Il casino dell’incendio e dei piccioni è durato tre o quattro giorni. Qualche litigio per strada, tra Gloria, il cugino e parenti vari da una parte e dall’altra. Baruffe di quartiere. Me ne sono rimasto in disparte. E tutto si è dissolto nel nulla, come sempre. Un pomeriggio Gloria viene su a bere un caffè. Le piace sedersi sul pavimento mentre preparo la caffettiera. Indossa pantaloncini attillati e molto corti e una camicetta leggera. Verso un po’ di rum. Mi piace vederla così, seduta per terra, che ascolta una cassetta di José José. Solleva le ginocchia, apre le gambe e mi provoca con il suo pelo nero, riccio, eccessivo. Mi eccita. Le passo un sorso di rum bocca a bocca. Tiro fuori l’uccello. Solo in parte. Scosta i pantaloncini e mi mostra la fica al completo. Comincio a masturbarmi. Piano.
«Ah, papi, così mi fai impazzire. Quanto mi piace».
«Che bella fica pelosa, cazzo! Quella sì che è una fica, piccolina, stretta! Quanti soldi hai fatto con quella fichina... almeno cinquecento pesos al mese».
«Di più, molto di più. Guarda come ti si piega, che carino!».
«Succhialo che si rizza di più». Lo lecca un po’.
«Di più, papi, molto più di cinquecento. È una fica che rende, ah ah ah. E senza contare le volte che l’ho data gratis».
«Ce l’ho sulla punta. Dove te lo spruzzo?».
«No, aspetta, trattieniti».
Continuiamo a giocherellare ancora un po’. Sono esperto nel trattenermi. Anche lei si masturba. E alla fine:
«Non ce la faccio più! Dài!».
Apre la bocca. Lascio andare il getto. Se lo ingoia, lo succhia fino all’ultima goccia.
«Ahh, ce l’hai acido... ahhh... sembra succo di marañón. Non avevo mai assaggiato uno sperma come il tuo».
«È lo schiavo nero fuggiasco che me lo fa diventare acido. Ah ah ah».
«Non scherzare con il tuo morto altrimenti ti punirà... Be’... fatti tuoi».
La caffettiera per poco non esplode. Il caffè si è bruciato. Lei ride.
«Dammi dell’altro rum. Scordati il caffè, ahhh... mi hai fatto andare fuori di testa...».
«Perché?».
«Non immagini quanto mi manda su di giri. È sempre stata la mia mania».
«Cosa?».
«Che qualcuno si faccia una sega davanti a me e intanto gliela mostro, a gambe aperte».
«Ti ci sei abituata, ecco perché».
«Fin da bambina. Facevo un buco nei pantaloncini e mia madre non sapeva che ci provavo gusto. Aprire le gambe e farmi guardare la passerina».
«Tu non sei normale. Fuori di testa completamente».
«Non è un male. Per me è uno svago come un altro. Non mi piacciono gli sport, o il domino. Quello che mi dà gusto è andare sulla spiaggia e mostrare un po’ di fica, una tetta, una chiappa. Subito dopo compaiono i segaioli tutti intorno. Come matti. E se quel giorno sono particolarmente in vena li chiamo e dico: “Forza, venti pesos ciascuno. Altrimenti lo spettacolo finisce e si chiude per ferie”».
«E quelli pagano?».
«Altroché! Qualcuno mi dà il doppio o il triplo e dice: “Però voglio farmene una lunga. Resta lì almeno un’ora senza muoverti”».
«E tu stai in posa».
«In questo sono un’artista, tesoro: ballare, posare, esibirmi. Per me fa lo stesso che mi usino come modella per disegnare o per farsi una sega. L’essenziale è che paghino... soldini, soldini. Aiutate gli artisti cubani!, come diceva mio padre quando suonava la chitarra nei bar».
È scossa da un brivido.
«Ahhh, sì, dì qualcosa... su... dammi un pochino di rum e un sigaro».
Si siede sul bordo del letto. Se la prende comoda, con gli occhi chiusi. Beve un paio di sorsi di rum. Accende il sigaro. Fuma tranquillamente. Riapre gli occhi e dice:
«A casa tua c’è una donna che scrive in continuazione, seduta alla tua scrivania. Non è vecchia. Avrà quarant’anni o poco più. Ha un buon profumo e si vede che è stata una donna elegante, ma con una doppia vita. Aveva una vita notturna segreta ed era molto romantica. Fuma sigarette e si diverte. Le piace ridere. È sempre di buon umore, allegra, ottimista. A volte scherza con te e resti inebriato dal suo profumo e
avvolto dal fumo delle sue sigarette. Questo succede sempre quando stai seduto a scrivere. E la cosa ti spaventa molto, e allora vai a pregare davanti all’altare chiedendo ai morti di lasciarti in pace».
«Cazzo, Gloria, come fai a sapere certe cose?».
«Le sto vedendo. E stai zitto, non interrompere. Quella donna è seduta alla tua scrivania e sta scrivendo. È molto elegante e non degna di uno sguardo la gitana. La ignora».
«Come si chiama?».
«Non lo so. Quello che non ha osato scrivere da viva, lo scrive adesso con te... lei ha... un vestito nero, lungo fino alle caviglie e con il collo alto. Maniche lunghe. I capelli raccolti sulla nuca. Forse è morta da cent’anni, chissà. Dal vestito si direbbe che è morta tanto tempo fa... dice di cominciare il romanzo e di non avere paura... dice che lei scrive per te. E ti chiede dei fiori».
«A volte io...».
«Ssst, zitto. Tu metti dei fiori sull’altare, ma non sono per lei. La signora vuole un vaso di fiori bianchi e gialli, e devi metterlo sul tuo tavolo da lavoro, di fronte a te... e non spaventarti per il profumo e per il fumo. Lei ti aiuta... e... ascoltami bene: non ti capita mai di sentire una specie di forza che ti trascina e allora scrivi e scrivi senza poterti fermare? E mentre pensi una cosa ne scrivi un’altra, e alla fine esce fuori qualcosa di totalmente diverso?».
«Sì. Spesso. È come uno stato di trance e non posso fermarmi».
«Perché in quel momento non sei tu. È lei che sta scrivendo. Dice che da viva non ha avuto il tempo di farlo. In conclusione: mi ripete che devi cominciare a scrivere il romanzo perché lei ti starà sempre ac-
canto. Mettile dei fiori bianchi e gialli... basta... se n’è andata».
Gloria si alza, si mette una mia camicia ed esce sulla terrazza a prendere il fresco. Respira l’aria pulita e poi rientra più tranquilla.
«Senti le mie mani».
Le tocco i palmi. Bruciano. Almeno quaranta gradi di temperatura, se non di più.
«Meglio così. Quando il calore mi prende alla testa finisce che sento un gran dolore alle tempie. E mi dura tutta la giornata. Se entra nella testa dura molto di più. A volte vado avanti a parlare per mezz’ora».
«La gitana è forte».
«È forte però non le do soddisfazione come dovrei.
Mi scordo di lei».
Accendo un sigaro, verso altro rum, metto un vecchio disco di Ñico Membiela, e restiamo sul letto a goderci un po’ di tranquillità. Le annuso le ascelle. Questo odore di femmina africana selvaggia, che suda nella giungla, è una droga che mi fa vibrare e mi emoziona profondamente. Se non ci fosse l’Africa, e quindi le nere e le mulatte, cosa ne sarebbe dell’umanità? Sicuramente ci estingueremmo, dissolvendoci come fantasmi nel deserto.
Aspiro con forza, mi riempio i polmoni del suo odore di sudore.
«Ah, Gloria, se fossi stata bianca e bionda non ti avrei nemmeno guardato».
«Perché ti piacciono le nere, maiale, però io sono mulatta color cannella. Non confondermi!».
«Sei più razzista dei nazisti».
«Sì, sono razzista, e allora? Non mi piacciono i neri. In tutta la mia vita ne ho avuto uno solo ed è durata quattro giorni. E questo perché era Carnevale a
Santiago e io ero continuamente ubriaca. Una settimana di sbronza ininterrotta, feste di Carnevale e scopate».
«E meno male che sei mulatta, perché se fossi nera...».
«Se fossi nera non ne avrei avuto nemmeno uno».
«Perché?».
«Perché sono bugiardi, inaffidabili, inutili, sporcaccioni, hanno l’uccello grosso e fanno venire un’infiammazione alla vagina. E per giunta discutono sul prezzo e poi non vogliono pagare. No, no, un gran cazzo e niente guadagno. Di pelle scura, la mia basta e avanza».
«Gloria, questo è razzismo del peggiore».
«Ma è tutto vero».
«Non è vero. Ci sono certi bianchi...».
«Ahh, piantala con le teorie dei tuoi libri. Non so come siano i neri ricchi e quelli dell’università e tararì e tararà, ma i neri di questo quartiere è meglio lasciarli perdere. Stronzi, svergognati e segaioli».
«Cazzo, ma sei proprio una nazista!».
«E te ne accorgi adesso? Ah ah ah. Sai come trattavo quel nero di Santiago?».
«No».
«Lo prendevo a schiaffi e gli dicevo: “Tiralo fuori, tiralo fuori, togliti di dosso e vai a lavarti le ascelle, negro puzzolente”. E poi, tornava con la coda tra le gambe. Si metteva addirittura il deodorante. E io rincaravo: “Niente da fare, non c’è fica per te. Vai a cercare dei soldi. Portami dei bigliettoni e rum e sigarette ed erba. Portami un po’ di tutto o ti punirò. Mi rivesto, me ne vado e non mi rivedrai mai più”, ah ah ah. Gli spuntavano le lacrime. Ecco cosa mi piace fare: umiliarli. Trattarli come schiavi».
«Ma perché sei così figlia di puttana?».
«Siamo tutti figli di puttana e piace a tutti avere qualcuno da sottomettere, per schiacciarlo e calpestarlo. E non fare tanto l’innocentino. Tu sei peggio di me. Se un bel giorno dovessi diventare presidente della repubblica metteresti le catene a tutti e anche il bavaglio perché non protestino».
«Sai che sei fascista, Gloria. Hai un cervellino anormale. Questo non potrò scriverlo in Molto cuore».
«E tu pensavi di scrivere nel tuo romanzetto tutto quello che ti dico?».
«Tutto».
«Che rottura di palle. Alla gente non piace sapere la verità».
«Lo so. La gente preferisce il baseball».
«Quanto sei intelligente. Vedi di non essere troppo antipatico altrimenti ti renderanno la vita impossibile e dovrai andartene da Cuba. Ah ah ah, e dire che sei un bel fesso!».
«Fesso, io?».
«Sì, tu. Avresti potuto rimanere in venti paesi e vivere decentemente. Ah, invece no, tu sei troppo rude e duro, torni sempre nella porcilaia».
«Non voglio vivere da nessun’altra parte».
«Ah, quanto è sentimentale, il mio bambino!».
«Non è sentimentalismo, è determinazione».
«Che scemenza. Là potresti vivere meglio che qui.
Perché non sei rimasto in Svezia?».
«Io sto bene qui».
«Bene? Vendendo un quadretto ogni sei mesi e io a farmi sbattere dai turisti?».
«Proprio così. Qui sto bene».
«Sì? Allora vediamo cosa farai, perché appena ri-
mango incinta non voglio battere più. Mi fanno schifo gli stranieri. Voglio stare soltanto con te. Sol-tanto-con-te. Ficcatelo nella testa».
«Ah, piantala con il tuo solito melodramma».
«Macché melodramma. È la verità. Non potrai essere il mio pappone per tutta la vita né io intendo fare la puttana per sempre».
«Adesso vorresti essere una donna rispettabile?».
«Io sono sempre stata rispettabile. Povera e costretta a vivere in un condominio, ma onesta. Mi sono sempre guadagnata da vivere lavorando. E non cambiare argomento: sarai mio marito e io tua moglie. Quindi inventati qualcosa per mantenere la famigliola: tu, io e tre o quattro bambini».
«Che paio di coglioni, Gloria!».
«Torna con i piedi per terra e lascia perdere i quadretti e le stronzate».
«Dovrò procurarmi una bancarella di frutta e verdura al mercato».
«Ti aiuto io. Ho un talento naturale per vendere. Il commercio è il mio campo».
«L’unica cosa che sai vendere tu lo so io cos’è».
«Non m’importa cosa pensi. So vendere acqua fresca come potrei vendere un palazzo o fare una sega per venti pesos. Mi piacciono gli affari. A proposito di affari, fammi chiamare Margot».
Va al telefono e fa un numero.
«Chi è Margot?».
«Un’amica».
«Quella di Guanabo?».
«Proprio lei».
«Gran troia, quella».
«La gran troia sono io. Lei è una fasulla... aspetta... Per favore, c’è Margot?... Sì, grazie».
Aspetta qualche secondo. Poi le passano Margot.
«Cos’hai combinato stanotte, alla fine?».
«...».
«E sei andata con quel porco?».
«...».
«Quanto?
«...».
«Complimenti. Ecco cosa ti succede a essere troppo buona. I pezzenti si vedono a colpo d’occhio. Margot, tu hai ancora molto da imparare, tesoro mio. Per prima cosa, quel turista lì non si lava mai. Secondo, gli puzzano i piedi, le ascelle e il fiato. E terzo, ha comprato un gelato per tre, se n’è mangiato la metà e ha lasciato il resto a noi. C’era bisogno di altre prove?».
«...».
«È questo che voleva? Un’orgia tra noi e gratis?».
«...».
«E che gli hai detto?».
«...».
«Sei proprio una cogliona. Mandalo affanculo e che vada a cercarsi qualche schiava in Africa. Ammesso che la trovi. Perché magari finisce in una tribù di cannibali e se lo mangiano vivo».
«...».
«Margot, non contare su di me. Come puttana sei un disastro. Trovati un altro mestiere».
«...».
«No. Non se ne parla. Per strada finisce male, ti prendono e ti rispediscono al tuo paesello...».
«...».
«Ah ah ah, Palma Clara. E dove sarebbe, piccola?».
«...».
«A Baracoa? Ma non compare neanche sulle carte geografiche. Stammi bene. Ciao, ci vediamo».
Riattacca. Mi guarda sorridendo e dice:
«È troppo buona, una contadinella. Se non tira fuori le unghie, morirà di fame. Non ha ancora capito che all’Avana bisogna imparare a camminare sulla brace senza bruciarsi».