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Una sera, verso le otto, mi telefona Carmita. Vive a Lawton. Si sente sola. L’ultimo marito le è durato otto mesi. Non lo sopportava più. Qualche anno fa abbiamo avuto una relazione sporadica. Mi chiamava “Cazzo d’Oro” perché la prima notte che è stata sulla mia terrazza ha bevuto un po’ di rum, ci siamo baciati, ho cominciato a toccarla, mi ha stimolato nei punti giusti, e comprovando con la mano che ce l’avevo ben duro, si è buttata direttamente sull’obiettivo: abbassata la cerniera, me l’ha tirato fuori a prendere una boccata d’aria.

«Oh, che carino! Ma questo è proprio un Cazzo d’Oro!».

Lo ha poi detto a tutta la famiglia di Lawton: “Sto con un tipo dell’Avana Centro che ha un uccello bellissimo, un vero Cazzo d’Oro”. Non mi piace andare a Lawton. La sua famiglia è composta da almeno trecento persone tra bianchi, mulatti, meticci, neri, indios. Ogni volta che ci vediamo mi salutano con un certo sarcasmo. Comunque, la faccenda non è durata molto, perché Carmen insisteva a voler usare la terrazza come allevamento di polli e maiali. Ha verificato i prezzi del mangime al mercato nero, si è pro-

curata la rete metallica e ha comprato venti pulcini. Ho faticato non poco per farla sloggiare e liberarmi di maiali e polli che scacazzavano per tutta la terrazza.

Siamo rimasti amici. Ogni volta che rompe con un marito, si sente sola e mi telefona. Adesso riattacca con la solita solfa:

«Ah, Pedro Juan, andava tutto così bene, ma a un certo punto lui ha cominciato a fare l’impertinente e a pretendere troppo».

«Pretendere cosa?».

«Che restassi chiusa in casa. Voleva sempre sapere dove andavo per controllarmi, geloso come un cane. No, no, ormai sono vecchia e non voglio il fiato sul collo da nessuno».

«Tu non hai pazienza con gli uomini».

«Neanche tu hai pazienza con le donne. Guarda com’è andata con me».

«Stiamo parlando di te, Carmita».

«È sempre la stessa storia. Cominciano con tutto l’amore del mondo e si scopa quattro volte al giorno. E quanto ti amo, Carmita, e non ci lasceremo mai. Poi mollano poco a poco e l’abitudine ha il sopravvento...».

«E tu non sopporti le abitudini e la noia».

«No. Io ho bisogno di emozioni. Scopare abbastanza, un po’ di romanticismo, qualche sbronza, la musica, i boleri, le avventure della vita. Ah, Pedro Juan, non riesco a rassegnarmi alla vecchiaia!».

«Sarai una vecchia signora sconcia. Come ce ne sono tante. In tutto il mondo».

«Tu credi? Per come vedo le cose, non metterò mai la testa a posto».

«Be’, prova almeno a fidarti un po’ di più della ra-

gione e meno delle emozioni. Altrimenti resterai da sola e invecchiando...».

«Ah, smettila di spaventarmi!».

La sento singhiozzare all’altro capo. Rimango in silenzio per qualche istante. La lascio sfogare. Lei continua e sembra non piantarla più. Alla fine mi decido a interromperla:

«Carmita, perché piangi?». Tira su col naso e risponde:

«Mi sento male, Pedro. Mi sento vecchia e sola. Le rughe aumentano. Per fortuna ho le tette piccole e almeno quelle non cascano».

«Sei un’immatura, ecco cosa sei. Ti illudi forse di poter andare avanti come se fossi un’eterna adolescente? Ti ci devi abituare. Gli anni passano per tutti». Riattacca a singhiozzare. E più forte di prima. Ti-

rando su col naso dice:

«Ti ho telefonato per avere un po’ d’aiuto e tu mi fai a pezzi. Non so che razza d’amico...».

«Proprio perché sono tuo amico e ti voglio bene che parlo così, ma tu ne fai un dramma. Non sei né vecchia né sola. E i tuoi figli?».

«Ah, lascia perdere i miei figli. Sto entrando in menopausa. Saranno tre mesi che non mi vengono le mestruazioni».

E singhiozza e piange e tira su col naso.

«Carmita, non fare così. Potresti essere incinta».

«Macché, amico, no. Sono già stata dal dottore. È la menopausa. Ho le vampate, sudo molto e sono nervosa, non riesco neanche a dormire la notte».

«Cazzo, hai messo insieme tutti i sintomi giusti!

Sembri un’enciclopedia medica».

Ride.

«Non recitare la parte con me».

«Ahi, non dire così».

E continua a piangere al telefono. È incontenibile.

«Porcatroia, sei così suscettibile che è impossibile parlare con te».

«Trattami con più delicatezza. E non essere volgare».

«Va bene, quello che volevo dirti è che quando ti metterai con un altro non devi innamorarti come un’adolescente. Usa la testa. Te lo ricordi quel marinaio?».

«Luis. Ma che c’entra?».

«Quello degli elefanti di finta porcellana».

«Sì. Luisito. Chissà dove sarà. Non ne ho più saputo niente».

«Se con lui fossi stata più paziente, sarebbe ancora tuo marito. Dal punto di vista sessuale ti mandava fuori di testa, ed era anche un brav’uomo».

«Sono tutti bravi e tutti mi mandano fuori di testa con il sesso».

«Sei un’arrapata perenne».

«Un dono che ho avuto dalla vita».

«Sulla tua storia con quel marinaio ho scritto un racconto».

«Non ci posso credere! Ah, figlio di puttana, ma che dirà la gente! E hai messo i nostri nomi veri?».

«Certo. Carmita e Luis».

«E l’hai già pubblicato?».

«Si intitola Il ritorno del marinaio».

«Non riesco a credere che tu sia carogna fino a questo punto. Sei una iena. Un cannibale. Ti nutri dei tuoi amici, bastardo! Dracula!».

«Ah ah ah».

«E ridi, per giunta... almeno fammelo leggere. Dove si trova il libro? L’hanno pubblicato qui?».

«No, all’estero, in altri paesi».

«Prestamene una copia».

«Non me n’è rimasta neanche una. L’editore mi dà dieci copie e chiuso».

«Che spilorcio. E va bene, vengo a casa tua quando meno te l’aspetti e me lo leggo lì. Ma cosa hai scritto in quel racconto?».

«La verità. Vieni pure quando ti pare, se ci tieni a leggerlo. E già che ci sei, mi racconti le ultime avventure».

«Così puoi continuare a scrivere alle mie spalle?».

«Che ne sai, potresti anche passare all’immortalità della letteratura, come Dulcinea del Toboso».

«E chi sarebbe?».

«La donna di Don Chisciotte».

«Ah, piantala con le stronzate. Immortalità un paio di palle. Voglio soltanto un marito, con i soldi per mantenermi e un uccello che funzioni a dovere. Ecco di cosa ho bisogno per rallegrarmi la vita».

«E il tuo figlio maggiore? Lavora sempre alla fabbrica di sigari?».

«Sì, lui mi aiuta molto. Però con un solo stipendio deve mantenere la moglie, il figlio e la suocera. Più me e Adriancito».

«Quanti anni ha adesso Adriancito?».

«Quindici».

«Ah, addirittura. Presto lo chiameranno a fare il servizio militare e te lo togli di dosso, ah ah ah».

«Amico, ma perché sei così cinico e...?».

«Va bene, ascolta, adesso ti devo lasciare. Vieni quando ti pare».

«D’accordo, Pedro, stammi bene».

Il resto della nottata è trascorso tranquillamente. Sono andato a letto presto e ho sognato un sacco di

cose. Tutta la notte. A un certo punto stavo pescando con la canna sul canale di Sodertalje e il filo di nylon mi si avvolgeva addosso. E avanti così per tutta la notte. A volte sogno che cado per le scale oppure gioco con un cagnolino che subito dopo cresce, si trasforma in una tigre, mi butta a terra e a quel punto è diventato una tigre enorme e con una forza straordinaria, e mi morde rabbiosamente strappandomi pezzi di carne. Per fortuna è un po’ di tempo che non sogno le scale o la tigre.

Al mattino mi alzo con il corpo indolenzito. Forse ho lottato con la tigre e sono caduto per le scale, ma non mi ricordo niente. Mi fanno male tutti i muscoli. Preparo il caffè ed esco sulla terrazza con la tazza in mano. Sta albeggiando e i braccialetti di Gloria tintinnano nella cucina del settimo piano. Saranno le sette, e quella ha già messo una cassetta di Marco Antonio Solís a tutto volume:

Non c’è niente di peggio che vivere senza te vivendo nell’attesa di vederti arrivare

il mio corpo freddo chiede di te e non so dove sei.

Gloria sta litigando furiosamente e le sue urla sovrastano la voce di Marco Antonio. Riesco a cogliere solo qualche frase qua e là: “Quanto sei scema... Ma io vado alla polizia... Rincoglionita... Quel ruffiano, quel ladro...”.

Mi allontano spostandomi dall’altra parte della terrazza: il Morro e l’infinità del mare azzurro. Per il risveglio è preferibile il silenzio e la tranquillità. Se Gloria e io vivessimo assieme sarebbe piuttosto difficile. È una gran casinista.

Poco dopo esce di casa. Sento la porta che sbatte forte. Accompagna a scuola il bambino, a due isolati da qui. Torna subito e si mette a pulire, a lavare. Io intanto dipingo in tutta calma. Dal cortile mi arriva il rumore delle sue ciabatte di gomma. Mi piace sentirla ciabattare in giro e il tintinnio dei braccialetti. A volte mi basta questo per avere un’erezione. È incredibile quanto mi arrapa, la mulatta. Verso le nove sale su. Mi porta un pezzo di pane e un grosso barattolo di salsa di pomodoro. A quanto pare la tempesta è passata. Lei è così, volubile e capace di cambiare umore in pochi minuti. Adesso ride contenta.

«Cos’era tutto quello sbraitare di prima mattina?».

«Sbraitare?».

«Litigavi con qualcuno, in cucina».

«Mi hai sentita?».

«Ti ha sentita l’intero condominio. A te e a Marco Antonio Solís, che cantavate in duetto».

«Ma niente, è mia madre che è una deficiente».

«Perché?».

«Ieri sera è venuto un tipo che avevo sbattuto fuori di casa qualche tempo fa e si è portato via una lampada di bronzo antica. E gliel’ha data lei, quella scema!».

«A casa tua c’era una lampada di bronzo antica?».

«Sì, in mezzo a tutto quel casino. Stava in sala da pranzo».

«Non l’ho mai vista».

«Perché non funzionava. La tenevo chiusa in un armadietto. So che vale un fracco di soldi e quel disgraziato l’ha presa per il culo».

«Non ho capito niente».

«Io stavo già dormendo. Era circa mezzanotte. E arriva Gilberto, e dice a mia madre che qualcuno

sborserebbe cento dollari per la lampada. Lei abbocca e gliela dà».

«E adesso?».

«Adesso niente. Abbiamo perso la lampada. Eppure lei lo sa che il tipo è un poco di buono, ladro, truffatore e figlio di puttana. Io lo conosco bene e l’ho dovuto sbattere fuori di casa proprio per questo».

«La colpa è tua, che te la fai con i delinquenti».

«L’ho conosciuto in galera, tesorino, e poi mi si è appiccicato addosso e ho dovuto sudare non poco per togliermelo dai piedi».

«Quando sei stata arrestata?».

«Io non sono mai stata arrestata».

«E allora come l’hai conosciuto?».

«Ma perché fai tante domande?».

«Io non faccio domande. Sei tu che hai cominciato a raccontare e ora vorresti lasciare la storia a metà».

«Papi, è roba vecchia. È stato prima di conoscerti».

«Risparmiati il teatrino, che tanto non sono geloso. Stare con te ed essere gelosi, vuol dire crepare d’infarto».

«Perché?».

«Perché ne tiri fuori una nuova ogni giorno».

«Non devi vivere nel passato. Vivi nel presente, come faccio io. E con i piedi per terra».

«Quando avrai la mia età dirai quel che dice Yolanda, una mia amica».

«E che dice?».

«Ha cinquantacinque anni e dice che si è scopata metà L’Avana e l’altra metà se l’immagina».

Ride.

«La stessa cosa che potrai dire tu».

«Io?! Macché. Io dirò di aver avuto due mariti e basta: il padre di mio figlio, che è un brav’uomo, au-

tista di autobus a Guanabacoa. E te, che sarai il padre di tutti gli altri».

«E il resto dei mariti?».

«Finiranno nell’oblio della notte».

«Una nottata un po’ lunga».

«Insomma, finiranno nell’oblio delle varie nottate. Fossero anche diecimila notti. Gli unici a restare in vita sarete voi due: i padri dei miei figli, persone dignitose e corrette».

«E il tipo del carcere?».

«Uffaaa, ma non ti scordi mai niente! Sei peggio di una zecca, quando ti attacchi a qualcosa!».

«Parla».

«Ma dài, è stato tanto tempo fa, è successo prima che...».

«Sì, come no, “prima di stare con te, papi”».

«Ah, che stronzo. Un amico mi aveva detto che quel nero offriva venti dollari e una borsa di vestiti e scarpe e roba varia se una donna lo andava a trovare, spacciandosi per la moglie».

«E tu l’hai presa al volo».

«Sì».

«E i documenti?».

«Figurati. Il nero era finito dentro per truffa. Un tipo sveglio, che teneva la situazione sotto controllo. Sul portone dovevo rivolgermi a un secondino che mi avrebbe portato direttamente nella sua stanza».

«Per quanto tempo?».

«Le visite cominciavano alle nove del mattino, fino alle cinque o le sei del pomeriggio. E quello, senza tregua. I neri sono molto golosi».

«Dovevi scopare un bel po’ per venti dollari».

«Anche troppo. Mi diceva di chiedere a Changó di farlo uscire dal carcere. Tutti gli uomini gran scopa-

tori sono uguali. Si credono figli di Changó mentre la maggior parte, in realtà, sono figli di Ochún e Yemayá. E scopano con tutti: donne e uomini. Per loro fa lo stesso sbattersi una donna o prenderlo nel culo, però se la tirano da macho».

«E nella borsa cosa c’era?».

«Valeva di più la borsa. C’erano dentro jeans, maglie, profumi, scarpe da tennis. A volte ne ricavavo altri trenta o quaranta dollari».

«Ah, ottimo».

«Il tipo era un boss, in galera. Si vestiva come un principe, scarpe Adidas e denti d’oro».

«E là dentro poteva tenersi tutta quella roba?».

«Ah, e anche di più. Molto di più. Non puoi nemmeno immaginare. Il tipo da dentro riusciva a controllare i suoi affari all’esterno».

«Di che genere?».

«Basta, dài. Vuoi sapere troppe cose».

«Non fare tanto la difficile, vai avanti».

«Un piccolo bordello, papi, ma a un certo punto la faccenda gli è sfuggita di mano. Sono stata con lui, fammi pensare... sette mesi, più o meno. Poi è scappato o l’hanno mollato, non lo so. Fatto sta che mi si è piazzato in casa. Era al verde. Neanche un centesimo».

«La cosa si è complicata, allora».

«Alla fine me ne sono liberata. L’ho lasciato da solo per qualche giorno e gli ho telefonato da fuori, minacciandolo di chiamare la polizia se non spariva. Così se n’è dovuto andare via».

«E adesso è ricomparso e ti ha fregato la lampada».

«Neanche mi ricordavo più di lui. Ed è ridotto così male che viene a rubare proprio da me».

«Pensi di andare alla polizia?».

«No! Quelli mi chiedono come l’ho conosciuto, guardano i precedenti e finisco nella merda anch’io. Dammi quel caffè, tesoro, che si raffredda».

«Con molto zucchero?».

«Il mio sì. E tu piantala con le abitudini da yankee».

Beviamo un paio di tazze. Lei si accende una Popular.

«Gloria, è troppo presto. Con quel tabacco nero ti...».

«Ah, che importa, di qualcosa bisogna pur morire». Stiamo zitti per qualche istante. So che non sopporta il silenzio e la calma. Vive costantemente nel rumore e nell’agitazione. L’ho misurato: può resiste-

re in silenzio al massimo per trenta secondi.

«Ah, non te l’avevo detto che ho trovato un lavoretto».

«Da ballerina o da parrucchiera?».

«Magari».

«Vendi panini con maialino arrosto a Galiano?».

«Nemmeno. Non indovinerai mai».

«Di che si tratta?».

«All’obitorio del pronto soccorso».

«Roba da matti!».

«Ma non ha niente a che fare con i morti. Devo solo tenere in ordine un registro».

«Tutto qui?».

«Già».

«Non devi lavare i cadaveri?».

«No».

«Un registro di che?».

«Di... non mi ricordo la parola. Qualcosa che c’entra con le analisi. Mi hanno detto di andarci stamattina per fare una prova».

«Ma sono quasi le dieci. Perché non ci sei andata presto?».

«Ah, Pedro, calma, calma. Non precipitiamo le cose. Se il lavoro fa per me, i santi me lo daranno comunque. E se no, niente».

«Be’, se lo dici tu».

Se ne va. Torno alla pittura e al silenzio.

Il resto della mattinata scorre tranquillamente. A mezzogiorno arrivano due neri. Uno giovane e l’altro più anziano. Dicono di essere due idraulici. Me li ha mandati una vicina del terzo piano, raccomandandosi. Li porto in bagno.

«La tazza è intasata?».

«Sì».

«Bisogna rimuoverla».

«Non c’è altro modo...?».

«No. Bisogna proprio rimuoverla».

Ci perdo l’intero pomeriggio. Loro lavorano e io li guardo. Hanno sfondato il pavimento, scoperto lo scarico, e rotto pure quello. L’intasamento non era lì. Il bagno e un angolo della stanza sono pieni di detriti e merda e loro non sanno più cosa fare. Allora mi viene un’idea.

«Forse dipende dalla tazza».

«No» dice il più giovane.

«Perché no?».

«Sono sempre gli scarichi che si intasano». Il più anziano riflette.

«Proviamo con la tazza».

Fanno la prova. Effettivamente. La tazza del cesso è tappata. Non mi controllo.

«Vieni un po’ qui, ragazzo, allora: avete spaccato tutto per il gusto di farlo?».

«Ma no, per carità. Senza rompere, non si può vedere niente».

«E voi due sareste degli idraulici? Lasciate perdere e andatevene, il lavoro lo finisco io».

«No, ci pensiamo noi a sistemare tutto».

«No, andatevene. Si è fatto tardi».

«Senta, signore, noi non ce ne andiamo. Prima deve pagarci».

Tiro fuori cinquanta pesos e glieli do.

«Prendete questi e sparite».

«Ma è matto? Per un lavoro simile ce ne vogliono almeno trecento».

«E altri trecento che non vi darò mai, fanno seicento».

«Guardi che stiamo parlando sul serio».

«Anch’io parlo sul serio. Voi avete lavorato per scherzo. Vi siete messi a spaccare tutto e alla fine guardate che casino, neanche sapete da dove ricominciare».

Il più giovane afferra una mazza e prova a fare l’aggressivo.

«Senti un po’, bianchetto, che ti prende? Tu non puoi trattarmi così, capito?».

«Non rompere le palle. Vuoi prendermi per il culo? Trecento pesos per aver fatto cosa?!».

L’anziano si mette in mezzo.

«Ehi, ehi, calma, calma, così non si risolve niente.

Senta, signore...».

«Signore a chi? Io non sono un signore. Mi chiamano compagno, compagno. Io sono un ufficiale di polizia, e dovete rivolgervi a me dicendo compagno. E mi sa che adesso chiamo la centrale e sistemiamo la faccenda in tutt’altro modo».

Il giovane molla la mazza e resta zitto. L’anziano continua a parlare:

«No, no. Aspetti un momento... dev’esserci un er-

rore... Lei non è il giornalista dell’ultimo piano? Perché Marisol ci ha detto...».

«No, quello è il mio vicino. E si trova in Svezia. Il suo appartamento è chiuso da un pezzo. Io sono un poliziotto. Ma questo non c’entra...».

«Va bene, signore, va bene... volevo dire, compagno, compagno, va bene così, compagno. Mi dia quei cinquanta pesos e torniamo domani».

«Prenda. E non torni domani».

Riesco a trattenere una risata finché non se ne sono andati. Poi rido per mezz’ora di seguito. Ormai sono le nove di sera. La puzza di merda è insopportabile. Un disastro di macerie, e se dovessero controllare, magari torneranno per discuterne ancora. Esco alla svelta. Passo per i vicoli al buio, con i bidoni della spazzatura che traboccano putridume in ogni angolo. Il bar El Mundo, tra Águila e Virtudes. Mi scolo un paio di rum. Ha un nome filosofico, questo bar. Mi piace. Mi piace a tal punto che quando cammino senza meta finisco sempre davanti al suo bancone. È magnetico. Proseguo fino a San Miguel, all’altezza di Amistad. Il Palermo. Sul cartellone spiccano due grandi foto del corpo di ballo e dell’orchestra. Noto alcune mulatte molto carine. Lo show comincia alle dieci. Okay. Sono arrivato in tempo. Sborso i sessanta pesos di entrata e via.