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Ho vinto ottanta pesos con il 49. Humphrey Bogart mi ha portato fortuna. Gli altri numeri non sono usciti. Mi è toccato andare a riscuotere a casa dell’allibratore, in un vicolo dietro l’università. Mi ha fatto aspettare un po’, in piedi, sulla porta. Quando si tratta di pagare se la prendono sempre comoda. All’angolo c’erano due enormi cartelli. Uno diceva a caratteri giganteschi: “Dobbiamo costruire un partito d’acciaio”. Sull’altro comparivano alcune mulatte che ballavano e annunciava: “Havana Night. World Tour 1999-2000”. E sopra le mulatte, in rosso: “Made in Cuba-Made in Cuba-Made in Cuba-Made in”. Quando ho potuto finalmente incassare gli ottanta pesos sono tornato a casa. Non avevo niente da fare, come sempre. Stava calando la notte e l’angolo tra San Lázaro e Perseverancia era buio e tranquillo. Saranno state le otto. Poliziotti a ogni angolo. Silenzio e pace.

All’improvviso salta fuori una nera che fa un gran chiasso. Era con un mulatto della regione orientale, magro, denutrito, ubriaco fradicio. Il tipo, a braccia incrociate e senza aprire bocca, si è appoggiato al muro. E la nera sbraitava:

«Andiamo, dài, su, non fermarti qui! Andiamo, andiamo, dobbiamo andare, dobbiamo andare!».

Il tipo la guardava ma di sicuro vedeva quattro nere davanti agli occhi. Aveva trangugiato tanto alcol da non capire più niente. Tre poliziotti osservavano la scena da lontano. La nera li sbirciava e continuava a strillare come se la stessero scorticando viva:

«Muoviti, cammina, dài, non fermarti!».

Lo schiaffeggiava e lo spintonava. Il mulatto ha la-

sciato cadere le braccia e con una voce sfinita le ha detto:

«Vattene. Lasciami in pace».

È stata come un’esplosione. La nera ha cominciato a spingerlo e a urlare ancora più forte, come se fosse impazzita. Voleva buttarlo a terra, completamente isterica. Un poliziotto si è avvicinato.

«Cittadino, che succede?».

Il tipo guarda il poliziotto spalancando gli occhi, con un’espressione di stupore. Fa uno sforzo e riesce ad articolare:

«Voglio che mi lasci in pace».

La donna continua a spintonarlo e a strillare:

«Andiamo, muoviti, non puoi restare qui, non puoi!».

Il poliziotto insiste:

«Cittadino, glielo chiedo di nuovo, cosa succede?».

Il tipo sembra anestetizzato. Non risponde. La donna alza ancora di più il tono della voce:

«Lo vede? È un bel problema. Una testa dura. Non so come ho fatto a sposarmelo. Non capisco! Non imparerò mai!».

Il poliziotto, senza scomporsi:

«Cittadino, per la terza volta, cosa succede? E mi dia un documento d’identità».

L’uomo anestetizzato guarda il poliziotto con occhi vitrei. Fruga nel taschino della camicia, porge il documento e torna a incrociare le braccia. Il poliziotto prende la carta d’identità, si allontana di qualche passo e comunica via radio i dati alla centrale. Gli altri due agenti osservano la scena a quattro metri di distanza. La donna continua a sbraitare:

«Lo vede? Ma lo vede? È un testone». Il poliziotto le chiede:

«È suo marito?».

«È un testone. Lo vede? Sempre così. È un problema continuo».

Il mulatto resta in silenzio, a braccia incrociate, appoggiato al muro. Arriva una volante e si ferma. Il poliziotto infila l’uomo nell’auto e se lo portano via. La nera si incammina tranquillamente dicendo al poliziotto:

«Ecco cosa dovevate fare. Ben fatto. Che dorma in commissariato. È un testone, un testone!».

L’agente si avvicina agli altri due e insieme commentano l’accaduto a bassa voce. Ci siamo fermati in quattro o cinque a guardare la scena e adesso ognuno riprende la propria strada. Entro nel mio condominio e salgo le scale. Penso sempre la stessa cosa quando salgo questi gradini: “Dobbiamo essere positivi, Pedrito, fa bene al cuore. Forza, sali su, da bravo ragazzo”. Otto piani. Arrivo all’ultimo. Che faccio? Non ho rum. Metto il Requiem di Mozart. Introitus: Requiem aeternam. Ne ascolto ancora un po’. Kyrie eleison. Dies irae. Cazzo, no! Troppo forte! Mi distrugge. Tolgo il disco dal piatto. Metto Celine Dion. Ne ascolto qualche minuto. È l’esatto contrario. Spengo lo stereo. Esco sulla terrazza. Il mare è scuro e spira un vento freddo da nordest. Sono ansioso. Non ho niente da fare. Nulla a cui pensare. La solitudine e l’inquietudine e il non sapere. Non capire. Rimetto Mozart. Rex Tremendae. Confutatis Maledictis.

Bussano alla porta. Apro. È un tipo strano, magrissimo, barba e capelli lunghi e un paio di occhiali tondi e scuri, alla John Lennon. Vestito completamente di nero. Ha una voce profonda, professionale, e dice:

«Pedro Juan?».

«Sì».

«Sono Baltasar Fontana, regista cinematografico».

«Ahh... entra».

Dall’accento mi sembra spagnolo. Dev’essere Baltasar Fuentes. Chissà perché ha un cognome italiano. Non perde tempo in preamboli. Si siede e parte a raffica:

«Ho letto il tuo libro e mi è piaciuto. Era come vedere il film e credo che potremmo lavorare insieme. Ho appena finito di girare qui un mediometraggio». Lo guardo e l’ascolto pensando: “È una gran rottura di palle abitare in centro. Che cazzo vuole questo tizio?”. Baltasar continua a parlare, con Mozart

di sottofondo:

«Voglio fare un road movie. Un tipo giovane, sui sedici anni. Compra un’auto e parte in giro per Cuba. Dall’Avana a Santiago. È un tipo ribelle. In conflitto con i genitori. E torna all’Avana da vincitore. La macchina dev’essere un modello classico: Chevrolet anni cinquanta, per esempio. Alla fine il tipo trionfa. Voglio un lieto fine».

«E che altro?».

«Questo, questo. Un road movie».

«No, no. Temo di no».

«Pensaci. Il tuo libro mi è proprio piaciuto».

«Vuoi un caffè?».

«Eh?».

«Vuoi un caffè?».

«Dell’acqua, per favore».

Gli verso un bicchiere d’acqua e resto in silenzio. Non ho niente da dire. Spero che si beva l’acqua e poi se ne vada. Invece no. L’acqua sembra ridargli energia e diventa ancora più loquace. Mi racconta l’intera trama del film che ha appena girato a Cuba. Adesso è

in fase di montaggio. È la storia di una bella mulatta che fa la santera e vive in una graziosa casa sul mare, davanti a una spiaggia tropicale, e in sogno le compaiono castelli del Medioevo e scene delle Crociate. Allora si trasferisce in quell’epoca e ha una storia d’amore con un cavaliere errante. Alla fine del sogno si ritrova con il cavaliere trasformato in un uomo dell’attualità, e al crepuscolo i due passeggiano lungo la spiaggia. Baltasar conclude dicendo:

«È un bel film. Bellissimo».

«Potevi girarlo alle Hawaii».

«Qui costa molto meno. Ma molto».

«Ah. E ti vengono in mente diverse trame come questa?».

«È difficile. Trovare una buona trama è difficile».

«Ti piacerebbe adattare alcuni dei miei racconti?».

«No, no. Troppo sesso».

«La gente è uguale da tutte le parti. Il sesso è una cosa normale».

«Sì, è vero. Ti voglio confessare una cosa: io vivo a Madrid e dopo aver letto il tuo libro ho fatto un esperimento. Ho messo un annuncio su un giornale nazionale, a larga diffusione. E ho sborsato una bella cifra per farlo pubblicare tre giorni di seguito. Diceva: “Vecchia. 62 anni. Potrei essere tua nonna. Ti farò godere come neanche te lo immagini. 10 mila tutto compreso. Rosa María”. E il numero di telefono. Ho sistemato una segreteria telefonica con la voce di Rosa María. In una settimana la nonnina ha ricevuto quarantatré richieste, registrate nella segreteria. E altri diciotto hanno riattaccato senza lasciare un messaggio».

«Potresti fare un film sull’argomento. Dal titolo La vecchietta erotica».

«No. Sarebbe pornografico. Io sono un artista. Voglio girare un road movie a Cuba. E mi piacerebbe che il ragazzo ascoltasse Lou Reed».

«A Cuba non lo conosce nessuno, Lou Reed. E i ragazzi di sedici anni non possono comprarsi una macchina. Nel tuo film non comparirebbe mai una vecchia e non ci sarebbe sesso. La storia di te stesso e del tuo travaglio interiore. Dell’esperimento che hai fatto a Madrid. I titoli vengono concepiti appositamente per confondere il pubblico».

Mozart stava concludendo l’Agnus Dei e attaccava con vigore Lux aeterna. Resto in silenzio. Voglio che comprenda che ne ho abbastanza. E infatti lo capisce. Mi lascia il suo telefono e l’e-mail. Ci salutiamo. Chiude la porta. Strappo il foglietto con il numero e l’indirizzo e ascolto il finale di Lux aeterna.

Scendo dabbasso e mi siedo sul muro del Malecón. Il vento freddo da nordest non è calato e le mareggiate lambiscono il muraglione. C’è un tipo solitario di fronte al mare, che suona il sassofono. Sta provando delle scale. A un certo punto attacca con del jazz. Lento e malinconico. Improvvisa. Nella luce rosata del Malecón, nel silenzio e nella solitudine della notte spazzata dal vento freddo. Una scena irreale, il tipo che suona un jazz lento e la musica che si disperde nell’infinito del mare e della notte. Ecco il bello della realtà: può concedersi lussi che sono proibiti agli scrittori. La realtà non è obbligata a essere convincente. Reprimo il desiderio di prendere appunti sulla scena e sull’atmosfera da usare per Molto cuore. Sarebbe troppo difficile strapparla alla realtà e renderla credibile sul foglio scritto. Non posso complicarmi tanto la vita con quel fottuto romanzo. Reprimo anche il desiderio di andare a El Mundo a bere rum da

quattro soldi distillato dal petrolio. Non voglio più sopportare quelle schifose sbronze tutte le notti. Reprimo il desiderio di andare da Gloria a quest’ora. Starà battendo da qualche parte.

Vado a letto presto ridotto a un groviglio di repressioni varie. Mi sveglio alle cinque e mezzo con l’uccello dritto come un palo. Non ho più sonno. Ci giocherello un po’. Non mi masturbo fino a venire. Un uomo di cinquant’anni diventa ogni giorno più parsimonioso e accorto. Mi controllo e mi alzo. Vorrei riordinare gli appunti di Molto cuore. So come cominciare ma non ho un’idea del finale. Così non riesco a scrivere. Devo sapere dove va a parare Gloria. Rimetto via gli appunti e decido di dipingere un po’. Alle sette sento i suoi braccialetti. Sta trafficando in cucina. Mi affaccio. Attraverso un vetro rotto della finestra vedo solo le sue mani. Quanto mi piacciono. Davvero tanto. È eccitante vederla lavorare, preparare il caffè. La chiamo e mi risponde:

«Porto il bambino a scuola. Poi salgo».

Alle nove, finalmente, viene da me. Ha con sé un opuscolo: Oroscopo del 2000. Legge il mio segno:

«Senti, papi, cosa dice dell’Acquario: “In modo malefico si rivelerà un incorreggibile utopista, o un pervertito, pericoloso, privo di scrupoli e sentimenti, di una cattiveria glaciale”».

«Cazzo, Gloria, non dire stronzate! Io non sono così!».

«Non sei così?! Ma tu sei peggio!».

«Andiamo a Mantilla. Voglio farti fare il tatuaggio».

«No, no. E se mi attaccano l’Aids?».

«Se non hai preso l’Aids finora, con tutti i tuoi servizi vaginali, orali e manuali...».

«Ah, ragazzo, non esagerare».

«Tu sei immune. Dài, andiamo a Mantilla. Comunque quel tizio sa il fatto suo e usa del buon materiale. Si fa spedire tutto dall’estero: aghi, inchiostri, tutto».

«Mi farà molto male?».

«No».

«Va bene, ma bisognerà portare rum e erba. Lo faccio soltanto da ubriaca».

«Andiamo e non rompere più le palle».

Bussano alla porta. Due architetti incaricati della ristrutturazione. Dobbiamo aspettare che finiscano. Scattano foto, prendono misure, esprimono elogi per l’edificio. Secondo loro sarebbe un classico e non so cos’altro. Uno è italiano. L’altra è una cubanina appena laureata, a quanto dice. Ho l’impressione che stia approfittando della situazione per rimorchiare l’italiano. Magari otterrà una borsa di studio a Roma. Jinetera per fini intellettuali. È evidente che sta seducendo l’italiano. Il tipo è in svantaggio. Viene da Milano. Se fosse stato di Napoli avrebbe sedotto lui la cubanina per poi venirsene a vivere ai tropici. Negli ultimi anni sono passati da qui architetti tedeschi, spagnoli, italiani, francesi. Fanno video e foto. Abitare sul litorale dell’Avana sta diventando un lusso. Poter vedere il Mar dei Caraibi tranquillamente dalla mia terrazza è un privilegio eccessivo. Fino a quando? Per fortuna hanno finito e se ne vanno. Noi partiamo per Mantilla. Scendendo le scale, nel pianerottolo tra il sesto e il quinto piano c’è una gran merda fresca e puzzolente.

«Che due coglioni, la scema ha cacato un’altra volta!».

È Elenita, la ritardata che abita qui sotto. Sale e caca per le scale. Lo fa ormai da anni. Gloria si incazza.

«Adesso glielo faccio vedere io. Aspettami qui».

Va a casa sua. Prende un pezzo di cartone. Torna giù. Raccoglie la merda con il cartone. Scende al piano dove abita la scema e scaglia la cacata contro la porta del suo appartamento. La merda sgocciola e ricade. Una puzza nauseabonda.

«Ogni volta che caca per le scale glielo rifaccio. Vedrai se non impara a rispettare gli altri».

Ci dirigiamo verso Galiano passando dal Parque de la Fraternidad. Ci sono sempre più mendicanti che chiedono l’elemosina. A volte si inventano pretesti ingegnosi. La medaglia d’oro di oggi la vince un mongoloide che sbava senza sosta. Il padre lo fa sedere per terra. Lo sistema contro il muro. Il ragazzo avrà una ventina d’anni. Sembra un fagotto molliccio e scivola lentamente al suolo, come una massa informe. Il padre, pazientemente, lo rimette nella posizione da seduto. E così varie volte. Gli toglie le scarpe. Il poveretto ha i piedi ritorti. A questo punto l’uomo accende intorno al figlio quattro candele e sotto ognuna piazza immaginette di santi e madonnine. Appende al collo del ragazzo un cartello scritto a matita: “Sono invalido. Aiutattemi. A mangiare. Sono vennuto al mondo sensa colpa. Son filio di san lasaro grassie”. Il padre gli mette alcune collane di Obtalá e di Eleguá attorno al polso sinistro e poi si allontana di qualche passo. Osserva la sua opera. Ne è compiaciuto. Sistema un piattino tra le gambe del minorato, lascia cadere qualche moneta nella speranza di attirarne altre, e va a piazzarsi a un paio di metri. La gente comincia a fermarsi per guardare il poveraccio e nel piatto cadono diverse monete. Il padre non perde una mossa. Ogni volta che una candela si spegne, si affretta a riaccenderla. Il ragazzo sembra abbandonato a sé stesso. Hanno ottenuto l’effetto desiderato.

Sono rimasto assorto a osservare la messinscena e le prime persone che gettano qualche spicciolo. Gloria mi riporta alla realtà.

«Intendi rimanere qui tutto il giorno?».

«Povero ragazzo».

«Sono un paio di svergognati».

«Il tipo è ritardato. Non ha colpa se il padre lo sfrutta».

«Ah ah ah. Il ritardato sei tu».

«Non è scemo come sembra?».

«No di certo. Quel mulatto è un gran segaiolo. Quando lavoravo nell’asilo infantile di Trocadero se ne stava sempre lì, con altri tre o quattro segaioli come lui».

«E con chi se le facevano, le seghe?».

«Con noi, papi».

«Cioè?».

«Era giusto per passare il tempo. Ma hanno preso il vizio. Erano in cinque o sei. E quel mulatto era uno del gruppo. Forse è diventato scemo a furia di seghe, quell’imbecille».

«Gloria, hai un cervello sfasato».

«Io?! Gli sfasati erano loro. Si arrampicavano sul muro e ci mostravano i cazzi e noi aprivamo le gambe. E loro, giù con le seghe. Sgranavano gli occhi come matti. Ah ah ah. Tutti i pomeriggi con quella scena. Ci hanno preso il vizio, ah ah ah».

«Non ci trovo niente da ridere. Sei tu la viziosa».

«Ah, papi, era un lavoro noiosissimo. Tutta la giornata a badare ai bambini».

«Allora, non è scemo?».

«Segaiolo, vagabondo e svergognato. E l’altro è il suo socio, mica il padre».

A Mantilla le hanno fatto il tatuaggio sulla spalla de-

stra, vicino alla schiena. Il tipo ha disegnato un cuore in fiamme. Rosso e giallo. Al centro, in blu, ha scritto: “Pedro Juan”. Ci siamo rimasti tre ore. Gloria si è scolata mezza bottiglia di rum. Non le ha fatto male. E poi ce ne siamo andati. Arrivati davanti all’edificio vediamo due ragazzi che escono e scappano via di corsa. Sono due ladri di piccioni del quartiere. Li conosciamo. Ci hanno visto, e se la sono squagliata passandoci accanto come bolidi. Siamo un po’ sbronzi. Poi, sentiamo un gran vociare e affrettiamo il passo. Fuoco al settimo piano, a casa di Gloria. Qualcuno ha lanciato una bottiglia di petrolio con la miccia accesa contro la porta. La madre di Gloria e il cugino hanno tirato qualche secchio d’acqua spegnendolo appena in tempo. La porta è bruciata e c’è rimasto un gran buco. Gloria si è incazzata e ha urlato al cugino:

«Te l’avevo detto di non rubare più i piccioni! Quei ragazzi sono pericolosi!».

«Come fai a dire che sono stati loro?».

«Li ho visti fuggire. Sono stati quei due».

Il cugino non ha risposto. Ha afferrato una spranga di ferro e si è lanciato per le scale come un fulmine.

«Ahi, Pedro Juan, li ammazzerà! Se li prende li ammazza!».

«Quelli non si fanno prendere facilmente. Dài, andiamo!».

Scendiamo in fretta e furia. In un attimo siamo sul portone. Nessuna traccia degli incendiari. Il cugino di Gloria ha mollato la spranga facendo finta di niente quando ha visto i poliziotti all’angolo. Sembra essersi calmato e ci viene incontro.

«Lo so chi sono. E gliela farò pagare. Lasciamo che se ne stiano nascosti, per ora».

«Perché l’hanno fatto?».

«Per un piccione che gli ho fregato. Ma è successo diverso tempo fa. E adesso hanno deciso di vendicarsi».

Gloria si scatena.

«La cosa non finisce qui! Hanno bruciato la porta di casa mia e li ho visti. Andiamo alla polizia che li voglio denunciare».