Mi sveglio con i postumi di una sbronza tremenda. Juan del Río, un amico diplomatico, ieri sera mi ha invitato a una cena afrodisiaca. Ho provato a correggerlo:
«A Cuba sarebbe una cena lezamiana».
«Che vuol dire?».
«Pantagruelica. Tropicale in eccesso».
«No. Al contrario. Sarà frugale, ma esplosiva».
E così è stata. Mi aveva confessato che lui e il suo partner – un nero enorme, karateka e judoka di non so quale scuola – si masturbavano leggendo alcuni brani della Trilogia sporca dell’Avana, nell’edizione brasiliana.
«Perché in portoghese?».
«È molto più sensuale, non ha ossa, come diceva Pessoa».
Dubito fortemente che il karateka capisse qualcosa riguardo lingue con le ossa o disossate. Comunque, il diplomatico era davvero squisito. Adorava il suo partner, soprattutto perché il tipo lo penetrava tranquillamente, mentre guardava un programma qualsiasi alla televisione. Juan del Río adora questo stile.
«Oh, nessuno mi ha umiliato tanto, è geniale, il nero! Mi penetra e può restarsene lì mezz’ora senza venire e neanche mi degna di un’occhiata. Si muove au-
tomaticamente avanti e indietro e gli interessa soltanto il televisore. Va pazzo per i film di Bruce Lee e i cartoni animati di Bip Bip e Bugs Bunny».
La cena consisteva unicamente in frutti di mare scottati appena con erbe aromatiche. Salse piccanti e vino in abbondanza. Come dolce c’era una torta di mandragola e ginseng, un formaggio messicano ripieno di peperoncino e peyote, e una maria olandese geneticamente modificata per renderla più forte. Ho fumato uno spinello di quella maria postmoderna, accompagnata da brandy e ciliege, più il peyote del formaggio. Ho dovuto fare uno sforzo notevole per non esibirmi in uno spogliarello. Sono riuscito a controllare il mio innato esibizionismo. Eravamo otto o forse dieci, compresa una certa scrittrice spagnola cinquantenne – o sessantenne – con il suo jinetero ventenne. Ubriaca quanto o più di me. Parlavo. Parlavamo. E ho gradualmente perso la memoria. A un certo punto Juan del Río è diventato aggressivo e mi ha afferrato per i coglioni. Gli ho tolto la mano di lì.
«Attento, sei in territorio nemico».
«Ah, ragazzo mio, nei tuoi libri sei un lupo cattivo, ma nella vita sei un agnellino».
Poi ho chiacchierato un po’ con la scrittrice. L’ultima cosa che ricordo è che il diplomatico le ha chiesto:
«Che dice Pedro Juan? Perché parla così piano?». E lei, con la bocca impastata:
«Mi sta parlando all’orecchio. Questioni private. Dice che ha molta cura del suo uccello. Che gli fa prendere il sole in terrazza».
E il diplomatico entusiasta:
«Oh, Pedro Juan, invitaci sulla tua terrazza. Dev’essere spettacolare».
Non ricordo altro. Non so nemmeno chi mi abbia
riportato a casa, né come sia riuscito a salire le scale, aprire la porta e crollare sul letto. Suppongo che alla fine nessuno mi abbia violentato. Quando mi sono svegliato erano le due del pomeriggio e avevo un trapano nel cervello. Ho giurato di non toccare mai più la maria olandese. L’unica che ho sempre controllato bene è quella locale, di Baracoa. Ho una sete tremenda. Riesco ad alzarmi in piedi. Cerco le aspirine, preparo il caffè e chiamo Gloria.
Sale subito. Mi restituisce la frusta. Era rimasta a casa sua da settimane:
«Prendi, papi, mettila via».
«Perché? Cosa ci facevi con questa?».
«Niente. Ci dormivo tenendola tra le gambe». Resta in silenzio finché finisco di bere il caffè.
«Oggi sei enigmatica».
«Che vuol dire?».
«Ehh... misteriosa».
«Ah, no. Non sono affatto misteriosa».
«Triste».
«Sì».
«Perché?».
«Ogni tanto lo sono».
«Senza motivo?».
«Quando penso troppo. Non mi piace pensare perché divento triste e mi viene voglia di piangere».
«Se piangi è perché qualcosa ti fa male».
«Tu e mio padre».
«Eh?».
«Mio padre è rimasto in Messico. Da quattro anni».
«Non me ne avevi mai parlato».
«E a che scopo? Per di più non lo hai neanche conosciuto. Fa il musicista. Ha compiuto sessantacinque anni ieri. E so che non sta bene».
«Ti ha scritto che sta male?».
«No, però io lo so. La gitana me lo dice all’orecchio. Me l’ha detto due volte questa settimana».
«E tu vorresti andare da lui».
«Non ha i soldi per farmi andare là né per altro. Ci manda ogni mese trenta o quaranta dollari. E basta. So che tira avanti con le unghie e coi denti».
«Mhm».
«È questo il problema, tesoro mio. Lui da una parte e tu dall’altra. E il bambino. No, no, no! Non posso pensarci troppo perché divento matta. Tre uomini nella mia vita! Uno di sette, l’altro di cinquanta e il terzo di sessantacinque».
«Bevi il caffè e lascia che la vita scorra».
«Sì. Pensando non risolvo niente».
Sulla terrazza ho un vaso con una pianta di sábila. Taglio un paio di foglie.
«Anche il tatuaggio mi fa male».
«Ancora?».
«Sono passati solo quattro giorni».
«No. Sono di più».
«Sì? Ah, che ne so. Ho perso il conto. Però mi fa male. Ho trovato un po’ di crema antibiotica, ma non passa».
«Vieni qui che ti curo io».
Preparo un impasto di sábila e camomilla. Le spiego come usarla. L’accarezzo, la bacio, la coccolo un po’. Diventa una gatta.
«Tu sei il primo uomo affettuoso che incontro nella mia vita».
«Affettuoso io?».
«Non mi avevano mai scritto una poesia né regalato fiori, né... niente di niente».
«Non ci credo».
«Nemmeno il padre di mio figlio. E dire che siamo stati sposati e abbiamo vissuto insieme tre anni. Niente. Mi metteva a faccia in giù. Me lo infilava nella fica e nel culo. Quello stronzo. Era tutto lì quello che gli piaceva fare. Veniva in due minuti e via. Ahhh, l’ho sempre detto: sono animali».
«Ma siete stati felici».
«Sì, però non era delicato come te, che mi scopi pianino, con affetto, mi pisci in faccia, mi frusti, mi sputi in bocca».
«Ti piace così tanto la frusta?».
«Tu ci sai fare, papi. Quanto godo. Tu sai come fare».
Resto a fissarla in silenzio. Mi piace molto e le voglio un mare di bene. Ripenso all’inizio di quella poesia e gliela recito:
«Io sono il vampiro che ti succhia il sangue».
«È bellissima. Continua».
«Non me la ricordo».
«Ma se l’hai scritta tu».
«Mi scordo tutto quello che scrivo».
«È una poesia folle. Tesoro mio, stai attento perché se continui a scrivere cose del genere finirai pazzo completo».
«Mi è già capitato una volta di andare fuori di testa. Non mi stupirei se dovesse succedere ancora».
«Bene, nel frattempo continua ad accarezzarmi e a regalarmi fiori, perché quando diventerai matto magari compri dei fiori e poi te li mangi anziché darli a me».
«Ah ah ah».
«Sì, sì. Devo approfittarne finché dura».
«Tu soffri di mancanza d’affetto, Gloria. E ti sono toccati gli anni peggiori, quelli della miseria».
«Devo farmi passare lo schifo per gli stranieri perché...».
«Ah ah ah. Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Il fatto è che ti sono toccati dieci anni di merda».
«Dieci? Trenta! Tutta la vita! Ricordati che sono nata nel rione di Laguna. Papà con la sua musica e le sbronze e le donnine intorno. Mamma si dava da fare dall’altra parte. I miei fratelli in giro per la strada... ahhh... perché ne parlo? Non mi piace rivangare il passato. Se tu scrivessi la pura verità nel tuo Molto cuore, nessuno ci crederebbe».
«E ancora ce ne manca, perché non si intravede la fine della crisi».
«Pazienza, avanti così. A noi non resta altro che lottare per mettere assieme qualche soldo giorno per giorno. Non c’è una fine a tutto questo».
«Non credo».
«Cioè?».
«Io illumino quelli che si avvicinano a me».
«Sei forse un santo?».
«Uno dei pedriti che convivono dentro di me è un santo».
«E un altro è un diavolo. Quello è toccato a me».
«Ti sono toccati tutti. Te l’ho sempre detto. Dentro mi porto un diavolo, un vampiro, un figlio di puttana, un nero africano, un santo dell’India, una donna, una belva, un pazzo, un distruttore, un illuminato...».
«Va bene, basta così».
Le metto una mano sulla fica e comincio a massaggiarla. Ci scaldiamo. La frusta è a portata di mano e l’accarezzo con il manico.
«Vieni a vivere con me. Voglio soggiogarti, troietta».
«Soggiogare. Suona bene. Quei libri che scrivi devono essere un disastro».
«La casa editrice si incarica di correggerli».
«Vuoi che metta le scarpe con il tacco alto e le calze nere?».
«Sì».
«Aspettami. Due minuti e torno».
Scende e prende gli accessori. Li indossa improvvisando uno spettacolino.
«Questo piace a tutti gli uomini, papi. E quanto pagano per vedermi nuda con addosso soltanto le calze e i tacchi! Avevo uno spagnolo che mi portava calze e mutandine nere a dozzine».
«Lascia perdere lo spagnolo e non dire altre stronzate. Vieni qui. Guarda come mi diventa duro».
«Ahi, papi, ma che succede? Ti si gonfiano le vene come... ahi, sì, spingimelo fino in fondo. Tu hai dentro un nero, disgraziato. Non me la conti giusta. Tu hai dentro un nero».
La scopo per un bel po’. Le sputo in faccia. Le rifilo qualche cinghiata. Ho una cintura di tela verde oliva. Risale a quando ero nell’esercito. Le piace perché fa più male.
«Picchiami con quella verde oliva, papi, sul culo».
«Preferisci la frusta?».
«Fa lo stesso. Con quello che vuoi tu, ma non tirarlo fuori. Chiavami più forte».
Continuiamo a giocare. Le bacio i piedi, il culo, l’anima. L’adoro.
«Non battere più, Gloria. Ti voglio tutta per me».
«Io faccio quello che mi dici di fare, papi».
«Se poi le cose si mettono male, vedremo».
«Io faccio quello che vuoi tu, tesoro. Legami! Legami!».
Ho già a portata di mano due pezzi di corda. Ci divertiamo un sacco. I postumi della sbronza sono pas-
sati del tutto. La lascio a sonnecchiare un po’ e scendo a comprare rum e un paio di sigari. Al negozio di liquori incontro un vecchio amico di Guanabacoa. Abbiamo lavorato insieme a Dinorah, dietro il Río Quibú, dove spremevamo canna da zucchero tutto il giorno. Compari negli anni duri. Poi sarei finito nella stessa cella con Basilio, e lui e Basilio si erano messi a rubare cavalli.
«Ehi, Jesús, che ci fai da queste parti?».
«Cazzo, Pedro Juan, come ti va? Niente, amico, facevo un giro. Sto cercando di scambiare la mia casa con una in centro. Mi piace questo quartiere».
«E io, invece, vorrei andarmene fuori città».
«Davvero?».
«Sì».
«Com’è casa tua?».
Insomma, è andata così. Incredibile ma vero. Cambiare casa significa anni di ricerche, rogne, trattative. Io e Jesús abbiamo fatto lo scambio nel giro di quattro giorni. Lui era ben contento di trasferirsi nel mio appartamento con terrazza e io me ne sono andato nella sua casa in campagna. È piccola ma va bene così. Ci sono manghi, avocado, aranci, e le gabbie con i serpenti. Allevava grossi majá. Li vendeva agli stranieri. E alla santeria, per le stregonerie. Jesús li chiamava semplicemente serpenti. Ha lasciato anche un enorme cane da guardia, una banda di gatti cacciatori di topi e una vacca. In cambio gli ho dato lo stereo con doppio mangiacassette e la collezione completa di Mark Anthony e Juan Luis Guerra, che sulla terrazza sono indispensabili.
Dopo una vita trascorsa nell’Avana Centro mi sento un po’ strano qui, con tutto questo silenzio e il vento che spira dal mare. In lontananza, tra le colline, si
scorgono Bacuranao e Guanabo. È un posto salubre e anche troppo tranquillo. È stato tutto molto rapido e imprevedibile. Ho bisogno di tempo per adattarmi alla calma e alla serenità. Gli unici vicini stanno a duecento metri, un vecchio e una vecchia mezzi sordi. Coltivano fiori e mais.
Gloria non ha potuto aiutarmi nel trasloco. Un’amica l’ha avvertita e si è precipitata come un razzo nel quartiere cinese. Il Pacífico era pieno di marinai di una nave scuola venuta da chissà dove. Volevano rum, puttane e sigari di marca. In quell’ordine e in quantità industriali. Gloria è rimasta via tre giorni. Le ho lasciato il nuovo indirizzo da sua madre e alla fine è ricomparsa, tutta contenta.
«Ah, tesorino, guarda qui, duecento dollaroni. Più tutto quello che ho mollato a casa».
«Ti ho detto di andarci, ma non per tre giorni di seguito. Non dicevi che gli stranieri ti fanno schifo?».
«Uno schifo tremendo, ma il primo mi ha offerto cento verdoni. Una vera tentazione. Ho incassato, gli ho infilato il preservativo e ho chiuso gli occhi. Affari, papi, affari! Alla fine me ne sono fatti tre... no, quattro. Comunque, sono uscita da lì con tre pezzi. E poi tutto quello che mi hanno regalato. Splendidi. Tornano tra sei mesi».
«Tu sei senza fondo. E sarai sempre così».
«No che non sarò sempre così. Questa è stata una tentazione troppo forte. E non lamentarti. Adesso abbiamo di che tirare avanti due mesi. Mettimi incinta! Te l’ho chiesto cinquanta volte. Mettimi incinta e tienimi sotto controllo con mano di ferro. Io voglio stare buona buona qui con te, papi».
«Va bene, ma ti avverto: se non righi dritto ti infilo nelle gabbie assieme ai serpenti».
«Ahi, no, tesoro mio, mi comporterò bene, non dirlo neppure. Mettiamo su un’attività. Compra altre due vacche e vendiamo il latte».
«Tu sapresti mungerle?».
«No, ma posso imparare... sarà come fare una sega a un nano».
«D’accordo, vedremo. Forse è meglio allevare serpenti, come faceva Jesús».
«Ah, amore, a proposito di serpenti... la scopata con i tacchi e le calze nere...».
«Coitus interruptus».
«Che vuol dire?».
«Abbiamo interrotto prima di finire».
«E allora dacci dentro. Riprendiamo subito. E qui sì che posso gridare e sospirare grazie al tuo uccellone. Non ci sono vicini, vero?».
«Una coppia di vecchietti mezzi sordi, a duecento metri».
«Uhh, che bello! Quanto mi piace urlare con il tuo cazzo dentro!».
E ci siamo messi all’opera. Non so se la metterò incinta e se avremo due o tre bambini. Non so se mi metteranno il telefono. Non vedo fili né pali nei dintorni. L’aspetto più positivo di tutta la faccenda è che la svedese ha perso le mie tracce. Sulle alture, verso Campo Florido, ci sono due arene di galli da combattimento, clandestine ma senza problemi. E vendono rum a basso prezzo e sigari a un peso l’uno. Di cos’altro ho bisogno? Non voglio computer, e-mail, Internet, non voglio che mi rompano più i coglioni. Che mi lascino in pace e la piantino di scocciarmi. Per il momento ho preparato le lenze e gli ami per andare a pescare. Da qui scorgo delle ottime scogliere e il mare è calmo. Gloria vuole venire con me. Meglio. Così con-
tinuiamo a parlare della sua vita. Chissà che un giorno di questi non mi decida a scrivere Molto cuore. Per ora non mi azzardo a cominciare. Non ho ancora la benché minima idea sul finale.
L’Avana-Stoccolma
1999-2000