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Mi sveglio che sono ormai le undici. Il sole batte forte sul fibrocemento del tetto. La stanza è un forno. Mi alzo e vado ad aprire porte e finestre. Siamo in febbraio ma fa caldo come in agosto. Il mare è una tavola e non tira un filo d’aria. Calma piatta. Se la svedese avesse vinto alla lotteria, adesso starei navigando su uno yacht a vela nel Mar dei Caraibi anziché avere dei conti in sospeso con i neri dell’Okinawa. All’inferno, va bene così, se non altro mi sono portato duecento

aspirine dalla Germania. Ne inghiotto due con un bicchiere d’acqua. Meglio che niente. Non ho uno yacht svedese ma sono pur sempre proprietario di duecento aspirine tedesche. Centonovantotto, per essere precisi. I postumi della sbronza sono tremendi. Quel rum era acido allo stato puro. Mi ha corroso le budella. Quando cazzo faranno una buona aguardiente per i poveri della terra, quelli con cui voglio condividere la sorte, come dice la vecchia canzone? Ho un gran mal di testa, sete e fame. Preparo un caffè ed esco in terrazza. Mi piace il mare in calma piatta. Uno dei periodi migliori della mia vita è stato quando dedicavo molto tempo a pagaiare sui kayak a Matanzas. Come sportivo ero ignorante e rozzo. Una garanzia, per la tranquillità spirituale. Sto bevendo il caffè in terrazza e osservo il mare calmo, e a un certo punto cominciano a svolazzarmi intorno le farfalle. Migliaia di farfalle. Vengono dal mare, volano da nordest. Forse sono addirittura centinaia di migliaia. Avranno attraversato le novanta miglia che ci separano dalla Florida? Così sembra. Sorvolano velocemente l’edificio e si dirigono verso sud. Puntano sui campi a sud della città. I colori brillano al sole. Non pensavo potesse esistere un simile fenomeno. Che bello! Il caffè amaro mi rianima. E sento i braccialetti di Gloria. Tintinnano come serpenti a sonagli. Mi affaccio sul vano del cortile e la vedo attraverso le finestre. Ma più sotto, al sesto piano, un cane mi scorge e si mette ad abbaiare guardando verso l’alto. Al quinto c’è una nuova vicina che stende i panni. Una mulatta sui vent’anni, e il marito è un italiano di sessantacinque. Formano una bella coppia. Il tipo le ha fatto ristrutturare l’appartamento e adesso se la passa da regina. Quel cane merdoso continua ad abbaiare come se lo stessero scannando.

Gloria pulisce il pavimento in tutta tranquillità. Fa la finta tonta. Qualche giorno fa un ragazzo le ha detto per strada: “Piccola, hai la pornografia stampata in faccia. Non puoi tenerla nascosta”. Appena rientrata me l’ha raccontato subito, con l’aria da santarellina, e mi ha chiesto: “Perché mi avrà detto così, papi?”. Adesso la chiamo: “Gloria!”. Mi guarda sorridendo e manda un bacio al volo. Ha questa perversa facoltà di ferire con una mano e guarire con l’altra. Le faccio segno di venire su. Due minuti dopo è già qui. È più cinica di me. Arriva sorridendo, con una sigaretta in mano e chiedendo del caffè.

«Caffè un cazzo, Gloria. Non c’è caffè».

«Ah, per favore, non fare la faccia cattiva perché di me non te ne importa niente».

«No? E allora a chi gliene importerebbe qualcosa?».

«A me».

«Si può sapere chi accidenti era quel tipo? Anzi, non era. È. Perché è ancora vivo».

«Lo vuoi ammazzare?».

«Se me lo ritrovo tra i piedi, potrei anche dargli una coltellata. Dove capita, capita».

«Stai parlando sul serio?».

«E mi piace tirare alla gola. Così si dissangua nel giro di un minuto. Io non perdo tempo».

«Ah, non dire queste cose! Gesù, Giuseppe e Maria». Si bacia le nocche e tocca legno.

«Gloria, sono stato in galera due volte. Per stronzate. Non me ne frega niente di tornarci».

«Non stai parlando seriamente. Non posso credere che...».

«Ah ah ah. Sto scherzando. Certo, se mi becca in un momento di incazzatura, allora potrei anche toglierlo di mezzo, con un bel taglio alla carotide, per

non lasciare tracce. Una coltellata alla carotide non gli darebbe neppure il tempo di dire: “È stato Pedro Juan”. Ah ah ah. Ma così, a freddo, no. Mi credi forse un assassino? Ti sembro pazzo fino a questo punto?».

«Pazzo lo diventerai con quei romanzetti che scrivi, ma non con me, papi, tu hai l’anima del magnaccia».

«Ma no, no».

«Sì, sì! Chi mi ha procurato tutti quei turisti stranieri? I due italiani, il tedesco, il messicano, i due spagnoli, quell’austriaco imbecilloide...».

«Ah, basta, piantala».

«Adesso vorresti scordarlo, non vuoi che si sappia, ma eri tu a procurarmeli, papi, e dicevi: “Prendi quel tipo e fagli scucire qualche verdone”. È vero o no?».

«L’ho fatto per aiutarti. Ma è un sacco di tempo che non ti procuro più nessuno».

«Io lo so che era per darmi una mano, però me li sono dovuti fare tutti. Lì, nel mio lettino da signorina senza marito. E tutta la messinscena, e metti il preservativo e togli il preservativo e mettilo e toglilo, ah ah ah».

«Sì, quelli che ti trovavo io, più tutti gli altri che rimorchiavi da sola. E quelli che ti procura tua cugina, al Palermo».

«Sono fatti miei. E lascia in pace mia cugina. Ti sto parlando di quelli che mi hai infilato nel letto tu. Per dimostrarti che sei un pappone e che io non ti interesso seriamente. Non te ne frega niente se scopo soltanto con te o con altri duecento».

«Ti ho mai preso soldi, forse?».

«No».

«Ti ho mai chiesto qualcosa?».

«No».

«Allora come potrei essere stato il tuo magnaccia?».

«Perché non ne hai bisogno».

«Ah, non credere. Se fossi con le spalle al muro, ti spedirei sul Malecón tutte le sere. Ne ho combinate di tutti i colori, per tirare a campare. Quindi, non cantare vittoria troppo presto».

«Ahh... lo vedi, che sei il mio magnaccino. Non fare tanto l’innocente e puro con me».

«Lo faresti o no?».

«Per te sì, papi. Per te farei qualsiasi cosa. Quello che vuoi. Con gli uomini bisogna essere così».

«Con gli uomini no, Gloria. Con me».

«Siete tutti uguali. Sai cosa mi ha detto ieri mio figlio?».

«No».

«Gli ho detto che intendo ricominciare a ballare. In un bar qualsiasi. E mi ha chiesto: “Nuda davanti agli uomini?”. E io: “Nuda, no. In bikini”. E lui mi fa un muso lungo così e dice: “Non provarci neppure perché vengo lì e ti tiro fuori per i capelli e ti riporto a casa. E poi non ti parlo più”».

«Quello sì che è un macho!».

«Anche troppo! Ha soltanto sei anni e mi dice già cose simili. Non so che ne sarà della mia vita. Mio padre mi ha impedito di continuare a ballare. Tu non vuoi e persino mio figlio mi minaccia».

«Leggiti Simone de Beauvoir e scatena una rivoluzione».

«Che roba sarebbe?».

«Niente, niente».

Rimaniamo in silenzio per qualche istante.

«Mi avevi detto che saresti andata a lavorare in ospedale».

«Ah, non parlarmene! Che schifo, ripugnante, una fregatura!».

«Perché?».

«Ma vaffanculo! Sono pezzi di gente morta, dentro barattoli di conserva. Che schifo!».

«Nell’obitorio dell’ospedale?».

«Quella è una bottega degli orrori, sembra un film di Frankenstein. Ah, mamma mia! Barattoli di vetro con occhi, lingue, pezzi di cuore, mani intere, cervelli, ossa, orecchie. Portano quella roba con un carrello. Io dovrei prenderli, annotarli su un registro e metterli in ordine negli armadi. Ma da un sacco di tempo non hanno più impiegati perché pagano la miseria di duecento pesos al mese. Chi cazzo andrebbe mai a lavorare lì, a fare il Dracula per dieci merdosi dollari al mese?».

«Be’, il fatto è che tu sei molto impressionabile...».

«No, no, tu al posto mio non ci entreresti nemmeno. Tu al massimo arrivi sulla porta e poi te ne vai subito. C’erano cinquecento flaconi imputriditi. Dunque, avrei dovuto tirare fuori tutti quei pezzi marci di persone, bruciarli, lavare i contenitori e sterilizzarli per poi riusarli. No, no, no!».

«In effetti pagano troppo poco».

«Neanche per mille pesos al mese. Non lo farò mai. Sono rimasta lì due ore e poi me ne sono andata. E c’era una puzza che adesso dovrò lavarmi per una settimana di seguito!».

«Non sei adatta per certe cose».

«E lì dentro i morti girano avanti e indietro. Entravano e uscivano. Sempre gli stessi. Erano quattro».

«Ma che stai dicendo, Gloria?».

«Ahi, papi, te l’ho già raccontato altre volte. Io vedo i morti. Ogni tanto. Non mi piace, ma è così. Spiriti oscuri che non riescono a levarsi in volo. Nelle due ore che sono rimasta lì, ho visto quattro spiriti

che vagavano. Giravano senza sosta, come se si fossero smarriti».

«Questa è una tua fantasia. Hai una grande immaginazione».

«Non me ne frega niente se mi credi o no, però dovevo dirtelo. So che almeno tu non mi prendi in giro». Le verso un caffè. Lo beve e si accende una sigaretta. Rimane a fissare il pavimento, pensierosa, e

poi dice:

«Lasciami andare a ballare al Palermo».

«No».

«Va bene. Io devo pensare alla mia vita, perché con te, tanto amore, affetto, l’uccello più godurioso del mondo, ma io e mio figlio...».

«Sì, lo so. I soldi».

«E Tony Pelú è un cesso. Mi fa uno schifo che non lo sopporto. Ogni volta che me lo vedo sopra e mi infila dentro il cazzo con quei modi da selvaggio! Mi viene voglia di dargli un calcio e togliermelo di dosso. E ha il coraggio di chiedermi: “Perché hai la fichina così secca?”. Però devo sopportarlo perché lui mi si è avvicinato, gentilmente, e mi ha detto che potrebbe darmi ottanta o addirittura cento pesos la settimana. È una persona molto corretta».

«Senti, adesso ne ho abbastanza! Non parlarmi più di quell’imbecille».

«Ah, non fare tanto il duro che stanotte te ne sei andato via piangendo».

«Piangere, io? Io?!».

«Sì, tu, proprio tu! Piangevi come una bambina. Credi che non me ne sia accorta? Ti sei voltato svignandotela di corsa per non farti vedere».

«Ti piace, vero? Ti piace che gli uomini piangano per te».

«Non dire così, papi».

«E come dovrei dirlo?».

«In modo più gentile».

«Quando te lo meriterai. Finché sei una battona...». Squilla il telefono. È Agneta. Mi chiama una o due volte la settimana. Vuole che torni a Stoccolma in estate. Oppure verrà lei a Cuba. Non mi alletta nes-

suna delle due cose. Adesso, tutta allegra, mi dice:

«Ho una sorpresa per te».

«Di cosa si tratta?».

«Ho prenotato un volo, per venire a Cuba tra venti giorni».

«Cazzo, che fretta, mamita!».

«Come hai detto? Piano, per favore».

«Ho detto che me ne rallegro».

«Soltanto per quindici giorni. Sono pochi, però...».

«Mi sembrano sufficienti, okay».

«Non è ancora sicuro. Non ho neanche pagato il biglietto».

«Perché?».

«Ho paura».

«Di cosa?».

«Di venire a Cuba. Da te. Non so bene che fare». Scambiamo due chiacchiere e poi ci salutiamo.

«Come sei sdolcinato, con la svedese. E secondo te la stai solo sfruttando per i suoi soldi. Se fosse una storia d’amore, in effetti, ti saresti sparato una sega al telefono».

«Piantala con le stronzate, Gloria».

«Che dice la signorina svedese, così fine ed educata?».

«Ah, che due coglioni...!».

«Di cosa ti preoccupi? Ha deciso di suicidarsi per amore?».

«Peggio».

«Cioè?».

«Dice che forse verrà qui tra venti giorni».

«Ah sì? Non dirmi che l’idillio sta per riprendere».

«Non fare la moglie gelosa, tu che stai con Tony Pelú e te lo porti addirittura a casa. E quella ruffiana di tua madre ti copre e fa la finta tonta».

«Lascia in pace mia madre. Lei è una brava donna».

«Sì, come no, tua madre e tua sorella sono due santarelline. E l’unica pecora nera della famiglia sarebbe toccata proprio a me?».

«Se io non fossi quella che sono, a quest’ora saremmo in mezzo alla strada a chiedere l’elemosina. Tu neanche te l’immagini in che famiglia di fessi sono nata».

«Cazzo, però ti porti a casa tutti i maschi che trovi in giro, per puro esibizionismo».

«Io non sono una donna di strada. Tutti i miei uomini li faccio venire a casa, però mio marito sei tu. Tony mi serve per i soldi. Per lui la faccenda è chiara. Paga, e io gli lascio infilare l’uccello ogni tanto. E neppure può scegliere quando, perché le scopate sono razionate e tengo anche il conto».

«Ahh, non fare la spiritosa».

«E tu non fare lo scemo. Tutte le donne si comportano così».

«Non tutte».

«Ma sì, tutte. Qualcuna ha fortuna e con un solo marito risolve entrambi i problemi, amore e denaro. Ma la maggior parte ne hanno due: un uomo per il piacere e un altro per i soldi».

«Cazzo, ma quanto sei intelligente, oggi. Da quando in qua usi il cervello?».

«Da tutta la vita. Di solo amore non vive nessuno.

Hai mai sentito dire amore, salute e denaro?».

«Gloria, Gloria, quando fai l’intelligentona sei un disastro!».

«Cazzo, sei tanto colto e poi non sai queste cose?

C’è scritto nella Bibbia».

«Cos’è che starebbe scritto nella Bibbia?».

«Questo: amore, salute e denaro».

«Gloria, non raccontare balle. In quale punto della Bibbia sarebbe?».

«Adesso non mi ricordo. Cercalo tu. Ma non cambiare discorso: la svedese qui non ce la voglio».

«Sei gelosa?».

«Sì, certo. Tu sei mio marito! Il mio uomo! Se quella svedese viene qui le sguinzaglio dietro quattro neri cazzo-lungo, che la faranno uscire di testa, non le lasceranno addosso neppure le scarpe, oltre a ripulirla fino all’ultimo dollaro, e dovrà tornarsene a casa nuda e battendo i denti dal freddo, ah ah ah. Falla venire, e vedrai. Non gliel’hai detto che hai già una donna e che con me stai per mettere su famiglia?».

«Gloria, accidenti a te e a tua madre, calmati».

«So già quali stalloni neri aizzarle contro. Le toglieranno la voglia di tornare a Cuba».

«Gloria, Gloria, Gloria! Ho ancora la nausea per la sbronza e un mal di testa che non ci vedo, e ho anche sete e fame».

«Hai sete, papi? Vieni, che ti ho tenuto in fresco due birre da ieri sera».

«Ieri sera?».

«Quelle che ha portato Tony Pelú».

«E allora?».

«Ah, papi, lui lavora in uno shopping. Cosa credi, che sia un morto di fame? Al contrario! È un tipo ge-

neroso e se la passa bene, fa la bella vita, lui. Oltre ai soldi in tasca, arriva sempre con saponette, shampo, birre, bibite e biscotti per il bambino...».

«Tutta roba che frega».

«Ah, sì. Magari avessi un lavoro simile per le mani. Non ti farei mancare niente. Ruberei l’intero negozio per te!».

«Piantala, Gloria, sembri un disco rotto».

«Ahi, tesoro, non trattarmi così. Dài, andiamo a casa mia. Ti bevi un paio di birre fresche e ti passa tutto».

«No. C’è tua madre, mi vergogno».

«E perché?».

«Dirà che sono un cornuto».

«Ah, tesoro, andiamo in camera mia e vedrai. Il cornuto è Tony. E lo sa. Tu-sei-il-mio-ma-schio-ne-mioma-ri-to-il-mio-pa-pi-il-mio-bam-bi-no-pic-co-li-no. Ah ah ah. Ti farò vedere una cosa che ti piacerà».

Scendiamo. La casa è tranquilla. Un suo cugino alleva piccioni viaggiatori sul balcone. Ci salutiamo e chiacchieriamo un po’. Tutti nel quartiere allevano piccioni e se li fregano a vicenda con le trappole. Un sacco di gente ci campa. Rubano i piccioni agli altri allevatori e li rivendono. Soprattutto per la santeria. Su molte terrazze ci sono piccionaie. Ne approfitto per giocarmi i numeri del sogno di stanotte. Il cugino raccoglie le scommesse. Punto due pesos sul 44, la birra. E cinque pesos sul 65, il mangiare. Gloria dice:

«Gioca cinque pesos sul 49».

«Perché il 49?».

«L’ubriaco».

«Chi sarebbe l’ubriaco?».

«Humphrey Bogart. Hai sognato tre numeri, papi, vedrai che stasera usciranno».

Ha un letto grande e comodo. Sono venuti direttamente qui dalla stanzetta di quattro metri per quattro dove stavano prima. La madre di Gloria si è presa cura per anni di una vecchietta che viveva da sola in questo appartamento. Una notte, durante un’interruzione della corrente che si era protratta per ore, la vecchia – aveva già ottantadue anni – si spaventò molto per il buio e anche per via di suo marito, morto da ventidue anni. Diceva che il defunto veniva a trovarla diverse volte al giorno e bussava alla porta e la chiamava per nome. Morì tremando di paura, per un aneurisma cerebrale. Lasciò l’appartamento alla madre di Gloria, stando a un testamento legalmente valido che sarebbe saltato fuori tre giorni dopo la sua morte. Adesso Gloria ha una stanza tutta per lei e suo figlio. Con tanto di balconi e grandi finestre con vista sul Malecón.

L’edificio è del 1927. Sono almeno quarant’anni che non viene restaurato, neppure ridipinto. È in rovina. Cartoni e assi di legno al posto dei vetri alle finestre. Le pareti e il soffitto coperti di fuliggine e ragnatele, i mobili degli anni trenta che cascano a pezzi. Mucchi di panni vecchi, le molle dei materassi che pungono la schiena. La cagna dorme sopra un giaciglio di stracci in fondo all’armadio. In un angolo della stanza, ci sono gli orisha di Gloria. Alle pareti campeggiano le immagini della Madonna della Caridad del Cobre, San Lázaro e Santa Bárbara. In una cassettina di legno, Elegguá, Ochún, Changó, i guerrieri, le offerte a Orula. La gitana la tiene da una parte, in un posto privilegiato, davanti alla porta, in modo che vegli sull’ingresso.

Vado sul balcone per vedere i piccioni e parlare con suo cugino. Anch’io, per qualche tempo, ho tira-

to avanti vendendo piccioni e conchiglie per la santeria. Gloria mi porta una birra ghiacciata e mi fa entrare in camera:

«Guarda, papi, per farti vedere che tu sei il mio unico uomo, il mio supermacho».

L’altarino degli orisha e dei santi è in un angolo della stanza. Tra le immaginette ci sono diverse foto mie, a colori, ritagliate da giornali e riviste. Me li ha chiesti lei quegli articoli e interviste. Pensavo volesse tenerle per ricordo. Invece no. Ha ritagliato le fotografie per poi incollarle sul cartoncino. È molto strano. Non potevo immaginarlo. Io, tra le immaginette di Gesù Cristo, Santa Bárbara, San Lázaro, San Giuda Taddeo.

«E quelle, Gloria? Ma sei matta?».

«No, perché?».

«Cosa ci faccio tra i santi?».

«Tesorino mio, tu sei un santo e un demonio al tempo stesso. Ti ho messo la Caridad del Cobre sopra, perché ti protegga sempre e non ti abbandoni».

«Mhm, bene...».

Se non si sa cosa dire è meglio stare zitti. Chiudiamo la porta. Ci spogliamo e giochiamo un po’ sul letto. Con grande tenerezza. Lei si lascia andare. Il bambino ci interrompe tre o quattro volte. Bussa alla porta ricorrendo a qualsiasi pretesto. Viene a chiedere un asciugamano, un paio di pantaloncini. Alla fine dice a Gloria, attraverso la porta chiusa:

«Mamma, gliel’hai detto?».

«No, Armandito. Non rompere le scatole e lasciaci in pace, accidenti!».

Sembra che il bambino se ne sia andato. Chiedo a Gloria:

«Armandito non dovrebbe essere a scuola?».

«Oggi è sabato».

«Che vuole?».

«Un fratellino».

«Ah sì? E tu?».

«Io ne voglio tre o quattro».

«Non dire cazzate, Gloria».

«Te l’ho sempre detto. Voglio un figlio da te».

«Forse uno, ma tre o quattro no di sicuro».

«Intanto facciamo il primo, e poi vedremo».

A questo punto torna Armandito a interromperci nuovamente. Ha preparato delle meringhe. Ce ne porta un piatto. Gloria per prima cosa ne offre due agli orisha. Poi ci mangiamo le altre. La guardo succhiarsi le dita sporche di meringhe. Mi piacciono le sue mani, trasandate, rovinate dai detersivi.

«Mi piacciono le tue mani».

«Ma se sono bruttissime».

«Non mi piacciono le cose belle, perfette, pulite.

Tu lo sai».

«Me lo dici sempre, ma non ti capisco».

«Le tue mani emanano vita vissuta».

«Ho lavorato molto».

«Oltre a fare la puttana?».

«Ah, Pedro, non fare lo stupido. Mi riferivo al lavoro vero. Nelle caffetterie e nelle case di gente danarosa. Nel Vedado e a Miramar. Pulizie, lavaggio di panni e piatti».

«Sì, tutto meno che la cuoca».

«E come lo sai?».

«Perché in cucina sei un disastro».

«Nessuno me l’ha mai insegnato».

«Non hai potuto imparare a cucinare. Quando è cominciata questa crisi avevi vent’anni, quindi al massimo hai preparato riso e fagioli, nient’altro».

«Me la cavo bene se ci sono riso e fagioli».

«Ma così non è possibile imparare a cucinare».

«Tu invece sei molto bravo».

«Io sono più vecchio. Ho avuto più tempo a disposizione. Quando in questo paese la gente potrà disporre di vari ingredienti, imparerai. La questione è avere una certa varietà a portata di mano».

«Mi insegnerai?».

«Certo. Intanto trovati un lavoro in qualche caffetteria, così mandi affanculo Tony Pelú».

«Ah, sempre la stessa storia».

«Come sarebbe a dire la stessa storia?».

«Pedro, ho lavorato in almeno... dieci o dodici caffetterie. Gli amministratori sono tutti uguali. L’unica cosa che vogliono da me è scoparmi. Mi offrono un lavoro e poi pretendono di scoparmi tutti i giorni. Finché non si stufano. Allora inventano un pretesto qualsiasi, mi licenziano e tengono il posto libero per trovarsi un’altra che gli piace e ricominciano da capo. E succede la stessa cosa se vado a ballare in un club o in un cabaret, o se lavoro per gente danarosa che abita al Nuevo Vedado o a Miramar. Tutti prima o poi vogliono scoparmi».

«Non sono tutti uguali. Suppongo che...».

«Hai mai lavorato in una caffetteria? Hai mai fatto la cameriera a Miramar? E la ballerina?».

«No».

«Allora non parlare di cose che non conosci».

«Uhhh».

«Gli uomini sono dei porci e se ne approfittano sempre. Per questo mi piace sottometterli e ripulirli a dovere».

«Anche a me?».

«No, te no. Ti voglio troppo bene, però non so cosa pensare».

«Non lo sai ancora?».

«Non lo so. A volte ti credo e a volte no».

«Ti voglio un mare di bene».

«Anch’io, ma non so cosa pensare di te».

«Insomma...».

«Ormai sono scafata, Pedro Juan. Tutti fanno un sacco di promesse e alla fine quello che vogliono è soltanto scopare, venire e poi riprendere la propria strada. Si scordano di me all’indomani stesso. E se una resta incinta, dicono che non è il loro. Ma lo sai quanti aborti ho fatto?».

«No».

«Due prima di avere mio figlio. E tre dopo. Perché voi venite dentro senza neppure pensarci e poi una deve... ahhh, perché perdere tempo a parlarne?».

«Hai il cuore di pietra».

«Forse».

«Ti hanno fatto del male e tu ne hai fatto a tua volta».

«Sei molto affettuoso, papi, ma hai l’anima del magnaccia e del figlio di puttana. Ti piacciono le battone e la feccia. Mi confondi».

«Anch’io sono confuso».

«Tu non sai quello che vuoi, Pedro Juan».

«Nessuno sa cosa vuole, a questo mondo. Viviamo nel caos e nella confusione».

«È vero. A volte mi sento persa e non so cosa faccio né perché lo faccio».

«Non hai mai avuto un uomo come me: assassino, squartatore di donne, sadico, pervertito. È per questo che scrivo romanzi. Scrivo quello che vorrei fare nella vita reale: Gloria arrosto per pranzo».

«Che orrore, Dio mio! Adesso devo andare, scellerato, ma ogni giorno che passa ti amo di più».