Mi sono seduto al bancone e ci sono rimasto due o tre ore. Tranquillo. Ho continuato a bere rum. E intanto guardavo le ballerine, che a loro volta sbirciavano i pochi stranieri seduti ai tavolini, ma quelli non se
ne accorgevano nemmeno. Insomma, niente da fare. Quando ne ho avuto abbastanza, sono uscito a prendere una boccata d’aria. Sulla San Miguel, verso Prado, c’era la pensione Rex. Ormai è rimasto soltanto il nome dipinto sul muro. Mi ricorda Mignón e le grandi scopate che abbiamo fatto in quella pensione negli anni settanta. Avevo finito i quattro anni e mezzo nell’esercito ed ero fuori di testa. Mignón e le scopate di ventiquattr’ore con lei erano state come un elettroshock. La pensione non esiste più e Mignón potrebbe essere morta o ridotta a una vecchia sudicia e stracciona. Dovrebbe avere cinquant’anni, come me, ma sono sicuro che, se è ancora viva, ne dimostra almeno settanta. Un giorno di questi dovrò farmi coraggio e andare a casa sua. Un po’ più in là c’è il bar Okinawa. La strada dissestata è invasa da un’enorme pozzanghera di acqua verdastra, putrida e puzzolente. Il bar ostenta, orgogliosamente, un grande cartello: “3ª Categoria”. Di giorno mi piace molto. Adesso è chiuso e immerso nel buio. Ci sono tre ragazzi e una ragazza neri, sembrano giovanissimi, seduti sopra un paio di casse sul marciapiede. Questo tratto della San Miguel, dietro l’albergo Telégrafo, è troppo scuro per i miei gusti. Forse hanno notato che sono un po’ brillo. Uno di loro mi chiama.
«Vieni qui, amico».
«Vieni qui tu».
«Dài, avvicinati, compare. Questa piccola non ti mangia mica. Vieni, così la vedi meglio».
La ragazza apre le gambe senza ritegno e scoppia a ridere. Resto in attesa. Il tipo si avvicina. Sono sul marciapiede di fronte. Deve aggirare l’enorme pozzanghera d’acqua marcia. Tocco con le dita il coltello svizzero che ho in tasca. Forse si sta avvicinando
per poter parlare a bassa voce. Faccio un passo indietro.
«Tieniti a distanza e parla!».
«Non aver paura, socio, siamo tutti nel “bisnis”.
Qui puoi trovare quello che vuoi».
«Cosa offri?».
«Rum ed erba, subito. Se invece preferisci polvere, te la procuro in due minuti. E la puledrina può farti un servizietto a tuo piacimento».
Sto zitto e lo osservo.
«Ti costerà poco, non starci a pensare tanto». Resto in silenzio. Il tipo crede che sia indeciso e ri-
attacca:
«Se invece ti piace la carne di gallo, basta dirlo. Uno qualsiasi di noi tre, quello che scegli tu, può piantarti il suo sperone».
«Ehi, di che cazzo parli? Ma quale carne di gallo, che vuoi da me?».
«Ma no, è che ti vedo indeciso, come se non sapessi cosa...».
«So quello che voglio. Fammi vedere l’erba».
«Vieni, dài, vieni qua».
«No, portala tu qui».
Non c’è nessuno in vista. Mentre il tipo attraversa la strada ho il tempo di girarmi verso il muro. Estraggo la lama più grossa del coltello. Lo rimetto nella tasca dei pantaloni. Adesso si stanno avvicinando in due. Li tengo a una certa distanza. Mi mostrano l’erba. La annuso.
«Va bene. Dammene due».
«Due verdoni».
«Ho forse la faccia da turista, o che? Un dollaro per tutti e due».
«Cazzo, socio, sei intrattabile, stasera. Lascia che
mi guadagni da vivere, amico, non approfittarne troppo».
«Un dollaro per due».
«E va bene, dammelo».
Gli passo il dollaro. Insistono:
«Vieni a dare un’occhiata alla ragazzina. È un cioccolatino di quindici anni. E ne abbiamo una ancora più giovane. Dodici anni, è come la panna montata».
«No. Vado di fretta».
«Faranno quello che vuoi tu. Una o l’altra, scegli». Tentano nuovamente di avvicinarsi, sorridendo, con l’aria da amiconi. Avanzano ancora. Tiro fuori il
coltello e faccio un ricamo in aria.
«Basta così, fatemi passare che me ne vado!».
«Ehi, guardatelo, il tipo ci sa fare! Ci sfida all’arma bianca!».
«Forza, muovetevi, che non voglio complicarmi la vita proprio stanotte».
Sulla porta del bar, l’altro si alza in piedi e chiede:
«Che succede laggiù? Problemi con l’amico? Va in cerca di guai?».
«No, no. Tranquillo, è soltanto un po’ nervoso».
«Nervoso un paio di coglioni. Toglietevi di mezzo». Indietreggiano. Aggirano la pozzanghera e si fermano al centro della strada. Sono furiosi. Uno dice
minaccioso:
«Senti, bianco, non farti più vedere da queste parti perché ti rovino. Anche a me piacciono i coltelli. Anzi, vado matto per quelli a scatto, le mollette, tanto per capirci».
«Ripasserò di qui tutte le volte che mi gira in cazzo di farlo. Sono anch’io di questo quartiere».
«E allora trasloca. Sparisci. Prima o poi ti incontro e ti buco. Ti faccio un’asola nella pancia».
«Parli perché hai la lingua in bocca».
«Stai facendo un grosso sbaglio. Io sono Rolandito, chiedi in giro. Cattivo come il fiele. Oggi mi hai trovato in buona, per tua fortuna non ho la molletta in tasca. Te la farai con Rolandito all’arma bianca! Sei fottuto, viso pallido!».
Mi allontano lungo San Miguel fino a Prado. Non mi vengono dietro. Sulla Prado all’angolo con Neptuno ci sono tre ragazzine. Giovanissime. Mi guardano e io le guardo. Carine, davvero. Mi piacerebbe averle tutte e tre nude nella mia camera. Mi avvicino. Una di loro, bianca e magra, mi dice:
«Vieni con me, papi, farò quello che vuoi».
«Per tutte e tre insieme, quanto volete?». La più scura di pelle dice:
«Un’ammucchiata? No, per carità! Io non faccio ammucchiate».
Le allungo un’occhiata insistente e poi riprendo a camminare, indifferente. Sono troppo sbronzo. Le altre due mi raggiungono di corsa:
«Senti, che ne dici di farlo con noi due?».
«Siete minorenni».
«E che c’entra? Il tuo problema è che sei senza soldi!».
«Esatto. Non ho niente di niente».
«Ti faccio una sega per due dollari».
«Ho forse la faccia da segaiolo?».
«Non c’è bisogno di averne la faccia, per una sega».
«A me piace metterlo dentro».
«Va bene, dài, ma deciditi. Puoi mettermelo dentro quanto ti pare, per cinque dollari».
«Ragazzina, sparisci, tu sei minorenne. Guarda che c’è un poliziotto, laggiù».
«Quello è nostro amico. Facciamo tre dollari. Muo-
viti, che già me lo sento dentro. Consideralo uno sconto speciale per te».
«Piantala».
Proseguo per la mia strada. Dopo qualche passo, sento l’altra che dice, ad alta voce:
«Lascialo perdere, quello è un frocio». Mi volto e ribatto:
«Frocio è tuo padre e tuo nonno e tutti i tuoi fratelli. Che cazzo vuoi da me?».
«Morto di fame, fasullo, pidocchioso! Vai a prenderlo nel culo! Fallito! Stattene chiuso in casa se non hai un soldo! Frocio!».
È evidente: non sopportano di perdere il loro tempo. Continuo a camminare lentamente. Guardo la fauna di prostitute, ubriachi, travestiti, poliziotti, vecchi mendicanti e penso a Molto cuore. Negli ultimi giorni penso troppo spesso al romanzo da scrivere. Mi siedo su una panchina. So bene che non risolverò niente limitandomi a pensarci. Dovrei mettermi alla scrivania, riordinare le migliaia di appunti sparsi, e cominciare. A questo punto mi ricordo che in tasca ho i due pacchetti di erba. E ci sono diversi poliziotti nella zona. Mi incammino verso San Lázaro. Troppo casino nel quartiere, meglio tornare a casina.
Salgo le scale a fatica. Tutto quel rum mi ha segato le gambe. Ah, che coglione, adesso mi ricordo, non ho mangiato niente! Arrivato al settimo busso alla porta di Gloria. Busso varie volte. Alla fine sento che qualcuno viene ad aprire e chiede: “Chi è?”. “Pedro Juan”. La porta si apre. È la madre di Gloria. Le chiedo: “E Gloria?”. La vecchia si mette di traverso sulla soglia e dice, titubante, un po’ nervosa:
«Non sapeva che saresti venuto oggi... sono le tre del mattino».
«E allora?».
«Ecco, è che...».
«Lasciami entrare. C’è qualcuno in camera con lei».
«Parla piano che la svegli. E lo conosci il caratterino di Gloria».
«Non parlo piano neanche per il cazzo! Fammi entrare».
«Pedro Juan, sono le tre del mattino. Lascia che ti spieghi...».
«Non voglio essere costretto a spingerti. Togliti dai piedi e fammi passare».
Nel mezzo del parapiglia arriva Gloria, che esce dalla camera mezza addormentata.
«Cos’è questo bordello?».
«Il bordello lo fa tua madre, che non mi lascia entrare».
Dietro Gloria spunta un uomo. In mutande. Quando lo vedo mi si gela il sangue. Bianco, di bassa statura, e peloso come un orso. Avrà più o meno la mia età. O forse qualche anno di più. Non so cosa dire. Sono paralizzato. È come se mi fosse crollato addosso l’intero condominio. Mi volto e riprendo a salire le scale. La porta si richiude alle mie spalle. Mi sento la persona più sola e umiliata del mondo. Infilo la chiave e intanto gli occhi mi si riempiono di lacrime. Come si può essere così coglioni da innamorarsi di una puttana? Un uomo della mia età dovrebbe comportarsi in modo più assennato. Riflettere, ogni tanto. Quando cazzo imparerò a non innamorarmi? Crollo sul letto senza togliere neppure le scarpe, ripetendo tra me: “Bisogna mantenere le distanze, Pedro Juan, bisogna mantenere le distanze, bisogna mantenere le distanze, bisogna mantenere le distanze”. Poi mi sa-
rei ritrovato seduto al bancone di un accogliente bar degli anni cinquanta. Piuttosto simile allo Sloppy Joe, ma più fine, distinto. La cameriera era Gloria ma non mi conosceva. Gloria, un po’ più anziana, elegante e silenziosa. Sullo sgabello accanto al mio, se ne stava seduto un tipo che assomigliava a Humphrey Bogart, e beveva whisky con ghiaccio. Aveva lo sguardo perso e restava indifferente a tutto. Forse era davvero Bogart. Sembrava di essere in un film. Il taglio di luce accentuava i colori caldi e le ombre. Gloria, un po’ più alta e magra, dall’atteggiamento discreto, mi pareva ancora più desiderabile. Mi ha servito un sandwich caldo, con un odore appetitoso, pane tostato, prosciutto, formaggio e cetriolini. Avevo una fame tremenda e l’ho divorato. Bevevo birra alla bottiglia e mi sentivo benissimo, in quel film, dove mangiavo e bevevo in silenzio, però non era esattamente un film. Soltanto Gloria, Humphrey Bogart e io. A un certo punto ho sentito la musica. Il Prélude à l’après-midi d’un faune, di Debussy. Non so cos’altro sia successo. Non mi ricordo.