era un vago chiarore nella stanza. Sono rimasto a fissare il soffitto cercando di rilassarmi. Ho provato a controllare la
respirazione. Il tepore di Agneta, di fianco a me. Sentivo il contatto con le sue grosse tette, e mi è venuta in mente un’immagine di Dracula, con il mantello nero e i canini sporgenti e gli occhi diabolici. Sosteneva tra le braccia una donna bellissima, apprestandosi a piantarle i denti nella gola. Gloria conserva tale immagine, nascosta sotto un pezzo di stoffa nera, sul suo altarino, accanto alle altre immaginette dei santi e un crocifisso. Una volta ero rimasto da solo nella stanza, e avevo curiosato in giro. Mescolava i santi cattolici agli orisha africani. Sollevai il panno nero e scoprii quel Dracula. Rimisi ogni cosa al suo posto e non le dissi nulla. Qualche settimana dopo Gloria e io parlammo della catena d’oro che vorrei comprare.
«La desidero da tanti anni, ma non ho mai abbastanza soldi».
«Comprane una meno costosa...».
«Io non porto robetta da quattro soldi, Gloria. Deve essere bella grossa, oro di prima qualità. Una catena da vero macho. E con un crocifisso d’oro».
«No, papi, senza crocifisso».
«Perché?».
«Se ti metti addosso un crocifisso sembrerai troppo buono. Un mezzo fesso».
«Sì?».
«Ma sì, certo. Uno deve conservare il diavolo che si porta dentro. Se sei troppo buono ti schiacciano». Adesso, fissando il soffitto, me ne ricordo: “Se sei troppo buono ti schiacciano”. Proprio così. Mi devo rimettere in sesto e riprendere a essere diabolico come sempre. “Il figlio di puttana che mi porto dentro si è addormentato, stando in questo paese” ho pensato. “Devo andarmene da qui, e subito. O finirò per rin-
coglionirmi”.
Ho tirato verso di me Agneta e ci siamo stretti uno all’altra. Era completamente nuda e calda. Ho provato una piacevole sensazione di benessere. Ho chiuso gli occhi per riaddormentarmi e mi è tornato in mente il Dracula di Gloria. Non devo dimenticarmene mai più. Non posso permettere che il figlio di puttana si assopisca.
A volte vorrei ritirarmi in un monastero e allontanarmi da tutto, ma so che non sopporterei tanta solitudine. Il passato, il presente e il futuro mi opprimono. Cerco di mantenere il controllo almeno in parte ma è inutile. Non controllo mai niente. E continuo a vivere senza freni e nell’angustia. Soprattutto la notte. Taglio teste all’idra, ma ne spuntano sempre di nuove. Sembra che non ci sia soluzione possibile. In fin dei conti, sono come tutti gli altri: ho una lunga lista di conflitti, problemi, odii, traumi e rotture di coglioni d’ogni sorta. Provo a non pensarci e a vivere in modo pulito ma non ci riesco. In fondo non lo voglio. Illudersi di vivere felici è un’ingenuità. A volte capisco che tutto questo me lo trascinerò dietro per sempre. Sono come dei tatuaggi che si incidono nel profondo e non si possono più cancellare. Restano lì fino alla fine. Mi sono sforzato di regolare la respirazione e a un certo punto il sonno è arrivato.
L’indomani siamo andati a pescare nel canale. Dopo un’ora di tentativi non aveva abboccato un solo pesce, e si è alzato un vento freddo, così ce ne siamo andati. Al ritorno c’era tutto il tempo di fare una deviazione lungo una strada stretta e visitare i resti di una fattoria risalente all’Età del Ferro. È un sito archeologico protetto. Del 700 avanti Cristo. O addirittura più antico. Restano soltanto le mura, erette con enormi pietre, di quattro edifici. Si suppone che la
fattoria sia stata distrutta da un incendio. Gli archeologi hanno ricostruito un plastico dell’insediamento. Erano quattro grandi navate, lunghe circa cinquanta metri per sei o sette di larghezza. Pareti basse e semplici: soltanto pietre disposte una sull’altra, e un tetto di legno e paglia. Vivevano tutti insieme: uomini, donne, bambini, vacche, pecore, maiali. Sapevano forgiare alcuni oggetti in ferro, si facevano la birra di cereali, cucinavano zuppe a base di erbe e cipolle. In alcune case abitavano tre o quattro uomini e una o due donne. Suppongo facessero l’amore tra tutti, e quindi avevano figli in comune e nessuno sapeva chi fosse il padre di questo o quello. Dovevano apprezzare enormemente un semplice boccale di birra o un po’ di calore o che si sciogliesse la neve e arrivasse la primavera o poter soddisfare i propri desideri sessuali. Morivano giovani. Un raffreddore o un’infezione a un dente erano in grado di consegnarli alla breve memoria dell’oblio. Sapevano di non essere più importanti di uno dei maiali con cui condividevano tetto, calore e cibo.
L’insediamento si trova al centro di un bel bosco fitto. Ho camminato in silenzio, percependo quel loro modo di vivere come una scintilla di luce dentro di me. Sono passati duemila e settecento anni. Niente. Un soffio nella galassia. Un millesimo di secondo nell’universo. Quell’istante è stato sufficiente per colmarci di aspirazioni e desideri. Ci è bastato per arrivare a considerarci molto importanti, decisivi, trascendenti, infiniti. Mi è proprio piaciuta quella fattoria dell’Età del Ferro.