I
SCRITTI UMANISTICI
DIALOGI AD PETRUM PAULUM
HISTRUM
DIALOGHI A PIETRO PAOLO ISTRIANO
In una lettera inviata da Lucca a Niccolò Niccoli e collocabile fra il febbraio e il maggio del 1408, il Bruni raccomanda un certo Tommaso Britanno, «vir egregius» ma non meglio noto, cultore di studi, il quale vuole comprare i suoi Dialogi ad Petrum Paulum Histrum (ora chiamati «libri novorum poetarum»), che dal Bruni vengono qualificati come «ineptie»: «Est Florentie vir egregius Thomas Britannus michi amicus et studiorum nostrorum, quantum illa natio capit, ardentissimus affectator. Huic ergo cupienti ineptias nostras, idest libros novorum poetarum, emere, rogo ut omni cura diligentiaque assistas» (Ep. II, 18). Risulta chiaro, da questo passo, che nei primi mesi del 1408 i Dialogi avevano una loro diffusione editoriale: non si può, però, automaticamente pensare che solo allora fossero stati compiuti e pubblicati dal Bruni. Per la datazione dell’opera si ha pure un altro riferimento cronologico, questa volta interno ai Dialogi, che si pone come termine «post quem»: l’esplicito ricordo della morte di Luigi Marsili avvenuta nel 1394, cioè «sette anni» prima dell’incontro che costituisce l’oggetto dei Dialogi stessi: «qui abhinc annis septem mortuus est» (p. 86).
È quindi entro questo spazio – fra il 1401 e il 1408 (o fine 1407) – che si pone la stesura dei Dialogi, per la cui datazione non risultano, però, ulteriori elementi sicuri. Né l’indicazione del 1401 è da considerarsi decisiva, perché la stesura dell’opera potrebbe essere avvenuta «post eventum», assumendo così quell’anno esclusivamente un valore fittizio e simbolico. Allo stesso tempo, l’esplicito richiamo ad un passo della Laudatio fiorentine urbis, presente all’inizio del II dialogo, porta a collocare la stesura di quest’opera dopo quella della Laudatio avvenuta, forse, nel 1403.
Resta ancora insoluto anche il problema della simultaneità, o meno, di scrittura dei due Dialogi, vista la loro sostanziale diversità: il primo, chiaramente anteriore, appare come il frutto delle posizioni più radicali e classicistiche del gruppo degli allievi e discepoli del Salutati, il secondo sembra il risultato di una riflessione successiva e più matura rispetto alle categoriche prese di posizione del primo. Da qui la supposizione, ad esempio, che, a fronte del primo dialogo, collocabile al 1401, il secondo sia stato scritto dopo il 1403 e forse quando già, col 1405, il Bruni aveva lasciato Firenze per la curia romana, interrompendo così il diretto rapporto col Salutati.
Sono, anche queste, ipotesi non facilmente dimostrabili. Certa è, invece, la sensazione che i Dialogi, il cui tema di fondo è una discussione sullo stato attuale della cultura, pur prendendo come protagonista principale il Salutati, cerchino di affrancarsi rispetto alle sue caratteristiche intellettuali e ideologiche – da qui pure la tesi che la loro composizione risalga a dopo la morte del Salutati, avvenuta nel 1406 –, e quindi rappresentino una fase di rottura e di passaggio fra le impostazioni metodologiche della cultura precedente e scolastica e quelle che, negli anni iniziali del Quattrocento, si cercava di definire e di far prevalere, pur fra contrastanti concezioni. La stessa denuncia, interna ai Dialogi, della scarsa capacità di affermazione del rinnovamento che si voleva sviluppare in un’età che sembrava rimanere estranea all’impegno nelle «humanae litterae», è una riprova del clima tormentato in cui agivano i promotori di questo rinnovamento.
Rimane però estremamente chiaro il punto fondamentale del loro contendere e del loro agire: la condanna inequivocabile della cultura dell’età medievale, vista come fase assoluta di decadenza e d’imbarbarimento rispetto a quella ad essa anteriore, l’età classica. Sono, infatti, soprattutto le degenerazioni del sapere medievale che vengono radicalmente combattute dal Bruni; così si criticano le sofistiche interpretazioni che sono state date degli autori antichi, non più letti nella genuinità delle loro opere, oppure le stesse scelte di studio, basate non sui modelli della formazione umana, come appunto erano i classici, ma su scrittori che neppure avrebbero dovuto essere letti per la loro limitata e barbara preparazione. Scrive, ad esempio, il Bruni: «Qui libri utinam nunc extarent, nec maiorum nostrorum tanta fuisset ignavia! Cassiodorum illi nobis servavere et Alcidum et alia huiusmodi somnia, que ne mediocriter quidem eruditus quispiam legere unquam curavit; ceterum Ciceronis libros, quibus nihil pulchrius neque suavius latine lingue Muse unquam peperere, eos neglectos interire passi sunt; quod sine summa ignorantia evenire non potuit» (p. 92).
La condanna dei «moderni» appare tanto radicale che viene travolta la stessa cultura fiorentina trecentesca, che pure aveva prodotto figure grandi ed universali come Dante, Petrarca e Boccaccio. La loro successiva riabilitazione – nel secondo dei due Dialogi – costituisce uno dei motivi di studio e di valutazione più importanti, ma anche più incerti, di quest’opera del Bruni. Al di là di ogni interpretazione che su tale contraddittoria presa di posizione del Bruni è stata finora data, sembra da escludere che si tratti solo di una semplice esercitazione retorica con la quale il Bruni si adeguerebbe alla moda, in vigore anche a Firenze, delle «doppie» orazioni, pro e contro un qualsiasi argomento. Il tema della disputa era troppo importante e qualificante: in essa si sente chiaramente il riflesso sia delle più ampie polemiche che miravano a bloccare il recupero della cultura classica rispetto a quella medievale – come per impedire, con l’esclusione degli antichi, anche ogni forma di letteratura moderna – sia della contrastante interpretazione della lotta fra un’assoluta aderenza alla cultura classica (rappresentata nei Dialogi da Niccolò Niccoli) e il conseguente ostracismo di quella «moderna».
Qui sta la questione fondamentale dei Dialogi, dedicati a Pietro Paolo Vergerio da Capodistria, cioè ad uno dei più significativi frequentatori del circolo umanistico fiorentino a cavallo dei due secoli. A lui il Bruni offre l’«opera prima» del suo impegno umanistico, frutto – come si è detto – del clima di rinnovamento intellettuale a cui anche il Vergerio, fra il 1402 e il 1403, aveva dato un notevole contributo col De ingenuis moribus: un’opera che lo stesso Bruni avrebbe tenuto presente nell’elaborazione del suo De studiis et litteris. Così i Dialogi – che appaiono come un vero e proprio «manifesto» della nuova cultura umanistica – indicano criteri e metodi che si stavano affermando in alternativa a quelli dell’età precedente, che ora il Bruni stigmatizza richiamandosi ai «barbari britanni» e alle «questiones quodlibetales», viste come esempi ormai da superare e respingere.
Non è un caso se ai Dialogi, e ad alcuni dei temi portanti in essi esposti o appena enunciati, rimarranno legate anche molte delle opere successive del Bruni, frutto di più mature riflessioni e ripensamenti. Fra i motivi di maggior rilievo che compaiono nei Dialogi, e che perdureranno nella produzione letteraria del Bruni, va subito individuato quello dell’elogio di Firenze, che ora appare un proseguimento dei temi della Laudatio fiorentine urbis, anteriore appunto ai Dialogi, come è espressamente ricordato: «Sed videte, queso, splendorem edium; intueamini delicias atque amenitatem. Nec ego magis nunc ista miror, quam cetera luculentissima edificia, quibus universa hec urbs referta est, ut sepe mihi veniat in mentem eius, quod est a Leonardo dictum in oratione illa in qua laudes florentine urbis accuratissime congessit» (p. 118). Ma questo motivo dell’elogio di Firenze nei Dialogi è anche un’anticipazione «in nuce» di opere fortemente condizionate dalla componente ideologica e propagandistica, come le Historiae florentini populi, l’Oratio in funere lohannis Strozze, la Difesa contro i riprensori del popolo di Firenze nella impresa di Lucca, nonché di molte epistole cancelleresche coeve. Così, ad esempio, l’affermazione della Laudatio, secondo cui vivere a Firenze è vivere in una città che eccelle e primeggia sulle altre, ritorna nei Dialogi, priva, sì, dell’effetto propagandistico, ma ugualmente pregnante anche sotto l’aspetto letterario: «in ea civitate vivimus, que ceteris longe antecellere ac prestare videtur» (p. 78).
Ancora in quest’ottica riveste fondamentale e qualificante importanza quanto è detto, sempre nelle pagine iniziali del primo dei due Dialogi, a sostegno di una cultura «cittadina», una cultura, cioè, impegnata nella vita civile: «Etenim absurdum est intra parietes atque in solitudine secum loqui, multaque agitare, in oculis autem hominum atque in cetu veluti nihil sapias obmutescere; et que unam aliquam in se utilitatem habeant, ea magno labore prosequi, disputationem vero, ex qua permulte utilitates proficiscuntur summa cum iocunditate, nolle attingere» (p. 84). All’apparire del nuovo secolo – e quindi di una nuova stagione spirituale e sociale – già con queste tesi viene operata una precisa scelta di campo a favore di una vita non condotta «intra parietes atque in solitudine», ma fortemente inserita nella realtà civile: e a queste tesi il Bruni rimarrà poi sempre fedele, come, fra le altre, dimostrano opere quali il De studiis et litteris e l’lsagogicon moralis discipline.
C’è anche – sempre ad apertura del primo dei due Dialogi – un riconoscimento palese alla consapevolezza di vivere in un’età rinnovata e nuova, dove l’esercizio della cultura garantirà il recupero di una gloria andata in precedenza perduta: «Nam cum frequentia populi, splendore edificiorum, magnitudine rerum gerendarum civitas hec florentissima est, tum etiam optimarum artium totiusque humanitatis, que iam penitus extincta videbantur, hic semina quedam remanserunt, que quidem in diem crescunt, brevi tempore, ut credimus, lumen non parvum elatura» (p. 78). E pure sulla coscienza della «rinascita» il Bruni tornerà altrove, e con più particolari – come in qualche lettera, nel De studiis et litteris, nell’Oratio in funere lohannis Strozze, nella Vita del Petrarca – ma ora l’affermazione riveste una particolare valenza data la militanza del Bruni, all’inizio del secolo XV, proprio nel circolo fiorentino che quel «lumen» cercava di accrescere e diffondere.
DIALOGI AD PETRUM PAULUM HISTRUM
Vetus est cuiusdam sapientis sententia felici homini hoc vel in primis adesse oportere, ut patria sibi clara ac nobilis esset1. Nos vero, Petre, etsi hac parte felicitatis expertes sumus, quod patria nostra crebis fortune ictibus diruta est et pene ad nihilum redacta2; tamen hoc solatio utimur, quod in ea civitate vivimus, que ceteris longe antecellere ac prestare videtur. Nam cum frequentia populi, splendore edificiorum, magnitudine rerum gerendarum civitas hec florentissima est, tum etiam optimarum artium totiusque humanitatis, que iam penitus extincta videbantur, hic semina quedam remanserunt, que quidem in diem crescunt, brevi tempore, ut credimus, lumen non parvum elatura. Qua in civitate utinam tibi una nobiscum habitare licuisset! Non enim dubitamus quin consuetudine mutua studia nostra leviora fuissent et iocundiora futura. Verum, quia seu rationes rerum tuarum seu fortuna quedam sic voluit, ut tu a nobis invitus ab invitis distraherere, non possumus sane tui desiderio non moveri; sed tamen quod reliquum ex te nobis est, eo nos quotidie avidissime fruimur. Sic etenim res se habet: corpus quidem tuum a nobis montes et valles intermedie separant; memoriam vero atque caritatem nec distantia loci, nec uUa unquam a nobis separabit oblivio. Itaque nulla fere dies preterit, quin tua sepius in mentem nostram recordatio subeat; sed cum semper nobis tua presentia desideretur, tunc tamen maxime, cum aliquid illarum rerum agimus quibus tu, dum aderas, delectari solebas: ut nuper, cum est apud Colucium3 disputatum, non possem dicere quanto-pere ut adesses desideravimus. Motus profecto fuisses tum re que disputabatur, tum etiam personarum dignitate. Scis enim Colucio neminem fere graviorem esse; Nicolaus vero4, qui illi adversabatur, et in dicendo est promptus, et in lacessendo acerrimus.
Nos autem disputationem illam in hoc libro tibi descriptam misimus, ut tu, licet absens, commodis nostris aliqua ex parte fruaris; in quo id maxime conati sumus, ut morem utriusque diligentissime servaremus. Quantum vero in ea re profecerimus, tuum erit iudicium.
Cum solemniter celebrarentur ii dies, qui pro resurrectione lesu Christi festi habentur, essemusque in unum Nicolaus et ego pro summa inter nos familiaritate coniuncti, placuit tum nobis ut ad Colucium Salutatum iremus, virum et sapientia et eloquentia et vite integritate huius etatis facile principem. Nec longius fere progressis Robertus Russus5 fit nobis obviam, homo optimarum artium studiis deditus nobisque familiaris; qui, quonam tenderemus percontatus, audito Consilio nostro approbatoque, ipse etiam una nobiscum ad Colucium secutus est. Ad quem ut venimus, comiter ab eo famihariterque accepti, deinde sedere iussi, consedimus, paucisque verbis ultro citroque dictis, que primo congressu amicorum haberi solent, deinceps silentium subsecutum est. Nam et nos Colucium ut alicuius sermonis princeps foret expectabamus, et ille nos ad eum vacuos venisse nec quicquam in medium ponendi causa attuHsse nequaquam arbitrabatur. Sed cum longius progrederetur silentium, essetque manifestum nihil a nobis qui ad eum veneramus proficisci, conversus ad nos Colucius eo vultu quo solet cum quid paulo accuratius dicturus est, ubi nos attentos in eum vidit, huiusmodi est verbis sermonem exorsus.
«Haud sane dici posset, inquit, iuvenes, quam me conventus vester presentiaque delectat: ii enim estis quos ego, vel morum vestrorum gratia, vel studiorum que vobis mecum communia sunt, vel etiam quia me a vobis observari sentio, egregia quadam benivolentia et cantate complector. Verum una in re parum mihi probati estis, eaque permagna. Nam cum ceteris in rebus, que aci studia vestra attinent, tantum in vobis cure vigilantieque perspiciam quantum debet esse iis, qui se homines frugi ac diligentes appellari volunt, in hoc uno tamen vos hebescere neque militati vestre satis consulere video, quod disputandi usum exercitationemque negligitis: qua ego quidem re nescio an quicquam ad studia vestra reperiatur utilius. Nam quid est, per deos immortales, quod ad res subtiles cognoscendas atque discutiendas plus valere possit quam disputatio, ubi rem in medio positam velut oculi plures undique speculantur, ut in ea nihil sit quod subterfugere, nihil quod latere, nihil quod valeat omnium frustrari intuitum? Quid est quod animum fessum atque labefactum, et hec studia longitudine ocii et assiduitate lectionis plerumque fastidientem, magis reparet atque redintegret, quam sermones in corona cetuque agitati, ubi vel gloria, si alios superaveris, vel pudore, si superatus sis, ad legendum atque perdiscendum vehementer incenderis? Quid est quod ingenium magis acuat, quid quod illud callidius versutiusque reddat, quam disputatio, cum necesse sit ut momento temporis ad rem se applicet, indeque se reflectat, discurrat, colligat, concludat? Ut faciliter intelligi possit, hac exercitatione excitatum ad cetera discernenda fieri velocius. Iam vero orationem nostram quam expoliat, quam eam in promptu atque in potestate nostra redigat, nihil attinet dicere. Vos enim et in plerisque id videre potestis, qui cum litteras scire se profiteantur et libros lectitent, tamen quia se ab hac exercitatione abstinuere, nisi cum libris suis latine loqui non possunt.
Itaque ego, qui vestre utilitatis sum avidus, quique vos quam maxime florentes in studiis vestris videre cupio, non iniuria vobis subirascor, si quidem hunc disputandi usum, ex quo tot manant utilitates, negligitis. Etenim absurdum est intra parietes atque in solitudine secum loqui, multaque agitare, in oculis autem hominum atque in cetu veluti nihil sapias obmutescere; et que unam aliquam in se utilitatem habeant, ea magno labore prosequi, disputationem vero, ex qua permulte utilitates proficiscuntur summa cum iucunditate, nolle attingere. Nam velut is agricola improbandus est, qui cum liceret ei fundum universum excolere, saltus quosdam steriles aret, partem vero quampiam eius fundi pinguissimam atque uberrimam relinquat incultam; sic reprehendendus est is qui, cum omnia studiorum munera adimplere possit, cetera quamvis levia accuratissime obit, disputandi vero exercitationem aspernatur et negligit, ex qua tot fructus clliguntur uberrimi.
Equidem memini, cum puer adhuc Bononie essem, ibique grammaticis operam darem, me solitum quotidie vel equales lacessendo, vel magistros rogando, nullum tempus vacuum disputationis transisse. Neque id quod in pueritia feci, postea vero annis crescentibus derelinqui; sed in omni etate atque vita nihil mihi gratius fuit, nihil quod eque expeterem quam doctos homines, si modo potestas data sit, convenire, et que legerim et que agitaverim et de quibus ambigerem illis exponere, eorumque in his rebus percontari iudicium.
Scio vos omnes tenere memoria, teque magis, Nicolae, qui pro summa necessitudine, que tibi cum ilio erat, domum illius egregie frequentabas, Ludovicum theologum, acri hominem ingenio et eloquentia singulari, qui abbine annis septem mortuus est6. Ad hunc hominem, dum ille erat in vita, veniebam frequenter, ut ea ipsa que modo dixi ad eum deferrem. Quod si quando, ut fit, minus provisum domi a me fuisset, qua de re secum illa die verba facere vellem, in itinere ipso providebam. Habitabat enim ille trans Arnum, ut scitis: ego mihi flumen ipsum signum et monumentum quoddam feceram, ut ab eo transgresso ad illius domum omni medio spatio in his rebus essem occupatus, quas mihi cum ilio agitandas proponerem. Et quidem, ubi ad ipsum veneram, per multas horas protrahebam colloquium, et tamen semper ab illo discedebam invitus. Nequibat enim animum meum illius viri explere presentia. Quanta in illo, dii immortales, dicendi vis! Quanta copia! Quanta rerum memoria! Tenebat enim non solum ea que ad religionem spectant, sed etiam ista que appellamus gentilia. Semper ille Ciceronem, Virgilium, Senecam aliosque veteres habebat in ore: nec solum eorum opiniones atque sententias, sed etiam verba persepe sic proferebat, ut non ab alio sumpta, sed ab ipso facta viderentur. Nihil unquam ad illum poteram afferre quod sibi novum videretur: omnia iam pridem spectata habebat et cognita. At ego multa ab eo audivi, multa didici, multa etiam, de quibus ambigebam, illius viri auctoritate confirmavi.
Sed quorsum hec tam multa de te, dicet quispiam? Num tu solus disputator? Minime. Nam permultos memorare potui, qui hec eadem factitarunt. Sed ego de me malui dicere, ut possem vobis ex conscientia mea affirmare quam magna sit in disputando utilitas. Ego enim qui in hanc diem ita vixi, ut omne meum tempus atque omnem operam in studio discendi consumpserim, tantos mihi videor fructus ex his sive disceptationibus sive collocutionibus, quas disputationes appello, consecutus, ut eorum que didicerim magnam partem huic uni rei feram acceptam. Quam ob rem vos obsecro, iuvenes, ut ad vestros laudabiles preclarosque labores hanc unam, que adhuc vos fugit, exercitationem addatis ut utilitatibus undique comparatis facilius eo quo cupitis pervenire possitis».
Tum Nicolaus: «Est ita profecto, inquit. Salutate, ut ais. Neque enim facile reperiri posset, ut credo, quod ad studia nostra plus quam disputatio conferat; neque ego id nunc primo ex te audio; sed et Ludovicum ipsum, cuius commemoratio a te facta pene mihi lacrimas excussit, persepe hoc idem audivi dicentem. Et Chrysoloras is7, a quo isti litteras grecas didicere, cum ego aliquando adessem, quod, ut scitis, faciebam frequenter, nullam eque ad rem ut ad conferendum inter se aliquid auditores cohortatus est. Sed ille simpliciter atque verbo nudo, quasi rem perutilem esse constaret, adhortabatur, nullam ipsius rei vim ac potentiam demonstrans. Tu vero eam verbis ita prosecutus es, ita omnes effectus eius aperuisti, ut quantum id valeret ante oculos nostros manifesto posueris. Itaque nullo modo dici potest quam grata mihi tua fuerit orario.
Hac tamen in re, Coluci, si non ita ut putas oportere nos exercuimus, non est culpa nostra, sed temporum: quamobrem vide, queso, ne nobis amicis tuis iniuria subirascare. Nam si aliqua ratione nos commode id facere potuisse ostendes, non recusamus a te, quia id obmiserimus, non modo verba, sed etiam verbera equo animo perferre. Si vero in ea tempestate nati sumus, in qua tanta disciplinarum omnium perturbatio, tanta librorum iactura facta est, ut ne de minima quidem re absque summa impudentia loqui quisquam possit, tu dabis profecto nobis veniam, si maluimus taciti quam impudentes videri. Neque enim tu es, ut opinor, quem garrulitas vana delectet, neque ad eam rem nos cohortaris; sed ut graviter, ut constanter, ut denique ita verba faciamus, ut ea que dicimus sapere atque sentire videamur. Itaque tenenda probe res est, de qua disputare velis; nec ea solum, sed consequentium, antecedentium, causarum, effectuum, omnium denique que ad eam rem pertinent habenda cognitio. His enim ignoratis nemo disputator poterit non ineptus videri. Hec quantam molem rerum secum trahant, videtis. Omnia sunt inter se mira quadam coniunctione annexa, nec panca sine multis bene scire quisquam potest.
Sed satis multa de hoc; ad institutum revertamur. Ego quidem, Coluci, in hac fece temporum atque in hac tanta librorum desideratione, quam quis facultatem disputandi assequi possit, non video. Nam que bona ars, que doctrina reperiri potest in hoc tempore, que non aut loco mota sit, aut omnino profligata? Pone tibi ante oculos unamquamque earum quam velis, et quid nunc sit quidve olim fuerit considera: iam intelliges, eo deductas esse omnes, ut penitus desperandum sit.
Vide, queso, philosophiam, ut eam potissime consideremus, que est omnium bonarum artium parens et cuius ex fontibus hec omnis nostra derivatur humanitas. Fuit philosophia olim ex Grecia in Itaham a Cicerone traducta, atque aureo illo eloquentie flumine irrigata; erat in eius libris cum omnis philosophie exposita ratio, tum singule philosophorum schole diligenter explicate. Que res, ut mihi quidem videtur, plurimum valebat ad studia hominum incendenda; ut enim quisque ad philosophiam accedebat, continuo sibi quos sequeretur proponebat, discebatque non solum sua tueri, sed etiam aliena refellere. Hinc Stoici, Academici, Peripatetici, Epicurei; hinc omnes inter eos contentiones dissensionesque nascebantur. Qui libri utinam nunc extarent, nec maiorum nostrorum tanta fuisset ignavia! Cassiodorum illi nobis servavere et Alcidum8 et aha huiusmodi somnia, que ne mediocriter quiciem eruditus quispiam legere unquam curavit; ceterum Ciceronis libros, quibus nihil pulchrius neque suavius latine lingue Muse unquam peperere, eos neglectos interire passi sunt; quod sine summa ignorantia evenire non potuit. Quippe si illos vel primis, ut dicitur, labris gustavissent, nunquam profecto neglexissent. Erant namque ea facundia prediti, ut facile a lectore non rudi impetrare possent, ne se aspernaretur. Sed cum illorum librorum magna pars interierit, hi vero, qui supersunt, adeo mendosi sint ut paulo ab interitu distent, quemadmodum nobis philosophiam hoc tempore discendam putas?
At sunt permulti eius scientie magistri qui se illam docturos esse pollicentur! O preclaros nostri temporis philosophos, siquidem ea docent, que ipsi nesciunt; quos ego nequeo satis mirari, quo pacto philosophiam didicerint, cum litteras ignorent; nam plures solecismos quam verba faciunt cum loquuntur; itaque illos stertentes quam loquentes audire mallem. Hos tamen si quis roget, cuius auctoritate ac preceptis in hac sua preclara sapientia nitantur: “Philosophi”, dicunt. Hoc autem cum dicunt, Aristotelis intelligi volunt. Atque cum quidpiam confirmare opus est, proferunt dicta in his libris quos Aristotelis esse dicunt: verba aspera, inepta, dissona, que cuiusvis aures obtundere ac fatigare possent. Hec dicit, inquiunt, Philosophus; huic contradicere nefas est, idemque apud illos valet et “ ipse dixit “ et veritas; quasi vero aut ille solum philosophus fuerit, aut eius sententie ita fixe sint, quasi eas Pythius Apollo ex sanctissimo adito suo ediderit.
Nec ego nunc, mehercule, ista dico ut Aristotelem insecter, nec mihi cum illo sapientissimo homine bellum ullum est, sed cum istorum amentia; qui si tantum ignorantie vitio obnoxii essent, illi quidem non laudandi, sed tamen in hac temporum conditione ferendi; nunc vero cum ignorantie eorum tanta arrogantia iuncta sit, ut se sapientes et appellent et existiment, quis eos equo animo ferre possit? De quibus vide, Coluci, quid ego sentiam. Non puto illos ne minima quidem in re, quid Aristoteles senserit recte tenere, habeoque huius rei gravissimum testem, quem tibi adducam. Quis iste? Idem qui lingue latine parens est, Marcus Tullius Cicero, cuius ego. Salutate, ideo tria nomina profero ut ille in ore meo diutius obversetur: ita mihi dulcis est cibus».
«Recte tu quidem, Nicolae, inquit Colucius; neque enim Cicerone nostro quisquam omnium magis amandus est, magisque in dehciis habendus. Sed tamen quo in loco ista dicit? Non enim teneo».
«Est, inquit, hoc in principio Topicorum a Cicerone scriptum9; nam cum Trebatius iureconsultus cum quodam summo rhetore egisset, ut is sibi eorum locorum qui ab Aristotele expositi sunt, rationem explicaret, ille vero se hec aristotelica ignorare respondisset, scripsit ad eum Cicero minime se admirari eum philosophum rhetori non esse cognitum, qui ab ipsis philosophis, preter admodum paucos, ignoraretur. Satisne tibi videtur noster Cicero hoc ignavum pecus a presepibus arcere? Satisne videtur illis occurrere, qui se in Aristotelis famiham tam impudenter ascribunt? Preter admodum paucos, inquit. An isti se ex illo admodum paucorum numero dicere audebunt? Credo, ea impudentia sunt; sed ne nos decipiant, queso. Nam eo tempore loquitur Cicero cum difficiHus indocti homines quam nunc docti reperirentur: scimus enim nunquam magis quam Ciceronis tempore latinam linguam floruisse; et tamen ita loquitur ut supra exposuimus. Quem igitur philosophum ipsi philosophi, preter admodum paucos, eo tempore ignorabant, quo omnis ars omnisque doctrina florebat, quo doctorum hominum magna copia erat, quo omnes non minus grecas litteras quam latinas docti, eum in sua sede atque in suo sapore legebant, quem, inquam, tunc, cum ista omnia erant, ipsi philosophi preter admodum paucos ignorabant, eum in hoc tanto doctrinarum omnium naufragio, in hac tanta doctorum hominum penuria, isti nihil sapientes homines, quibus nedum grece, sed ne latine quidem littere satis cognite sunt, non ignorabunt? Fieri non potest, mihi crede, Coluci, ut illi quicquam recte teneant, presertim cum hi libri, quos Aristotelis esse dicunt, tam magnam transformationem passi sunt, ut si quis eos ad Aristotelem ipsum deferat, non magis ille suos esse cognoscat quam Acteonem illum10, qui ex homine in cervum conversus est, canes sue cognoverint. Nam studiosum eloquentie fuisse Aristotelem atque incredibili quadam cum suavitate scripsisse, Ciceronis sententia est11, Nunc vero hos Aristotelis libros, si tamen eos Aristotelis esse putandum est, et molestos in legendo et absonos videmus, tantaque obscuritate perplexos, ut preter Sybillam aut Edipodem nemo intelligat. Quamobrem desinant isti preclari philosophi hanc suam sapientiam profiteri. Neque enim tantum ingenio valent, ut si maxime facultas discendi esset, eam consequi possent, neque si maxime ingenio valerent, facultatem ullam addiscendi hoc tempore video. Sed satis multa de philosophia.
Quid autem de dialectica, que una ars ad disputandum pernecessaria est? An ea florens regnum obtinet, neque hoc ignorantie bello calamitatem ullam perpessa est? Minime vero. Nam etiam illa barbaria, que trans oceanum habitat, in illam impetum fecit. At que gentes, dii boni? Quorum etiam nomina perhorresco: Farabrich, Buser, Occam, aliique eiusmodi, qui omnes mihi videntur a Rhadamantis cohorte traxisse cognomina12. Et quid est, Coluci, ut hec ioca omittam, quid est, inquam, in dialectica quod non britannicis sophismatibus conturbatum sit? Quid quod non ab illa vetere et vera disputandi via separatum et ad ineptias levitatesque traductum?
Possum hec eadem de grammatica arte, hec eadem de rhetorica, hec eadem de reliquis fere omnibus dicere; sed nolo esse verbosus in his rebus probandis, que manifestissime sunt. Quid enim cause dicemus esse, Coluci, quod his tot iam annis nemo inventus sit, qui aliquam prestantiam in his rebus habuerit? Neque enim hominibus ingenia desunt, neque discendi voluntas; sed sunt, ut opinor, hac perturbatione scientiarum desiderationeque librorum omnes vie addiscendi precluse, ut etiam si quis existat maxime ingenio validus maximeque discendi cupidus, tamen, rerum difficultate impeditus, eo quo cupiat pervenire non possit. Non enim potest quisquam sine doctrina, sine magistris, sine libris aliquid excellens in studiis suis ostendere. Quarum rerum omnium quoniam facultas nobis adempta est, quis tandem mirabitur, si nemo iamdiu ad illam antiquorum dignitatem ne longo quidem intervallo proximus accesserit? Quamquam ego, Salutate, iamdudum hac de re non sine rubore loquor: tu enim orationem meam presentia tua refellere ac labefactare videris, qui profecto is es, qui sapientia atque eloquentia veteres illos, quos tantopere admirari solemus, vel anteiveris vel certe adequaveris. Sed dicam quod sentio de te, nec mehercule assentandi gratia. Tu mihi videris isto tuo prestantissimo ingenio ac pene divino, etiam his rebus deficientibus, sine quibus alii non possunt, hec assequi potuisse. Itaque tu unus mihi sis ab hoc sermone exceptus; de aliis loquamur, quos communis natura produxit; qui si parum docti sunt, quis tam iniquus index erit, qui eorum culpe hoc ascribendum putet, ac non potius temporum vitio et buie rerum perturbationi? Nonne videmus quam ampio pulcherrimoque patrimonio hec nostra tempora spoliata sint? Ubi sunt M. Varronis libri, qui vel soli facere possent sapientes, in quibus erat lingue latine exphcatio, rerum humanarum divinarumque cognitio, omnis sapientie ratio omnisque doctrina? Ubi T. Livii historie? Ubi Sallustii? Ubi Plinii? Ubi innumerabilium aliorum? Ubi Ciceronis complura volumina? O miseram atque inopem conditionem horum temporum! Dies me profecto deficiet, si velim nomina eorum referre quibus etas nostra orbata est.
Et tu, Colucii, in tantis rerum angustiis, si non linguam in disputando velut flabellum agitemus, te nobis subirasci dicis. Nonne accepimus Pythagoram illum, cuius magnum est apud omnes gentes in sapientia nomen, in primis hoc preceptum auditoribus suis tradere solitum, ut quinquennale silentium agerent?13 Recte quidem: nihil enim putabat homo sapientissimus minus decere, quam de his rebus homines disputare quas non probe tenerent. Atque illi, Pythagoram philosophorum principem magistrum habentes, hoc non sine laude faciebant: nos, magistris, doctrinis, libris nudati, hoc sine reprehensione facere non poterimus? Non est equum, Colucii; quam ob rem da te nobis rectum hac in re, ut in ceteris soles, et hanc tuam subirationem omitte; nihil est enim a nobis commissum cur tu nobis succensere possis».
Hec cum Nicolaus dixisset magnaque esset omnium atten-tionc auditus, paulo silentium factum est. Tum Salutatus eum intuens: «Ne tu, inquit, Nicolae, fuisti in resistendo tam fortis, in disserendo tam gravisi Enimvero, ut est apud poetam nostrum, plus aliquid eras quam rebar14; quamquam ego semper te unum ad hec studia maxime natum aptumve putavi; sed tamen ego tantum facultatis inesse tibi non arbitrabar, quantum tu nunc in dicendo ostendisti. Itaque relinquamus, si placet, hanc totam de disputando disputationem».
Hic Robertus: «Tu vero perge, inquit. Salutate: nec enim decet te, qui modo nos ad disputandum hortatus sis, disputationem in medio positam deserere». «Equidem, inquit Colucius, iam timere incipio ne leonem, ut aiunt, dormientem excitarim. Sed tamen ne ille mihi noceat post videbo; nunc vero a te, Roberte, scire velim mecumne an cum Nicolao sentias. Nam ego de Leonardo non dubito: ita enim video illum in omni sententia cum Nicolao convenire, ut iam arbitrer potius cum ilio errare velie quam mecum recta sequi».
Tum ego: «Et te, inquam. Salutate, permagni facio, et Nicolaum item; quare me equum iudicem habebis, quamvis non sum nescius non magis Nicolai causam quam meam hoc sermone agi». «Ego vero, inquit Robertus, non ante sententiam meam aperiam, quam ab utroque vestrum fuerit peroratum: quare perge, ut instituisti».
«Pergam, inquit Colucius, et id quod facillimum est, hunc refellam. Nam ego sic arbitror: illam accuratissimam orationem, qua iste paulo ante usus est, non tam ad se purgandum, quam ad se damnandum valuisse. Quid ita? Quia, que verbis probabat, ea oratio sua re atque veritate infringebat. Quare? Quia in se purgando labem istorum temporum conquerebatur, omnemque facultatem disputandi ademptam esse dicebat; ipse autem in his probandis subtilissime disputabat. Quid tum? Istane illum condemnant? Ita puto. Quamobrem? Quia stare non possunt hec, neque coherent, ut que fieri posse quis neget, ea continuo ipse agat; nisi forte egregium quoddam ingenii acumen sibi esse diceret, ut videlicet ea posset que non item ceteri. Quod ego si illi concedam, magno me ere alieno liberabo, quo ille me paulo ante onustum fecit, cum ego sum ab ipso etiam antiquis illis, quos solemus admirari, prepositus. Sed ego nec tibi hoc, Nicolae, concedam, nec mihi tantum assumam, plurimosque esse confido, qui acritate ingenii et mihi antecellere et tibi pares esse possint».
Hic Robertus: «Patere, inquit, Coluci, ut antequam longius progrediare, ego te paululum interpellem: non enim video quin tibi contradicas; nam si hic Nicolaus, quem scimus disputationibus operam minus frequentem dedisse, satis disertus in respondendo fuit, et tu fateris, nobisque videtur, quid nobis tantopere succenses, si has disputationes non frequentavimus, cum possit quis, etiam sine hoc, studiis suis facere satis?».
Tum Colucius: «Ego, inquit, Roberte, quod id perutile esse putabam, idcirco vos ad disputandum cohortatus sum; cupio enim vos in omni humanitatis ratione quam excellentes videre. Nicolai vero oratione me delectatum esse fateor: neque enim elegantia in dicendo sibi defuit, neque subtilitas; sed si is absque disputandi exercitatione, que hoc maxime efficere potuit, tantum in respondendo valuit, quid putas illum, si ei rei operam dedisset, fuisse facturum?»
Hic cum sileret Robertus certaque vultus significatione assentiretur, conversus ad Nicolaum Colucius: «Te vero, inquit, Nicolae, par est hec eadem etiam queque Robertum concedere; magne sunt enim exercitationis vires, magni effectus; nihil est fere tam durum, nihil tam horridum, quod non moUiat usus atque expolliat. Nonne vides oratores, ut prope omnes una voce clament artem sine exercitatione parum valere? Quid in re militari? Quid in certaminibus? Quid denique in omni re? Quicquamne eque ac exercitationem valere compertum est? Nos igitur, si sapimus, hoc idem exercitationem in studiis nostris posse credemus, eique rei operam dabimus, nec eam negligemus. Est autem exercitatio studiorum nostrorum collocutio, perquisitio, agitatioque earum rerum que in studiis nostris versantur: quam ego uno verbo disputationem appello. Harum tu rerum si putas facultatem nobis hoc tempore ademptam propter hanc, ut tu inquis, perturbationem, vehementer erras. Sunt enim optime artes labem aliquam passe; neque enim id unquam negabo; non tamen sunt ita delete, ut eos qui se illis tradidere doctos ac sapientes facere non possint. Nec tamen tunc, cum he artes florebant, omnibus placebat ad cacumen evadere, pluresque erant qui paucis, ut Neoptolemus15, quam qui omnino philosophari vellent; quod item nunc ut faciamus nihil prohibet. Denique videndum est tibi, Nicolae, ne dum ea solum velis que fieri non possunt, etiam ea que fieri possunt asperneris et negligas. Non extant omnes Ciceronis libri? At aliqui supersunt, nec parva quidem pars; quos vel ipsos utinam probe teneremus; non enim adeo nobis ignorantie calumnia esset pertimescenda. Perditus est M. Varro? Dolendum est, fateor, et moleste ferendum; sed tamen sunt et Senece libri, et aliorum permulti, qui nobis, nisi tam delicati essemus, facile M. Varronis locum supplerent. Atque utinam tot vel sciremus, vel etiam discere vellemus, quot hi libri, qui etiam nunc extant, nos docere possunt. Sed nimium, ut modo dixi, delicati sumus: que absunt cupimus; que adsunt negligimus. At contra oporteret presentibus, utcumque ea sint, uti, absentium vero, quandoquidem cogitando nihil proficimus, desiderium ex animo removere.
Quamobrem vide, queso, ne culpam tuam in aliud transferas, et que tibi imputanda sint, ea tu tempori imputare velis. Quamquam ego, Nicolae, nullo modo adducor, ut te eum existimem, qui non omnia que hoc tempore disci possunt, consecutus sis. Novi enim diligentiam tuam, vigilantiam, acritatem ingenii. Proinde ita te arbitrari velim, que modo disserui, magis ut verbis tuis resisterem, quam ut te lacesserem, a me esse dieta.
Verum ego hec omittere volo; sunt enim apertiora, quam ut de his disputandum sit. Illud vero cogitare non possum, qua tu ratione adductus dixeris neminem fuisse iamdiu, qui aliquam prestantiam in his studiis habuerit. Nam potes, ut alios omittam, vel tres viros quos his temporibus nostra civitas tulit, non prestantissimos indicare: Dantem, Franciscum Petrarcham, lohannem Boccatium, qui tanto consensu omnium ad celum tolluntur? Atqui ego non video, nec mehercule id me movet quod cives mei sunt, cur hi non sint omni humanitatis ratione inter veteres illos annumerando Dantem vero, si alio genere scribendi usus esset, non eo contentus forem ut illum cum antiquis nostris compararem, sed et ipsis et Grecis etiam anteponerem. Itaque, Nicolae, si tu sciens prudensque illos preteristi, afferas rationem oportet, cur ipsos aspernere: sin autem oblivione aliqua tibi dilapsi sunt, parum mihi gratus videris, qui eos viros memorie fixos non habeas, qui civitati tue laudi et glorie sunt».
Hic Nicolaus: «Quos tu mihi Dantes, inquit, commemoras? Quos Petrarchas? Quos Boccatios? An tu putas me vulgi opinionibus indicare, ut ea probem aut improbem que ipsa multitudo? Non est ita. Ego enim cum quid laudo, etiam atque etiam quamobrem id faciam mihi patere volo. Multitudinem vero non sine causa semper suspectam habui: sunt enim ita corrupta illius iudicia, ut iam plus ambiguitatis mihi afferant, quam firmitatis. Itaque ne mirator, si de bisce tuis, ut ita dicam, triumviris longe me aliter ac populum sentire intelliges. Nam quid est in illis quod aut admirandum aut laudandum cuiquam videri debeat? Ut enim a Dante incipiam, cui tu ne Maronem quidem ipsum anteponis, nonne illum plerumque ita errantem videmus, ut videatur rerum omnium fuisse ignarum? Qui illa Virgilii verba: “ Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames “16, que quidem verba nunquam alieni vel mediocriter quidem docto dubia fuere, quid sentirent apertissime ignoravit. Nam cum in avaritiam dieta essent, is tamquam prodigalitatem detestarentur accepit. M. vero Catonem, eum qui civilibus bellis interfuit, senem admodum barba cana atque prolixa describit, ignorans videlicet tempora; ille enim quadragesimo octavo etatis sue anno iuvenis etiam atque etate integra supremum diem Utice clausit Verum17. hoc leve est; illud autem gravius atque intolerabile, quod M. Brutum, hominem iustitia, modestia, magnitudine animi omnique denique virtutis laude prestantem, ob Cesarem interfectum libertatemque populi romani ex faucibus latronum evulsam summo supplicio damnavit18; lunium vero Brutum ob regem exactum in campis Elysiis posuit19. Atqui Tarquinius regnum a maioribus suis acceperat, coque tempore rex fuit, cum esse regem iura permittebant; Cesar autem vi et armis rem pubhcam occupaverat, interfectisque bonis civibus patrie sue libertatem sustulerat. Quamobrem, si sceleratus Marcus, sceleratiorem esse lunium necesse est; sin autem lunius laudandus, quod regem exegerit, cur non Marcus in celum toUendus, quod tyrannum occiderit? Omitto illud quod mediusfidius christianum hominem scripsisse me pudet: quod eadem fere pena eum qui mundi vexatorem, atque eum qui mundi salvatorem prodidisset, afficiendum putavit20.
Verum hec, que religionis sunt, omittamus; de his loquamur que ad studia nostra pertinent: que quidem ab isto ita plerumque ignorata video, ut appareat id quod verissimum est, Dantem quodlibeta fratrum21 atque eiusmodi molestias lectitasse, librorum autem gentilium, unde maxime ars sua dependebat, nec eos quidem qui rehqui sunt, attigisse. Denique, ut alia omnia sibi affuissent, certe latinitas defuit. Nos vero non pudebit eum poetam appellare, et Virgilio etiam anteponere, qui latine loqui non possit? Legi nuper quasdam eius litteras, quas ille videbatur peraccurate scripsisse: erant enim propria manu atque eius sigillo obsignate. At mehercule, nemo est tam rudis, quem tam inepte scripsisse non puderet. Quamobrem, Coluci, ego istum poetam tuum a concilio litteratorum seiungam atque eum lanariis, pistoribus atque eiusmodi turbe relinquam. Sic enim locutus est ut videatur voluisse huic generi hominum esse familiaris.
Sed satis multa de Dante. Nunc Petrarcham consideremus, quamquam non me fugit quam periculoso in loco verser, uti mihi sit etiam universi populi impetus pertimescendus, quem isti tui preclari vates nugis nescio quibus, neque enim aliter appellanda sunt, que isti in vulgus legenda tradiderunt, devinctum habent. Verum ego libere dicam quod sentio: vos autem rogo atque obsecro, ne hanc meam orationem efferatis. Quid igitur, si pictor quispiam, cum magnam se habere eius artis scientiam profiteretur, theatrum aliquod pingendum conduceret, deinde magna expectatione hominum facta, qui alterum Apellen aut Zeuxin temporibus suis natum esse crederent, picture eius aperirentur, liniamentis distortis atque ridicule admodum picte, nonne is dignus esset quem omnes deriderent? Ita censeo: nulla enim venia dignus est, is qui tam impudenter ea que nescit, scire se professus est. Quid autem, si aliquis musice artis mirabilem quandam peritiam habere pre se ferat, deinde cum is continuo id predicaret, magnamque turbam audiendi cupidam congregasset, nihil excellens in arte sua hunc posse appareret; nonne omnes ita discederent, ut istum tam grandia professum ridiculum hominem atque dignum pistrino iudicarent? Ita prorsus. Sunt igitur maxime despiciendi ii qui quod pollicentur adimplere non possunt. Atqui nihil unquam tanta professione predicatum est quanta Franciscus Petrarcha Africam suam predicavit: nullus eius libellus, nulla fere maior epistola reperitur, in qua non istud suum opus decantatum invenias22. Quid autem postea? Ex hac tanta professione nonne natus est ridiculus mus? An est quisquam eius amicus, qui non fateatur satius fuisse, aut nunquam illum librum scripsisse, aut scriptum igni damnasse? Quanti igitur hunc poetam facere debemus, qui, quod maximum suorum operum esse profitetur atque in quo vires suas omnes intendit, id omnes consentiant potius eius fame nocere quam prodesse? Vide quantum inter hunc et Maronem nostrum intersit: ille homines obscuros Carmine suo illustravit; hic Africanum, hominem clarissimum, quantum in se fuit, obscuravit. Scripsit preterea Bucolicon Carmen Franciscus; scripsit etiam Invectivas, ut non solum poeta, sed etiam orator haberetur. Verum sic scripsit, ut neque in bucolicis quicquam esset quod aliquid pastorale aut silvestre redoleret; neque quicquam in orationibus quod non artem rhetoricam magnopere desideraret.
Possum hec eadem de lohanne Boccatio dicere, qui quantum possit in omni opere suo manifestissimus est. Verum ego etiam pro eo satis dictum esse opinor. Nam cum illorum, qui tuo atque adeo omnium iudicio sibi permultum antecellunt, ego multa vitia demonstrarim, atque etiam plura, si quis in ea re occupatus vellet esse, demonstrari possent, potes existimare, si de lohanne dicere vellem, orationem mihi non defuturam. Illud tamen commune eorum vitium est, quod singulari arrogantia fuere, nec putaverunt fore quemquam, qui de suis rebus indicare posset; tantumque se ab omnibus laturos esse arbitrati sunt, quantum ipsi sibi assumerent. Itaque alter se poetam, alter se laureatum, alter se vatem appellat. Heu, miseros, quanta caligo obcecat! Ego mehercule unam Ciceronis epistolam atque unum Virgilii Carmen omnibus vestris opusculis longissime antepono. Quamobrem, Coluci, sibi habeant istam gloriam, quam tu per illos civitati nostre partam esse dicis; ego enim pro virili mea illam repudio, neque multi eam famam existimandam puto, que ab iis qui nihil sapiunt proficiscitur».
Hic Colucius subridens, ut solet: «Quam vellem, inquit, Nicolae, ut tu civibus tuis amicitior esses, etsi non me fugit, nunquam aliquem tanto consensu omnium probatum fuisse, quin adversarium invenerit. Habuit enim ipse Maro Evangelum, habuit Lanuvinum Terentius23. Pace tamen dicam tua quod sentio: omnes quos modo nominavi, multo quam tu mihi tolerabiliores videntur; illi enim singuli singulis nec suis civibus adversabantur; tu vero eo contentionis processisti, ut unus tres eosque tuos cives coneris evertere. Verum me horum hominum suscipere patrocinium eosque a tuis maledictis tutari tempus prohibet; precipitat enim iam dies, ut videtis. Itaque timeo, ne nobis ad hanc rem tractandam tempus deesset: est autem opus verbis non paucis ad illos defendendos; non quia tuis criminationibus respondere magnum sit aut difficile, sed quia non potest id recte fieri, nisi etiam laudes eorum admisceantur, quod pro magnitudine meritorum digne facere difficillimum est. Itaque ego istam defensionem aliud in tempus magis commodum differam. Nunc vero tantum dico: tu, Nicolae, homines istos tuo arbitratu vel parvi vel magni fac; ego quidem sic sentio, illos fuisse homines multis optimisque artibus ornatos dignosque eo nomine, quod tanto consensu omnium ipsis tributum est. Simulque illud teneo, et semper tenebo: nullam esse rem que tantum ad studia nostra quantum disputatio afferat; nec, si tempora hec labem aliquam passa sunt, idcirco tamen nobis facultatem eius rei exercende ademptam esse. Quamobrem non desinam vos cohortari, ut huic exercitationi quam maxime incumbatis».
Hec cum dixisset, surreximus.
Postridie vero, cum omnes qui pridie fueramus in unum convenissemus, additusque preterea esset Petrus Minii filius24, adolescens impiger atque facundus in primis, Colucii familiaris, placuit ea die, ut hortos Roberti viseremus. Arnum itaque transgressi, cum illuc perventum esset, inspectisque hortis, in porticum illam, que post vestibulum est, redissemus; sedens illic Colucius, cum parumper se collegisset, nobis iunioribus corona facta circumstantibus: «Quam ornatissima sunt, inquit, nostre urbis edificia, quamque preclara! Nam me nunc admonuere, cum in hortis essem, edes iste qua ante oculos habemus: sunt ille quidem honestorum fratrum, quos ego simul cum tota Pictorum familia semper dilexi amicosque habui. Sed videte, queso, splendorem edium; intueamini delicias atque amenitatem. Nec ego magis nunc ista miror, quam cetera luculentissima edificia, quibus universa hec urbs referta est, ut sepe mihi veniat in mentem eius, quod est a Leonardo dictum in oratione illa in qua laudes fiorentine urbis accuratissime congessit. Nam cum pulchritudinem laudaret “ magnificentia quidem “ inquit “ eas fortasse que nunc sunt, munditia vero et eas que nunc sunt, et eas que unquam fuerunt urbes Florentia superat”25. Quod ego verissime arbitror a Leonardo esse dictum; neque enim Romam aut Athenas aut Syracusas adeo mundas atque abstersas fuisse puto, sed longe in ea re ab hac nostra superari».
Tum Petrus: «Sunt ista vera, inquit, Coluci; sed non in hoc dumtaxat excellit: nam in ceteris quoque multis prestare ipsam videmus, quod ego cum antea per me ipsum putabam, tum vero, cum istam laudationem legerem, vehementer in ea sententia confirmatus sum. Pro qua quidem re omnes cives tibi habere gratias, Leonarde, debent: ita diligentissime laudes huius urbis prosecutus es.
Primo enim laudas urbem atque eius ornamenta; deinde originem a Romanis deductis; tertio loco res gestas foris domique describis, et in omni virtutis specie mirifice extollis. Verum illud maxime in ea oratione me delectavit, quod studia Partium nostrarum et a preclaro initio exorta et merito atque optimo iure ab hac civitate probas suscepta. Cesaream vero factionem, que huic nostre inimica est, referendo eorum scelera et deplorando libertatem populi Romani in summam invidiam adducis».
«Necesse id quidem Leonardo fuit, inquit Colucius, ad causam huius civitatis, quam susceperat, exornandam, ut in Cesares ipsos aliquanto inveheretur». «Ego vero, inquit Petrus, apud Lactantium Firmianum, hominem doctissimum atque eloquentissimum, legisse memini se admodum admirari qua tandem de causa Cesar in celum toUatur, cum patrie sue fuerit parricida26 Hunc ego puto Leonardum secutum fuisse». «Quid opus est, inquit Colucius, ut Lactantium sequatur, cum Ciceronem atque Lucanum, homines doctissimos atque sapientissimos habeat auctores, et Svetonium legerit? Verum ego, ut de me profitear, nunquam adduci potui, ut parricidam patrie sue Cesarem fuisse arbitrarer, de qua quidem re satis a me diligenter, ut mihi videor, in eo libro quem de tyranno scripsi disputatum est, bonisque rationibus conclusum, non impie Cesarem regnasse27. Itaque nec parricidam fuisse unquam putabo, nec unquam desinam Cesarem in celum tollere pro magnitudine rerum quas gessit. Si tamen filii mei ad virtutem hortandi forent, vel a Deo id petendum, potius equidem optarem ut M. Marcello aut F. Camillo similes essent, quam C. Cesari. Illi enim non inferiores bello fuere, et ad hanc rei militaris virtutem sanctimonia vite accedebat, que, an in Cesare fuerit, ego nescio; illi autem qui vitam eius describunt, contra tradunt. Itaque non ignaviter, ut mihi videtur, Leonardus cause sue inserviens, cum virtutum Cesaris meminisset, vitiorum suspicionem inseruit, ut equis audientium auribus suam causam probaret. Nam mihi quidem dubium non est, quin ex eo tempore hec studia partium suscepta sint ab hac civitate, idque fuerit huius legitime conspirationis initium. Nam quod olim secutum est, ut viri illi fortissimi, qui contra Manfredum pro ulciscenda civitatis nota in Apuliam perrexerunt, in qua acie vestra, o Roberte, familia plurimum excelluit, non origo partium illa fuit, sed preclara restitutio28. li enim illo tempore rem publicam occuparant, qui diversum a voluntate huius populi sentiebant».
Tunc Robertus: «Mihi vero, inquit, Coluci, pergratissimum est famiham nostram in ea acie fuisse, que pro gloria huius civitatis iudicio omnium fortissime dimicarit. Sed quoniam in hanc mentionem incidimus, et tu edificia, lautitiam, studia partium, gloriam denique bello partam promptissime laudas, bene, ut opinor, feceris, si doctissimos homines, quos hec civitas genuit, contra hesternam vituperationem defendes. Nam tres illi vates non minima pars glorie sunt huius nostre civitatis».
Tunc Colucius: «Recte tu quidem putas, inquit, Roberte; neque enim minima pars glorie sunt, sed longe maxima. Verum quid agendum superest? Nonne heri sententiam meam satis deprompsi, quid ego sentirem de summis illis viris?» «Deprompsisti tu quidem, inquit Robertus; sed tamen ut ad criminationes responderes expectabamus». «Quas tu mihi criminationes? inquit Colucius. Quis est enim tam rudis, qui non perfacile illas refutaret? Scio enim defensiones illorum criminum vobis omnibus, qui hic adestis, esse manifestas. Sed nimium callldi esse vultis atque astuti. Quis enim est vestrum, qui non canum senem decipere posse arbitretur? Sed non est ita, credite mihi, iuvenes: nam longa vita nobis magistra est, et rerum experientia plus sapere docuit. Neque enim latebant heri me tue artes, Nicolae, cum vates nostros non solum reprehendebas, sed etiam acrimonia quadam in illos invehebare. Putasti enim me, argutiis tuis commotum, ad laudes illorum virorum statim prosilire, idque cum hoc Leonardo, opinor, communicaras, qui iamdudum non desinit a me petere ut laudes illorum litteris mandem. Quod etsi ego facere cupio, et Leonardo morem gerere, quoniam et ipse quotidie pro nobis labores suscipit e greco in latinum sermone transferendo29 tamen noUem, mi Nicolae, tuis fraudibus impulsus videri. Itaque cum mihi placuerit, laudes istorum hominum absolvam. Hodie vero id non faciam, ne tue artes id quod volunt consequantur».
Tunc Robertus: «Ego vero, inquit, Coluci, quoniam hic in meo regno estis, nunquam permittam vos abire, nisi prius ad illa crimina fuerit responsum». Et Nicolaus arridens: «Age, inquit, Roberte; quoniam artes nostre parum processere, vi aggrediamur». «Nunquam, mehercule, inquit Colucius, a me extorquebitis hodie, ut tamquam avis cavea inclusa canam; sed si vobis cordi est, huic Leonardo committatis; qui enim universam urbem laudarit, eundem hos quoque homines laudare par est». Tunc ego: «Si ego ipse pro eorum meritis digne facere id possem, Coluci, nullo modo gravarer; sed neque est in me tanta dicendi facultas, nec te presente quicquam tale auderem. Quamobrem aut Roberto morem gere, aut me arbitrum eligite ad hanc controversiam inter vos componendam». Hic cum omnes se id facere velie dixissent: «Ego, inquam, sedere volo, ut mea sententia valeat». Et simul ceteris omnibus, ut sederent, edixi. Quo facto, sententiam protuli: ut Nicolaus quos viros pridie impugnarat, eosdem ipse idem nunc defenderet, Colucio auditore atque censore.
Tum Colucius arridens: «Non potuit, inquit, melius neque rectius a Leonardo iudicari; nam nulla efficacior medicina est, quam cum contraria contrariis purgantur». Et Nicolaus: «Libentius, inquit, a te audissem, Coluci. Verum ut intelligas me eam rem ad te detulisse, quam ego ipse suscipere non recuso, modo facultas dicendi adsit, non repugnabo huic sententie; sed eam sequar dictoque parebo, atque per ordinem ad ea que contradicta erant respondebo. Illud tamen ante omnia certissimum habetote, me non alia de causa heri impugnasse, nisi ut Colucium ad illorum laudes excitarem. Sed difficile erat assequi, ut vir omnium prudentissimus ex vero animo loqui me, ac non fictum esse sermonem meum, arbitraretur. Nam viderat ille quidem me in omni etate studiosum fuisse, et inter libros litterasque semper vixisse; meminisse poterat, me istos ipsos florentinos vates unice dilexisse. Nam et Dantem ipsum quodam tempore ita memorie mandavi, ut ne hodie quidem sim oblitus, sed etiam nunc magnam partem illius preclari ac luculenti poematis sine ullis libris referre queo: quod facere non possem sine singulari quadam affectione. Franciscum vero Petrarcham tanti semper feci, ut usque in Patavium profectus sim, ut ex proprio exemplari libros suos transcriberem. Ego enim primus omnium Africam illam huc adduxi, cuius quidem rei iste Colucius testis est30l lohannem autem Boccatium quomodo odisse possum, qui bibhothecam eius meis sumptibus ornarim propter memoriam tanti viri, et frequentissimus omnium in illa sum apud religiosos heremitarum?
Quare, ut modo dicebam, difficile erat hanc technam Colucium latere, ut dissimulationem meam non intelligeret. An ille unquam putasset me, qui tanta benivolentie signa erga istos vates prebuissem, ita una die mutatum, ut laniste, sutores atque proxenete, homines qui nunquam litteras viderunt, nihilque unquam gustaverunt ex poetica suavitate, pluris facerent Dantem aut Petrarcham aut lohannem Boccatium, quam ego, qui semper illos colui semperque in deliciis habui; et non solum verbis, sed etiam re, ex quo ipsos videre non poteram, eorum memoriam decoravi? Permulta sane ignorantia foret, si huiusmodi hominum poemata nobis ereptum irent.
Hec ego ea de causa dico, ut intelligere possitis, id quod etiam me tacente manifestum erat, non ideo a me doctissimos viros reprehensos quod putarem reprehendendos, sed ut Colucium pre indignatione ad eorum laudes impellerem. Tuum enim, Coluci, ingenium, tuam dicendi artem scientiamque postulare videbantur fiorentini vates, idque mihi dulcissimum fuisset; quod quia tu in presentia facere non vis, ego tentabo, quantum vires ingenii mei facere poterunt, tuam vicem subire. Quod autem deerit, id tibi et Leonardo imputetur, qui mihi hanc imposuistis necessitatem».
Tunc Colucius: «Perge, inquit, Nicolae, nec diutius hoc munus deprecere». «Videntur ergo mihi, inquit Nicolaus, in summo poeta tria esse oportere: fingendi artem, oris elegantiam, multarumque rerum scientiam. Horum trium primum poetarum precipuum est; secundum cum oratore, tertium cum philosophis historicisque commune. Hec tria si adsint, nihil est quod amplius in poeta requiratur. Videamus igitur, si placet, qualia hec in nostris vatibus fuere: et primo a Dante, qui maior est natu, incipiamus. An quisquam est, qui dicere audeat fingendi artem illi defuisse, qui tam preclaram fictionem, tam inauditam trium regnorum adinvenerit? Qui ista per diversos tramites omnia distinxit, ut multiplicia huius seculi peccata suis queque locis, prout magnitudo cuiusque est, puniantur? Nam quid ego de paradiso ipsa loquar, cuius tantus ordo est, tantaque accuratione descriptio, ut nunquam satis digne adeo pulcherrima fictio laudari possit? Quid autem eius descensus aut ascensus? Quid comites illi atque duces, quanta elegantia excogitati? Que horarum observatio? Nam quid ego de facundia loquar, que omnes, qui ante se fuerunt, infantes ostenderit? Nulli sunt dicendi tropi, nulla rhetorice artis insignia, que per illius viri opera non mirifice sint diffusa, nec minus ornatus habent quam copie. Melliflua enim verborum flumina illaborate fluunt omniaque sensa sic exprimunt quasi oculis audientium aut legentium subiciantur; nec ulla est tanta obscuritas, quam eius non illuminet aperiatque oratio. Nam, quod omnium difficillimum est, acutissimas theologie philosophieque sententias limatissimis illis ternariis ita commode pronuntiat atque disceptat, ut ab ipsis theologis vel philosophis in scholis atque in otio vix queant pronuntiari.
Ad hec historiarum incredibilem scientiam: non enim vetera dumtaxat, sed etiam nova, nec domestica solum, sed etiam externa in hoc preclaro opere, vel exornandi causa vel doctrine gratia, conglutinata sunt. NuUus est in Italia situs, nullus mons, nuUus fluvius, nulla paulo nobilior familia, nullus vir, qui aliquid memoria dignum gesserit, quin ab ilio teneatur et in poemate suo percommode sit distributus. Itaque quod heri Colucius faciebat, ut Vergilio et Homero Dantem adequaret, nullo modo mihi displicet. Nescio enim quid in illorum poematibus sit, cui hoc nostrum non uberrime respondeat. Legite, queso, ea carmina, in quibus amorem, odium, formidinem ceterasque animi perturbationes exprimit; legite descriptiones temporum, legite celorum motus, legite stellarum ortus atque occasus, legite arithmeticas computationes, legite adhortationes, iurgationes, consolationes, deinde vobiscum reputate, quid sapientia perfectius aut eloquentia expolitius quisquam poeta queat proferre. Hunc igitur ego virum tam elegantem, tam facundum, tam doctum a litteratorum collegio ideo heri disiunxi, ut non cum illis, sed supra illos sit; non solum eos suo poemate delectet, sed universam civitatem.
Iam vero quoniam quid ego sentirem de cive, de vate, de doctissimo hoc viro satis, ut mihi videor, expressi, respondebo criminationibus que illi obiciuntur. M. Cato octavo et quadragesimo etatis anno iuvenis et etate integra defunctus est; Dantem vero illum barba cana et demissa fingit. Vanum est hoc crimen: non enim corpora ad inferos pergunt, sed defunctorum animi. Cur ergo crines affinxit? Quia mens ipsa Catonis, rigidi servatoris honesti et tanta vite sanctimonia prediti, etiam in iuvenili corpore canissima erat. Non audiebamus paulo ante Colucium quam flocci penderet adolescentiam? Nec immerito: est enim sapientia cane etatis et integritas morum ac temperantia que honestatem efficiunt. At illa Virgilii carmina: “Quid non mortalia pectora cogis, / auri sacra fames”31 et cetera, quid sentirent ignoravit. Vereor potius ne ipse Dantes a nobis ignoretur; nam quid attinet dicere ipsum hec carmina ignorasse, que etiam pueris nota sunt? Quo enim pacto potuit fieri, ut qui etiam obscurissima Vergilii sensa viderit atque perfregerit, ab hoc tam manifestissimo versu deciperetur? Non est ita; sed aut scriptorum menda est, qui plerumque rudes atque indociles ad scribendum accedunt, aut ad alterum extremorum tracta est Virgilii sententia; ut quoniam liberalitas virtus sit, extrema vero hinc avaritiam habeat, illinc prodigalitatem, que paria inter se vitia sunt, altero reprehenso, etiam ad alterum reprehensio trahatur. Nam ea res Virgilium quoque fefellit, et Statium, qui prodigalitatis penas dederat, avarum fuisse magnopere mirabatur32.
Quod autem tertium fuit, ut pari ferme pena eum qui mundi salvatorem atque eum qui mundi vexatorem necasset affici dicat, eodem vitio laborat, quo reprehensio de Catonis etate, quod crebro insipientes homines fallit, cum res a poeta dictas ita accipiunt, quasi vere sint atque non ficte. An tu putas Dantem, virum omnium etatis sue doctissimum, ignorasse quo pacto Cesar dominium adeptus fuerit? Ignorasse libertatem sublatam et ingemiscente populo romano diadema a M. Antonio capiti Cesaris impositum? Credis tante virtutis fuisse ignarum, quanta M. Brutum preditum fuisse omnes historie consentiunt? Nam illius iustitiam, integritatem, industriam, magnitudinem animi quis non laudat? Non ignoravit hec Dantes, non; sed legitimum principem et mundanarum rerum iustissimum monarcham in Cesare finxit; in Bruto autem seditiosum, turbulentum ac nefarium hominem, qui hunc principem per scelus trucidare!; non quod Brutus eiusmodi fuerit; nam si hoc esset, qua ratione a senatu laudatus fuisset tamquam libertatis recuperator? Sed cum Cesar quocumque modo regnasset, Brutus autem una cum amphus sexaginta nobihssimis civibus eum interfecisset, sumpsit poeta ex hoc fingendi materiam. Cur ergo optimum et iustissimum virum et libertatis recuperatorem in faucibus Luciferi coUocavit? Cur Virgilius castissimam muherem, que pro pudicitia conservanda mori sustinuit, ita hbidinosam fingit, ut amoris gratia seipsam interimat33? Pictoribus enim atque poetis quidhbet audendi semper fuit equa potestas. Quamquam non improbe fortasse, ut equidem puto, defenderetur M. Brutum in trucidando Cesare impium fuisse. Non desunt enim auctores, qui, vel propter affectionem illarum partium, vel ut imperatoribus placerent, factum illud Bruti scelestum atque impium vocent. Sed ad illam quasi parificationem Christi atque Cesaris prima defensio probabihor mihi videtur: idque sensisse poetam nostrum nullo modo ambigo.
At vero etsi omnia illi affuerunt, latinitas certe defuit. Hec dicebantur, ut Colucius in indignationem commoveretur: nam qui sane mentis equo animo hec audiret, qui totiens disputarit, qui carmina heroica scripserit, qui per tot studia approbatus fuerit, eum litteras ignorasse? Non potuit id ullo pacto fieri; sed et litteratissimum et doctissimum et facunciissimum et ad fingendum aptissimum fuisse illum necesse est, ut non modo opinio hominum, sed etiam scripta sua manifestissime declarant.
lam quoniam de Dante satis, ut opinor, dixi, de Petrarcha nostro panca dicamus; quamquam non paucis laudibus tanti viri excellentia contenta sit. Sed rogo ita a me accipiatis, ut ab homine non satis ad dicendum apto; maxime cum, ut omnes videtis, ex tempore mihi dicendum sit, sine ulla omnino premeditatione». Tunc Petrus: «Perge, inquit, Nicolae; nos enim quantum facultatis sit in te minime ignoramus, et modo cum Dantem ornares ac defenderes experti sumus. Nullus enim locus in illo homine laudando est a te pretermissus». «Cum igitur Patavium, ut supra dixi, profectus essem, inquit Nicolaus, ut libros Petrarche nostri transcriberem, non multos annos post mortem eius, solebam crebro convenire eos homines quibus ille, dum viveret, familiarissime utebatur; a quibus mores illius poete sic didici, quasi ipse vidissem; quamquam et ante a Ludovico theologo, homine sanctissimo atque doctissimo, idem audieram. Universi igitur asserebant permulta laude digna in illo viro fuisse, sed precipue tria. Nam et formosissimum fuisse, et sapientissimum eundemque doctissimum sue etatis hominem dicebant; hec omnia illi testibus rationibusque comprobabant. Sed de forma et de sapientia, quoniam hec duo privatam vitam respiciunt, omittamus. Puto equidem vobis inauditam non esse iliius viri maiestatem, continentiam, integritatem, sanctimoniam, ceterasque prestantissimas virtutes; sed nos ea que privata sunt, ut modo dicebam, omittamus. Doctrinam vero, quoniam ipse nobis communem illam reliquit, consideremus, qua ratione illi probarent in hoc quoque genere Petrarcham nostrum prestare. Dicebant igitur, cum doctrinam laudarent, omnibus poetis qui ante se fuerint Franciscum Petrarcham esse preponendum; et simul ab Ennio Lucretioque incipientes usque ad tempora nostra ita discurrebant ut quemcumque poetam in contentionem adducerent, ostendebantque unumquemque illorum in uno aliquo genere clarum fuisse: Ennii, Lucretii, Pacuvii, Accii opus Carmen fuisse atque poema; soluta vero oratione nihil laude dignum quemquam illorum unquam scriptitasse; Petrarche vero et pulcherrima poemata elegantissimis versibus extare et soluta oratione plurimos libros. Tantum enim ingenio valuisse eum, ut carminibus probatissimos poetas, soluta oratione disertissimos oratores adequaret; et cum mihi illius carmina ostendissent, heroica, bucolica, familiaria, afferebant solute orationis testimonia permulta volumina librorum atque epistolarum; ostendebant mihi exortationes ad virtutem, repreliensiones vitiorum, multa de colenda amicitia, de diligenda patria, de institutione rerum publicarum, de disciplina iuventutis, de contemnenda fortuna, de emendatione morum, ab eo viro perscripta, ex quibus facile intelligebatur uberrimam doctrinam in eo viro fuisse. Adeo autem illum ad omne genus scribendi ingenium accomodasse, ut ne populari dicendi genere se abstinuerit, sed in hoc, ut in ceteris quoque, elegantissimum et facundissimum videri.
Hec cum illi ostendissent, a me contendebant ut, si quem haberem ex omni antiquitate, qui tantis laudibus respondere posset, in medium afferrem; quod si facere nequirem, nec haberem quemquam, qui in omni genere eque profecerit, ut non dubitarem civem meum omnibus doctissimis viris, qui in hunc diem fuissent, anteferre.
Nescio quid vobis videatur: ego nunc ferme omnia loca attigi quibus illi causam suam confirmabant. Que, quoniam optima ratione concludi mihi videbantur, illis assensi mihique ita esse persuasi. An vero illi extranei homines ita putabunt; nos autem cives in laude civis nostri erimus frigidiores? Nec audebimus illum suis meritis ornare, presertim cum hic vir studia humanitatis, que iam extincta erant, repararit et nobis, quemadmodum discere possemus, viam aperuerit? Et nescio an primus omnium lauream in nostram urbem attulerit. At eius liber, in quo summum studium posuit, non multum probatur. Quis est tam gravis censor, qui non probet? Vellem percontari ab eo qua ratione id faciat; quamquam si quid esset in eo libro quod improbari posset, id illa de causa esset, quod morte preventus nequivit expolire. At bucolica eius nihil pastorale sapiunt! Ego vero id non puto; nam omnia et pastoribus et pecudibus referta video, cum te video».
Hic cum omnes arriderent: «Ego profecto, inquit Nicolaus, ea de causa dico, quod nonnuUos iam audivi, qui in his rebus Petrarcham criminarentur: nolite enim putare meas esse criminationes istas; sed cum ab aliis quibusdam audivissem, ad vos heri, qua tandem de causa scitis, retuli. Itaque placet nunc mihi, non me, qui simulate loquebar, sed insulsissimos homines, qui re vera id putabant, refellere. Nam quod aiunt, unum Virgilii carmen atque unam Ciceronis epistolam omnibus operibus Petrarche se anteponere, ego sepe ita converto, ut dicam me orationem Petrarche omnibus Virgilii epistolis, et carmina eiusdem vatis omnibus Ciceronis carminibus longissime anteferre.
Sed iam satis. Ad Boccatium veniamus, cuius ego doctrinam, eloquentiam, leporem, maximeque ingenii prestantiam in omni re omnique opere admiror: qui deorum genealogias, qui montes atque flumina, qui varios virorum casus, qui mulieres claras, qui bucolica carmina, qui amores, qui nymphas, qui cetera infinita, facundissimo atque lepidissimo ore cecinerit, tradiderit, scripserit. Quis igitur hunc non amet? Quis non observet, quis non in celum tollat, quis non hos omnes vates maximam glorie partem nostre civitatis putet?
Hec igitur habui, que de clarissimis vatibus referrem; ut autem apud homines doctos loquens, minima queque ac levia pretermisi. Te autem, Coluci, quoniam id te facturum esse polliceris, rogo nunc denique sine ulla, ut tu paulo ante dicebas, fraude, ut hos prestantissimos homines suscipias et tua facundia illustres».
«Ego vero, inquit Colucius, non video quicquam te reliquisse, quod ad eorum laudem addi possit». Tunc Petrus: «Ego, inquit, Nicolae, omni tempore tuam dicendi vim admiratus sum, et hodie potissimum admiror. Eam enim causam, ad quam vix tibi aditus relinqui videbatur, ita tractasti, ut neque melius neque elegantius orari potuerit. Quamobrem, si nobis iudicibus usus es, quandoquidem sedere ad causam audiendam lussi sumus, ego te mea sententia absolvo; et ut te semper doctum hominem bonumque virum censui, ita nunc censeo: et quidem maxime perspecta atque cognita virtute tua. Tu enim Dantis poema accuratissime didicisti, tu Petrarche amore in Patavium usque penetrasti, tu propter Boccatii affectionem bibliothecam eius tuis sumptibus ornasti, tu, relictis rebus omnibus, te totum litteris studiisque prebuisti; tu Ciceronem, Plinium, Varronem, Livium, omnes denique illos veteres qui latinam linguam celebravere, ita calles, ut universi homines qui aliquid sapiunt te magnopere admirentur».
«Ego vero, inquit Nicolaus, satis amplissima premia consecutus sum, cum tantas laudes in facundissimo ore invenerim. Sed parcius, obsecro, mi Petre; presentim cum ego me ipsum nullo modo decipio, sed et qui ego sim, et que facultas sit in me satis intelligo. Cum enim veteres illos, quos tu modo memorabas, lego, quod, si per occupationes meas liceat, libentissime facio; cum eorum sapientiam elegantiamque considero, tantum abest ut ego aliquid me sapere putem, qui tarditatem ingenii mei cognosco, ut ne summa quidem ingenia in hac tempestate discere aliquid posse videantur. Sed quo difficilius id puto, tanto magis florentinos vates admiror, qui, seculo repugnante, tamen superabundantia quadam ingenii assecuti sunt ut veteribus illis pares aut superiores evaderent». Et Robertus: «Nox ista te, Nicolae, inquit, nobis reddidit: nam eiusmodi a te heri dicebantur, que a nostro cetu pianissime abhorrebant». Tunc Nicolaus: «Heri, inquit, mihi propositum eram, ut libros tuos, Roberte, compararem; sciebam enim te si persuasissem, statim auctionem esse facturum».
Tum Colucius: «lube, inquit, Roberte, ut fores aperiantur; nam sine metu calumnie possumus iam prodire». «Ego vero, inquit Robertus, non iubebo, nisi prius mihi pollicearis…». «Quid?» inquit Colucius. «Ut cras apud me omnes cenetis; habeo enim nonnulla, que sermone convivali celebrari cupiam». «Hi tres, inquit Colucius, apud me cenaturi erant; quamobrem non tu illis cenam dabis, sed mihi». «Ut libet, inquit Robertus, modo veniatis». «Nos vero, inquit Colucius, ut pro hospitibus quoque meis tibi respondeam, veniemus. Tu autem para duplex convivium: alterum quo corpora, alterum quo animi nostri reficiantur».
His dictis reversi sumus, ipso quoque Roberto usque ad Pontem Veterem prosequente.
DIALOGHI A PIETRO PAOLO ISTRIANO
È antico detto di un sapiente che all’uomo, per essere felice, occorre soprattutto avere una patria insigne e nobile1 lo, invece, o Pietro, sono privo di questa fonte di felicità, perché la mia patria è stata abbattuta da frequenti colpi della sfortuna, e quasi ridotta a niente2; tuttavia ho il conforto di vivere in una città che sembra eccellere e primeggiare di gran lunga sulle altre. Infatti, questa città non solo è fiorentissima per numero di abitanti, per splendore di edifici, per grandezza di imprese, ma anche conserva certi semi delle più elevate arti e dell’intera cultura; i quali da tempo parevano estinti, ma invece si vanno sviluppando di giorno in giorno, e in breve, come credo, diffonderanno non piccola luce.
Oh, se tu potessi abitare con me in questa città! Non dubito che in tal caso, per la nostra familiarità, i nostri studi sarebbero stati più lievi nel passato, e sarebbero più piacevoli nel futuro. Ma dal momento che la tua personale situazione e un certo destino hanno voluto che, tuo e mio malgrado, tu venissi allontanato da me, non posso certamente non essere addolorato per la tua assenza; e pure ogni giorno con tanto ardore godo di quanto mi resta di te. Così stanno le cose: il tuo corpo lo separano da me monti e valli frapposte; ma il ricordo e l’affetto non li distaccheranno mai da me né la lontananza dei luoghi né alcun oblio. Non passa giorno che nella mia mente non torni più volte il ricordo di te. Certo io desidero sempre la tua presenza, ma la desidero soprattutto quando trattiamo di qualcuna di quelle cose di cui, quando eri qui, provavi piacere insieme con noi. Perciò non ti so dire quanto abbiamo rimpianto la tua presenza poco tempo fa, quando si ebbe una conversazione da Coluccio3. Certamente ti saresti entusiasmato sia dell’importanza dell’argomento su cui si disputava, sia anche dell’elevatezza dei presenti. Tu sai che non c’è persona più autorevole di Coluccio, e che Niccolò4, che lo contrastava, è ben pronto nel parlare e pungente nel provocare.
Allora ti mando il testo di quella disputa, che per te ho trascritto in questo libro, in modo che tu, sebbene assente, possa almeno in parte compiacerti delle nostre soddisfazioni. E nello scriverlo ho cercato soprattutto di conservare con la maggiore precisione possibile le posizioni dell’uno e dell’altro interlocutore. Quanto poi ci sia riuscito, sarai tu a giudicarlo.
In occasione delle feste solenni che si celebrano per la resurrezione di Gesù Cristo, trovandoci insieme Niccolò ed io, data la grandissima familiarità che ci unisce, si decise di andare da Coluccio Salutati, la persona certamente più eminente in questi tempi per sapienza, per eloquenza e per integrità morale. Ci eravamo appena mossi, che ci si fece incontro Roberto Rossi5, un uomo dedito allo studio delle arti liberali e nostro familiare. E anch’egli, dopo averci domandato dove andassimo, e aver sentito e approvato la nostra idea, venne con noi da Coluccio. Arrivati quindi da lui, Coluccio ci accolse con cordialissima familiarità e ci fece sedere; poi, dopo aver scambiato alcune parole – quelle che si è soliti dire quando ci si incontra fra amici –, si rimase tutti in silenzio; noi aspettando che Coluccio incominciasse per primo un qualche discorso, ed egli non pensando affatto che fossimo andati da lui senza alcuna idea e che non avessimo qualche cosa da proporre. Il silenzio durò piuttosto a lungo; quando fu chiaro che da noi, che eravamo andati da lui, non sarebbe uscito niente, Coluccio, rivoltosi verso di noi con quell’aspetto che è solito avere quando sta per esporre qualcosa con particolare cura, allorché ci vide tutti attenti verso di lui, incominciò così il suo discorso:
«Non potrei davvero dirvi, cari giovani, quanto mi fa piacere il vostro incontro e la vostra presenza. Voi siete persone a cui mi sento legato da particolare benevolenza ed affetto, sia per i vostri costumi, sia per gli studi che abbiamo in comune, e per i riguardi che avete verso di me. Ma in una cosa – ed è molto importante – io vi approvo poco. Mentre, infatti, in tutte le altre cose che riguardano gli studi vedo che mettete tutto l’impegno e l’attenzione che devono metterci coloro che vogliono essere detti uomini perbene e diligenti, in una, invece, vedo che siete poco attenti e non badate abbastanza al vostro interesse: e cioè nella consuetudine e nell’esercizio della discussione, che voi trascurate, mentre a mio parere niente altro potrebbe essere più utile ai vostri studi. Che c’è, infatti, o Dei immortali, che, per conoscere ed approfondire questioni sottili, serva più della discussione, nel corso della quale più occhi, per così dire, osservano da ogni parte la questione proposta, in modo che niente in essa riesce a sfuggire, niente a restare nascosto, niente ad ingannare lo sguardo di tutti? Che c’è che possa risollevare e rinvigorire un animo stanco, abbattuto e per lo più infastidito di questi studi in seguito alla lunga durata e all’assiduità dell’impegno, che i discorsi scambiati nel cerchio di un gruppo, nel quale ti senti fortemente infiammato a leggere e ad imparare, o dalla gloria, se superi gli altri, o dalla vergogna, se sei superato? Che c’è che più della discussione riesca ad aguzzare il nostro ingegno, a renderlo sagace e pronto, dal momento che è necessario che in un attimo sappia affrontare una questione, e quindi riflettere, osservare, collegare, concludere? Sicché è facile capire che, eccitato da questo esercizio, l’ingegno diviene più veloce nel decidere su tutte le altre cose. Non importa poi dire quanto la discussione perfezioni il nostro parlare, e ce ne renda completamente padroni. Voi stessi potete vedere come molti, per quanto sostengano di sapere di lettere e leggano libri, per non aver preso parte a questa esercitazione non riescono a parlare latino altro che con i loro libri.
Così io, che ho a cuore il vostro bene, e desidero vedervi quanto più possibile avanzare nei vostri studi, non mi sdegno a torto con voi se trascurate questa consuetudine della discussione, da cui derivano tanti vantaggi. E cosa assurda parlare fra sé nella solitudine delle proprie pareti e darsi molto da fare, e poi sotto gli occhi della gente e nelle riunioni rimanere zitti; e con grande fatica rivolgersi a quegli impegni che offrono un qualche vantaggio, e non voler attingere alla discussione da cui con grandissimo piacere ci vengono moltissimi benefici. Come sarebbe da criticare un agricoltore il quale, avendo la possibilità di coltivare tutta quanta la sua terra, si mettesse ad arare soltanto sterili zone montuose e lasciasse incoltivata la parte più pingue e più fertile del fondo; così sarebbe da rimproverare uno che, potendo compiere ogni studio, affronta con gran cura tutti gli altri, anche se di poca importanza, ma disprezza e trascura l’esercizio della discussione, dalla quale si ricavano tanti meravigliosi frutti.
Mi ricordo che quando, giovanetto, ero ancora a Bologna e studiavo la grammatica, ogni giorno ero solito non lasciare momento senza fare discussione, o provocando i compagni o interrogando i maestri. E quello che ho fatto da giovanetto, poi col passare degli anni non l’ho mai tralasciato; anzi, in ogni età della mia vita, niente mi è stato più gradito, niente ho tanto ricercato quanto incontrarmi, se ne avevo la possibilità, con uomini dotti, e ad essi esporre tutto ciò che avessi letto o meditato, e ciò su cui avessi dei dubbi, e su questi chiedere ad essi il loro pensiero.
So bene che tutti voi ricordate, e soprattutto tu, Niccolò – che per la stretta familiarità che ti legava a lui frequentavi molto la sua casa – il teologo Luigi, uomo di acuto ingegno e di straordinaria eloquenza, morto ormai da sette anni6. Quando era vivo, io andavo spesso da lui per esporgli proprio quelle stesse cose che ho detto poco fa. E se talvolta, come suole accadere, a casa non avevo pensato abbastanza su quale argomento parlare con lui in quel giorno, ci pensavo per la strada. Egli abitava oltre l’Arno, come sapete: ed io avevo preso il fiume come segno di riferimento, per cui, una volta oltrepassatolo, nello spazio intermedio fino a casa sua dovevo riflettere su che cosa mi proponevo di discutere con lui. E così, giunto, protraevo il colloquio per molte ore, e poi me ne venivo via sempre a malincuore. Il mio animo non riusciva mai a saziarsi dello stargli accanto. Quanto grande vigore c’era, o Dei immortali, nel suo pensiero! Quanta ricchezza! Quanta salda memoria! Egli possedeva non soltanto la cultura relativa alla religione, ma anche quella che chiamiamo gentile. Sulla bocca aveva sempre Cicerone, Virgilio, Seneca e gli altri antichi: e di loro non riferiva esclusivamente le opinioni e i detti, ma molto spesso anche le parole così precise che sembravano non prese da un altro, ma sue proprie. Non riuscivo mai ad esporgli qualcosa che gli giungesse nuova: tutto già da tempo egli aveva considerato e conosciuto. Da lui molte cose ho udito, molte ho imparato, molte anche, su cui prima ero incerto, ho potuto confermare sulla sua autorità.
Ma a che scopo parli tanto di te, dirà qualcuno? Forse soltanto tu sei uno che discute? Niente affatto. Avrei potuto, anzi, citare molti che ebbero la consuetudine di fare allo stesso modo. Ma ho preferito parlare di me, per poter proprio sostenere in coscienza quanto grande utilità ci sia nella discussione. Io, che sono vissuto fino ad oggi impiegando tutto il mio tempo e tutta la mia attività nell’impegno di imparare, ritengo di aver conseguito da queste discussioni e conversazioni, che chiamo dispute, così elevati frutti che gran parte di quello che ho imparato credo di doverlo a questo comportamento. Perciò io ora esorto voi, cari giovani, ad aggiungere alle vostre lodevoli ed eccellenti fatiche anche questo particolare esercizio, che finora vi è sfuggito, in modo che, con quanto di utile avete ovunque raccolto, possiate più facilmente arrivare là dove desiderate».
Allora Niccolò disse: «E proprio così, come dici, Coluccio. Non si potrebbe facilmente trovare, io credo, qualcosa che ai nostri studi sia più utile della discussione. Questo poi non lo sento dire ora da te per la prima volta, ma molto spesso l’ho sentito dire dallo stesso Luigi, il cui ricordo, da te rievocato, mi ha quasi fatto piangere. E quel Crisolora7, da cui costoro hanno imparato le lettere greche, una volta, quando ero presente io – e questo, come sapete, mi succedeva di frequente – a nessun’altra cosa esortò tanto i suoi ascoltatori quanto a discutere fra loro di qualche argomento. Ma egli esortava in modo sbrigativo e con parole semplici come se fosse ben noto che si trattava di cosa utilissima, senza stare a dimostrarne l’efficacia e l’importanza. Tu, invece, l’hai così presentata con le tue parole, ne hai così mostrati tutti i suoi effetti, da metterci chiaramente davanti agli occhi quanto essa valga. Non potrei quindi dire quanto il tuo discorso mi sia stato gradito.
Però se in questo impegno, o Coluccio, noi non ci siamo esercitati quanto tu pensi che sia necessario, non è colpa nostra, ma dei tempi: quindi, ti prego, non adirarti a torto con noi tuoi amici. Se in qualche modo tu ci dimostrerai che noi avremmo potuto agevolmente dedicarci alla discussione, non ricuseremo di ricevere da te, con severità, a causa della nostra omissione, non soltanto rimproveri ma anche sferzate. Ma se sarà evidente che noi siamo nati in un tempo in cui è avvenuta tanta perturbazione di tutte le discipline, tanta perdita di libri, che nessuno neppure di un argomento della più piccola importanza potrebbe parlare senza grande sfacciataggine, tu certamente ci scuserai se abbiamo preferito apparire muti piuttosto che sfacciati. Tu, del resto, non sei uno, come penso, che provi piacere di una vana loquacità; e ad essa non ci esorti; ma ci esorti, invece, a parlare con serietà e con coerenza, e in maniera tale che appaia che ciò che diciamo lo sappiamo e lo sentiamo. Ma per fare così bisogna possedere bene la materia su cui si vuole parlare; e non essa soltanto. Bisogna avere conoscenza anche delle conseguenze, degli antecedenti, delle cause, degli effetti, di tutto ciò, insomma, che ha relazione con una determinata materia. Ignorando tutto questo qualunque persona che si mette a discutere non potrà non apparire un inetto. Voi ora vedete bene quale mole di conoscenze tutto ciò richieda, perché sono tutte collegate fra loro in una meravighosa connessione, e uno non può conoscere poche cose senza conoscerne bene molte.
Ma ora basta su ciò; torniamo a quanto stabilito. Io dunque, o Coluccio, in questi brutti tempi e con tanta scarsità di libri, non vedo quale capacità di discussione uno possa conseguire. Quale buona arte, quale dottrina si può trovare in questo tempo che non sia stata rimossa dal suo posto o non sia stata completamente abbattuta? Osserva una qualunque di esse, quella che vuoi, e considera cosa è ora e cosa fu nel passato: capirai subito che sono giunte al punto che ormai c’è da disperare del tutto.
Guarda, ti prego, la filosofia, per prendere principalmente in considerazione quella che è la madre di tutte le buone arti, e dai cui fondamenti deriva tutta la nostra formazione culturale. Nel passato la filosofia fu portata dalla Grecia in Italia ad opera di Cicerone, ed irrigata da quell’aureo fiume di eloquenza: nei suoi libri non solo c’erano esposti i principi ispiratori di tutta la filosofia, ma c’erano anche diligentemente presentate le diverse scuole filosofiche. Cosa, questa, che, a mio parere, contribuiva moltissimo a diffondere gli studi; infatti, quando uno si accostava alla filosofia, subito aveva davanti a sé i maestri da seguire, ed imparava non soltanto a difendere le sue idee, ma anche a controbattere quelle degli altri. Ecco allora gli Stoici, gli Accademici, i Peripatetici, gli Epicurei; e quindi nascevano fra loro i contrasti e i dissensi. Oh, se restassero ancora quei libri, e non ci fosse stata la grande incuria dei nostri antenati! Essi ci hanno conservato Cassiodoro e Alcido8 ed altri simili sogni, che neppure una persona di scarsa cultura si è mai curata di leggere; mentre hanno trascurato e lasciato perire i libri di Cicerone, dei quali niente di più bello, niente di più gradito hanno mai prodotto le Muse della lingua latina. Certo, se quei libri li avessero appena assaggiati – come suol dirsi – a fior di labbra, certamente non li avrebbero mai trascurati. Possedevano, quei libri, una tale eloquenza che con facilità da un lettore non rozzo avrebbero ottenuto di non venir trascurati. Ma dal momento che una gran parte di quei libri è andata perduta, e questi che restano sono così corrotti che distano ben poco dalla morte, in che modo pensi che, in questo tempo, noi possiamo imparare la filosofia?
Certamente ci sono molti maestri di questa scienza, i quali promettono di insegnarla! O stupidi filosofi dei nostri tempi, se sono davvero capaci di insegnare quello che non sanno. Mi meraviglio davvero di costoro, per come abbiano fatto ad imparare la filosofia, dal momento che ignorano le lettere. Infatti, quando parlano fanno più solecismi che parole: e così preferirei ascoltarli quando russano piuttosto che quando parlano. Ora se uno chiede a costoro sull’autorità e gli insegnamenti di chi essi fondano questa loro altissima sapienza, rispondono: “Del Filosofo”. E quando dicono questo, vogliono che si capisca di Aristotele. E quando c’è bisogno di confermare qualcosa, mettono fuori affermazioni prese dai libri che essi dicono di Aristotele: parole aspre, inadatte, confuse, parole che potrebbero stordire e stancare le orecchie di chiunque. Questo dice il Filosofo – essi affermano – contraddirgli è empietà. Per loro hanno lo stesso valore l’“ipse dixit”, l’ha detto lui, e la verità. Proprio come se quello solo fosse stato filosofo, o le sue sentenze fossero sicure come se le avesse emesso Apollo Pizio dal suo santissimo accesso.
Ora, per Ercole, io non dico questo per offendere Aristotele; e non sono in guerra con quel sapientissimo uomo, ma con la follia di costoro. Se fossero rei soltanto della colpa dell’ignoranza, essi non sarebbero certamente meritevoli di lode, sibbene, dati i tempi, di sopportazione; ma ora, dal momento che alla loro ignoranza è congiunta tanta arroganza fino ad arrivare a chiamarsi e giudicarsi sapienti, chi potrebbe sopportarli di buon animo? Su costoro, o Coluccio, ecco la mia opinione: non credo che neppure riguardo alla più piccola questione conoscano bene il pensiero di Aristotele: e su questo io ho un testimone validissimo, che ti addurrò. Chi è? Lo stesso che è padre della lingua latina. Marco Tullio Cicerone, del quale, o Coluccio, io pronunzio tutti e tre i nomi affinché più a lungo si soffermi sulla mia bocca: così dolce cibo è per me».
«Bene davvero, o Niccolò – esclama Coluccio –. Nessuno merita di essere amato e tenuto caro più del nostro Cicerone. Ma in che punto dice codeste cose? Io non me ne ricordo».
«Si trovano scritte da Cicerone – riprende – all’inizio dei Topici9. Poiché il giurista Trebazio aveva chiesto ad un famoso retore di spiegargli il significato di alcuni punti esposti da Aristotele, e quello gli aveva risposto che non conosceva queste dottrine aristoteliche. Cicerone gli scrisse che non si meravigliava affatto che ad un retore fosse sconosciuto quel filosofo che era sconosciuto agli stessi filosofi, fatta eccezione di pochi. Non ti sembra abbastanza che il nostro Cicerone si scagli contro questo gregge indolente? Non ti sembra abbastanza che vada contro coloro che tanto sfacciatamente si collocano nella famiglia di Aristotele? Ad eccezione di pochissimi – dice. Ma costoro avranno il coraggio di dire che appartengono a quel numero così limitato? Lo credo bene, data la loro sfacciataggine; ma non ci lasciamo ingannare, ti prego. Cicerone parlava in un tempo in cui trovare uomini ignoranti sarebbe stato più difficile di quanto è ora trovare uomini colti – è noto che la lingua latina mai è fiorita di più che ai tempi di Cicerone – eppure egli parla così come abbiamo riferito sopra. Quel filosofo, dunque, che gli stessi filosofi, ad eccezione proprio di pochi, ignoravano in un tempo in cui fioriva ogni arte e ogni scienza, in cui grande era il numero dei dotti, in cui tutti conoscevano le lettere greche non meno di quelle latine, e lo leggevano nella sua espressione originaria, quel filosofo, dico, che in tempi in cui questa era la situazione, i filosofi, ad eccezione di pochissimi, lo ignoravano: e ora, in questo così grande naufragio di tutta la cultura, in questa così estesa penuria di dotti, questi uomini che non sanno nulla, che non conoscono abbastanza non solo le lettere greche ma neanche quelle latine, non lo ignoreranno? Non è possibile, credi, o Coluccio, che costoro conoscano bene qualcosa, soprattutto dal momento che questi libri, che dicono essere di Aristotele, hanno subito una così profonda trasformazione che se qualcuno li presentasse allo stesso Aristotele, egli non li riconoscerebbe come suoi più di quanto quell’Acteone10 dopo che da uomo fu trasformato in cervo, lo riconoscessero le sue cagne. Che Aristotele sia stato studioso di eloquenza e che abbia scritto con straordinaria dolcezza, è un’affermazione di Cicerone11: ora, invece, questi libri di Aristotele – se pure si debbano attribuire ad Aristotele – li troviamo noiosi nel leggerli, e falsi, e avvolti da tanta oscurità che ad eccezione della Sibilla e di Edipo nessuno potrebbe capirli. Perciò codesti illustrissimi filosofi smettano di proclamare questa loro sapienza: una sapienza che né essi valgono tanto d’ingegno da poterla conseguire, qualora ci fosse davvero la possibilità di imparare, né, se davvero valessero d’ingegno, vedo in questo tempo la possibilità di apprenderla. Ma ormai basta riguardo alla filosofia.
Che dire ora della dialettica, che è l’arte assolutamente necessaria per le dispute? Forse essa detiene un florido regno, e in questa guerra dell’ignoranza non ha subito nessun danno? Anzi: quella barbarie, che abita al di là dell’Oceano, si è scagliata contro di lei. E che genti, o buoni Dei! Tremo anche di fronte ai loro nomi: Farabrich, Buser, Occam e altri simili, che mi sembrano aver preso tutti il nome dalle schiere di Radamante12 E che c’è, o Coluccio, per cui io debba lasciare lo scherzo? Che cosa c’è, dico, nella dialettica che non sia stato sconvolto dai sofismi britannici? Che cosa che non sia stato separato da quella antica e vera arte del disputare, e trasferito in inezie e leggerezze? Lo stesso potrei dire della grammatica, lo stesso della retorica, lo stesso di quasi tutte le altre arti; ma non voglio essere troppo prolisso nel confermare una situazione già tanto nota.
Quale causa, infatti, diremo, o Coluccio, che c’è stata per cui già da tanti anni non si è trovato uno che si sia elevato in queste discipline? Uomini d’ingegno, e con la volontà di imparare, non mancano; piuttosto, a mio parere, tutte le strade all’apprendere sono state precluse da questo sconvolgimento della cultura e dalla mancanza di libri; così, anche se c’è qualcuno vahdo d’ingegno e desideroso d’imparare, trovandosi impedito dalla difficoltà della situazione, non può certo arrivare dove desidera. Senza insegnamento, senza maestri, senza libri nessuno può offrire qualche prova eccellente negli studi. Poiché in questo campo è stata tolta ogni possibilità, chi si meraviglierà se nessuno ormai si è più avvicinato all’elevatezza degli antichi, neppure dopo un lungo intervallo di tempo? Del resto, o Salutati, io già da molto tempo parlo di questo stato di cose non senza rossore, perché proprio tu, con la tua presenza, sembri confutare e demohre tutto il mio ragionamento, tu che certamente in sapienza e in eloquenza superi, o di sicuro raggiungi, quegli antichi che siamo soliti ammirare tanto. Ma dirò il mio pensiero su di te, e non certo, per Ercole, per adulazione. Mi pare che tu abbia potuto conseguire questo risultato per mezzo di codesto tuo altissimo e quasi divino ingegno, pur mancandoti quei mezzi, senza i quali gli altri non possono farlo. E così tu solo devi essere tolto da questo discorso. Parliamo degli altri, che sono venuti al mondo con doti comuni: e se sono poco dotti, chi sarà giudice tanto cattivo da pensare che questa condizione debba essere attribuita a loro colpa, e non piuttosto alla corruzione dei tempi e allo sconvolgimento della situazione? Non vediamo forse di quale enorme e splendido patrimonio siano stati spogliati questi nostri tempi? Dove sono i libri di Varrone, che da soli sarebbero capaci di fare i sapienti, e nei quali c’era l’esposizione della lingua latina, la scienza delle cose umane e di quelle divine, ogni elemento della sapienza ed ogni dottrina? Dove le storie di Livio? Dove quelle di Sallustio? Dove quelle di Plinio? Dove quelle di innumerevoli altri? Dove i tanti libri di Cicerone? O sventurata e povera condizione dei nostri tempi! Certamente mi mancherebbe il tempo, se volessi riferire i nomi di coloro di cui la nostra età è stata privata.
E tu, o Coluccio, in così gravi angustie dici di adirarti con noi se nelle dispute non sappiamo agitare la lingua come un flabello. Non sappiamo forse che quel celebre Pitagora, tanto famoso presso i popoli per la sua sapienza, aveva l’abitudine di dare ai suoi ascoltatori, in primo luogo, questo precetto: che per cinque anni non parlassero13? E a ragione: quell’uomo sapientissimo pensava che niente conviene di meno del parlare di cose che non si conoscono bene. E mentre quelli che avevano come maestro Pitagora, il principe dei filosofi, facevano questo non senza lode, noi, che siamo privi di maestri, di insegnamenti, di libri, non potremo farlo senza biasimo? Non è giusto, o Coluccio; perciò mostrati comprensivo con noi in questo, come sei soHto fare nel resto, e non essere più indignato: niente abbiamo commesso per cui tu debba essere irritato con noi».
Così parlò Niccolò, ascoltato da tutti con grande attenzione. Dopo un po’ di silenzio, il Salutati guardandolo disse: «O Niccolò, non sei stato mai così forte nel resistere, così autorevole nel disputare! Davvero, come dice un nostro poeta, tu valevi di più di quanto io pensavo14 anche se io ti ho sempre giudicato particolarmente nato e idoneo per questi studi. Tuttavia non immaginavo che tu avessi tanta capacità quanta ora hai dimostrato nel parlare. E così lasciamo ora, se siamo d’accordo, tutta questa disputa sul disputare».
Allora Roberto disse: «Ma tu continua, invece, o Salutati: non conviene che, ora che ci hai esortati a disputare, tu lasci a mezzo la disputa». «Incomincio proprio a temere– soggiunse Coluccio – di aver svegliato, come suol dirsi, il leone che dormiva. Pure, che non mi faccia male, ci penserò dopo. Ma intanto vorrei sapere da te, Roberto, se sei d’accordo con me o con Niccolò. Riguardo a Leonardo non ho dubbi: vedo che lui in ogni questione concorda con Niccolò, tanto che mi verrebbe da pensare che preferirebbe sbagliare insieme con lui che essere nel giusto insieme con me».
Allora io: «Moltissimo, o Salutati, io stimo te e ugualmente Niccolò; perciò mi dovrai considerare giudice giusto, per quanto non ignori che con questo ragionamento si difende una causa non tanto di Niccolò quanto mia». E Roberto: «Io non rivelerò il mio parere prima che mi sia stato richiesto da entrambi voi; perciò continua come hai incominciato».
«Continuerò – disse Coluccio – e, cosa del resto facilissima, confuterò Niccolò. Io, dunque, penso così: quell’accuratissimo discorso che ha tenuto poco fa è servito non tanto a difenderlo quanto a condannarlo. Perché questo? Perché ciò che approvava a parole, il suo discorso, in realtà e in verità, lo demoliva. Perché? Perché nel difendere se stesso lamentava la vergogna di questi tempi, e affermava che ormai è stata tolta ogni possibilità di disputare: e intanto egli nel sostenere tutto ciò disputava in maniera veramente sottile. E allora? Questo non lo condanna? Così penso. E perché? Perché sono due cose che non possono stare insieme né andare d’accordo: che, cioè, uno dica che certe cose non è possibile farle, e intanto egli stesso le stia facendo: a meno che non affermi di possedere un così straordinario acume d’ingegno da poter fare quello che gli altri non possono. Se io gli concederò questo mi libererò di un grosso debito di cui egli mi ha caricato poco fa, quando da lui io sono stato messo avanti anche a quegli antichi che siamo soliti ammirare. Ma io, o Niccolò, né concederò questo a te, né me lo prenderò per me, e confido che ci siano moltissimi che per acutezza d’ingegno possano superare me ed essere pari a te».
Qui Roberto: «Permettimi, o Coluccio, di interromperti per un po’, prima che tu prosegua oltre. Non vedo come tu non venga a contraddirti: se questo Niccolò, che sappiamo essersi applicato al disputare con scarsa frequenza, è stato abbastanza eloquente nel rispondere – come tu riconosci e anche a noi sembra –, perché ti adiri tanto con noi se non frequentiamo queste dispute, dal momento che anche senza di esse uno può fare abbastanza con i suoi studi?».
Allora Coluccio: «Io, o Roberto, vi ho esortati ad applicarvi al disputare perché lo ritengo molto utile: io desidero vedervi eccellenti in ogni settore culturale. In verità confesso di aver provato piacere nell’udire il discorso di Niccolò, perché nel parlare non gli manca né eleganza né sottighezza: ma se egli senza l’esercizio della discussione – che in questo campo può giovare moltissimo – è riuscito tanto bene nel rispondere, cosa pensi che sarebbe riuscito a fare se si fosse impegnato in tale attività?».
A questo punto, poiché Roberto stava zitto ma assentiva con chiara espressione del volto, Coluccio, rivolto a Niccolò, disse: «È giusto che tu mi conceda quanto mi concede Roberto: grande è, infatti, la forza dell’esercizio, grandi i suoi effetti; non c’è niente, forse, di tanto duro, niente di tanto aspro, che l’uso non riesca a rendere tenero e levigato. Non vedi che gli oratori, quasi tutti ad una sola voce, proclamano che l’arte senza l’esercizio vale bene poco? E nel campo militare? Nelle gare? E, infine, in ogni attività? Che cosa mai si è trovato che valga tanto quanto l’esercizio? Noi, dunque, se siamo saggi, riterremo che questo stesso risultato l’esercizio può procurarcelo negli studi, e ad esso ci apphcheremo e non lo trascureremo. L’esercizio nei nostri studi è colloquio, ricerca, discussione su tutto ciò che riguarda, appunto, i nostri studi: cioè, è quanto io con una parola chiamo disputa. Se tu pensi che siffatta possibihtà in questi tempi ci sia stata tolta a causa di questa, come tu la chiami, perturbazione, sbagli di molto. Le arti liberali hanno subito, sì, qualche danno, e non lo nego affatto: ma non sono certo state abbattute al punto da non rendere più dotti e sapienti coloro che ad esse si sono rivolti. Del resto anche quando queste arti erano in auge non a tutti piaceva arrivare alla cima, e più, come Neoptolemo15, erano quelli disposti a dedicarsi solo superficialmente all’impegno filosofico, rispetto a quelli che vi si dedicavano a fondo. E niente ci vieta di fare lo stesso anche oggi. Insomma occorre vedere, o Niccolò, se tu, mentre vuoi soltanto quello che non si può fare, disprezzi e trascuri anche quello che si può fare. Non rimangono tutti quanti i libri di Cicerone? Ma alcuni ci sono, e neppure una parte limitata. Volesse il cielo che noi li tenessimo per bene: non avremmo da temere l’accusa di ignoranza. E andato perduto M. Varrone? Certamente, confesso, è cosa che fa dolore e che si sopporta male. Tuttavia ci sono i libri di Seneca e moltissimi di altri, i quali, se non fossimo tanto difficili, potrebbero facilmente occupare il posto di quelli di Varrone. E volesse il cielo che noi sapessimo, o almeno volessimo imparare, tutto quello che potrebbero insegnarci i libri che ancora rimangono. Ma, come ho detto, siamo troppo difficili: bramiamo ciò che non c’è, trascuriamo quello che c’è. Al contrario, bisogna usare ciò che al presente c’è, comunque sia; e di quanto ci manca, dal momento che col pensarci sopra non si guadagna niente, allontanare il rimpianto dal nostro animo.
Perciò stai bene attento, ti prego, a non far ricadere una tua colpa su qualche cos’altro, e a non volere imputare al tempo quello che sarebbe da imputare a te stesso. Del resto io, o Niccolò, non mi sento affatto indotto a giudicarti uno che non è riuscito a conseguire tutto quello che di questi tempi si potrebbe imparare. Conosco bene la tua diligenza, la tua solerzia, l’acutezza del tuo ingegno. Inoltre vorrei che tu pensassi che tutto ciò che ora ho detto, l’ho detto più per tener testa alle tue parole che per colpire te.
Ma adesso io voglio mettere da parte tutto questo: si tratta di cose tanto evidenti che non c’è bisogno di stare ancora a discuterne. Ciò che invece non riesco a capire è per quale ragione tu abbia detto che ormai non c’è nessuno che in questi studi abbia raggiunto un qualche grado elevato. Potresti forse, per tralasciare gli altri, non giudicare elevatissimi almeno tre uomini che in questi tempi la nostra città ci ha presentato: Dante, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, che sono innalzati al cielo da tanto grande e universale consenso? Davvero io non riesco a vedere – e non mi muove, per Ercole, il fatto che sono miei concittadini – perché essi non siano da annoverare, sotto ogni aspetto dell’umana cultura, fra questi antichi. Dante, in verità, se avesse usato un’altra maniera di scrivere non mi accontenterei di metterlo insieme con i nostri antichi, ma lo porrei al di sopra di loro e dei Greci. Così, o Niccolò, se tu questi li hai tralasciati con deliberato proposito, bisogna che tu esponga la ragione per cui li disprezzi; se invece ti sono sfuggiti per una certa dimenticanza, mi sembra poco riconoscente non tenere fissi nella memoria quegli uomini che sono motivo di vanto e di gloria per la tua città».
A questo punto Niccolò esclamò: «Quali Danti, quali Petrarchi, quali Boccacci mi vieni a ricordare? Pensi forse che io giudichi in base alle opinioni del popolo, e così approvi o disapprovi quello che approva o disapprova la folla? Non è così. Quando lodo qualcosa io voglio che mi sia ben chiaro perché lo fo. Non senza ragione ho sempre sospettato della moltitudine: i suoi giudizi sono talmente corrotti che mi producono più confusione che sicurezza. Perciò non ti meravigliare se di questi tuoi, per così dire, triunviri sentirai che io la penso in maniera ben diversa dal popolo. Infatti, che c’è in essi che a qualcuno debba apparire degno di ammirazione e di lode? Per incominciare da Dante, al quale tu non anteponi neppure lo stesso Virgilio, non lo vediamo il più delle volte cadere in errori, tanto che sembra che sia stato all’oscuro di tutto? Egli che quelle parole di Virgilio «Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames»16’ («a che non spingi tu, esecranda fame dell’oro, gli animi umani?») – parole che mai risultarono dubbie a qualcuno anche di cultura limitata – ignorò completamente che cosa volessero dire: mentre erano dette contro l’avarizia, egH le prese come se imprecassero contro la prodigalità. Poi quel M. Catone, che partecipò alle guerre civili, lo descrive molto vecchio, con barba bianca e lunga, certamente ignorando i tempi: Catone morì in Utica ancora giovane e nel fiore dell’età, a quarantotto anni In verità questo è un errore leggero: ben pi grave e intollerabile è il fatto che M. Bruto, uomo elevatissimo per giustizia, modestia, grandezza d’animo e insomma per ogni virtù, lo abbia condannato con un orrendo supplizio per avere ucciso Cesare e per aver salvaguardato la libertà del popolo romano sottraendola alle fauci di ladroni e invece ha posto Giunio Bruto nei campi Elisi per aver cacciato il re Eppure Tarquinio aveva ricevuto il regno dai suoi maggiori, e fu re nel tempo in cui le leggi lo permettevano; Cesare, invece, si era impadronito del potere con la forza delle armi, e, uccisi i migliori cittadini, aveva tolto la libertà alla sua patria. Perciò, se Marco fu uno scellerato, ancor più scellerato deve essere ritenuto Giunio; se invece Giunio è da lodare per il fatto che cacciò il re, perché non si deve innalzare al cielo Marco per il fatto che uccise un tiranno? Tralascio ciò che, sulla mia parola, mi vergogno che sia stato scritto da un cristiano: che abbia pensato di colpire quasi con la stessa punizione sia colui che aveva tradito un persecutore del mondo sia colui che aveva tradito il salvatore del mondo20.
Ma lasciamo questi argomenti che sono di carattere religioso; parhamo di quelli che si riferiscono ai nostri studi. Ora vedo che questi il più delle volte sono stati ignorati da Dante; sicché appare la pura verità: che cioè egli lesse i “ quodlibeti” dei fratie altri noiosi scritti di tal genere, ma dei libri dei gentili, da cui soprattutto dipendeva la sua arte, non toccò neppure quelli che sono rimasti. Infine, posto pure che Dante abbia avuto tutte le altre doti, certamente gli mancò la conoscenza della lingua latina. Non ci vergogneremo allora di chiamare poeta, ed anche di anteporre a Virgilio, uno che non era capace di esprimersi in latino? Poco fa ho letto alcune sue lettere, che pareva le avesse scritte con tanta cura: erano di sua mano e con apposto il suo sigillo. Ma, per Ercole, non c’è alcuno tanto rozzo che non si vergognerebbe di aver scritto così male. Per tutto ciò, o Coluccio, codesto tuo poeta lo eliminerò dal concilio dei letterati e lo lascerò con i lanaioli, con i panettieri e con simile massa di gente: perché ha parlato in modo che sembra abbia voluto essere familiare a siffatto genere di persone.
Ho detto abbastanza su Dante. Ora prendiamo in considerazione Petrarca, per quanto non mi sfugga in quale pericolosa situazione mi venga a trovare: una situazione per cui devo temere la violenta reazione anche di tutto il popolo, che codesti tuoi illustri vati hanno abbindolato con non so quali sciocchezze: e non sono davvero da definire in altro modo le cose che costoro hanno dato a leggere al volgo. Ciononostante io esporrò liberamente il mio sentimento: e voi vi prego e scongiuro di non divulgare questo mio discorso. Dunque se un pittore, dopo aver proclamato di avere una grande conoscenza di quell’arte, avesse preso a dipingere un teatro, e poi – in mezzo ad una attesa popolare tanto diffusa da far credere alla gente che ai suoi tempi fosse nato un altro Apelle o un altro Zeusi – si scoprissero le sue pitture, e risultassero fatte con lineamenti distorti e in modo completamente ridicolo, costui non meriterebbe di essere deriso da tutti? Così la penso io: di nessun perdono è meritevole chi con tanta sfacciataggine abbia sostenuto di sapere quello che non sa. E se uno andasse dicendo di avere un’eccezionale perizia nell’arte della musica, e poi, dopo averlo di continuo proclamato e aver così raccolto una grande quantità di persone desiderose di ascoltarlo, si scoprisse che egli non possiede alcuna capacità in questa arte: forse non se ne andrebbero tutti, giudicandolo, dopo che aveva fatto tante grandiose promesse, ridicolo e meritevole di essere messo a far girare il mulino? Così, di certo, vanno dunque disprezzati al massimo tutti coloro che non sono capaci di realizzare ciò che promettono. Ora niente mai è stato presentato con tanta pubbhcità quanta quella con cui Francesco Petrarca ha presentato la sua Africa: non si conosce alcun suo scritto, non si conosce quasi nessuna sua lettera, di quelle più importanti, in cui non si trovi decantata questa sua operaE che poi? Da così grande esaltazione non è nato un ridicolo topo? C’è forse un amico suo che non riconosca che sarebbe stato meglio se non avesse mai scritto quel libro, e se una volta scritto lo avesse condannato al fuoco? Quanto, dunque, si deve valutare questo poeta, la cui opera più grande, come egli dichiara e nella quale ha impegnato tutte le sue forze, tutti concordano che, più che giovare, nuoce alla sua fama? Vedi quanta differenza c’è fra costui e il nostro Virgilio: Virgilio col suo poema ha reso illustri uomini oscuri, Petrarca, per quanto stava in lui, ha oscurato l’Africano, un uomo illustrissimo. Francesco ha scritto, inoltre, poesie bucohche; ha scritto anche invettive, sì da essere considerato non soltanto poeta ma anche oratore. In verità, però, le ha scritte in modo tale che nelle bucoliche non c’è niente che abbia il profumo dei pascoli e delle selve, e nelle orazioni non c’è niente che non indichi mancanza di arte retorica.
Potrei esprimere le stesse critiche riguardo a Giovanni Boccaccio, il cui valore è chiarissimo in ogni sua opera. Ma io penso che sia stato detto abbastanza anche per lui. Infatti, avendo io parlato dei molti difetti di coloro che a giudizio tuo e di tutti gli sono superiori – ed anche di più se ne potrebbero trovare, se uno volesse occuparsene –, puoi credere che non mi mancherebbero le parole se volessi parlare di Giovanni. Costoro, del resto, hanno questo difetto in comune: furono di straordinaria arroganza, e pensarono che non ci fosse alcuno che potesse esprimere giudizi sulle loro opere; ritennero pure che da tutti avrebbero ricevuto la stima che essi si attribuivano. Così uno chiama se stesso poeta, un altro laureato, un altro vate. Oh, poveretti, quanta caligine vi acceca! Io, per Ercole, una sola lettera di Cicerone e un solo carme di Virgilio, li antepongo di gran lunga a tutti i vostri libercoh. Perciò, o Coluccio, si tengano pure codesta gloria, che tu dici essere stata procurata alla nostra città per opera loro; io per parte mia la rifiuto, e penso che non si debba valutare molto la fama che proviene da chi non sa nulla».
A questo punto Coluccio sorridendo, come è il suo solito, disse: «Come vorrei, o Niccolò, che tu fossi un po’ più benevolo verso i tuoi concittadini, anche se non mi sfugge che mai qualcuno sia stato apprezzato con tanto generale consenso da non aver trovato un avversario. Lo stesso Virgilio ebbe avversario Evangelo, Terenzio ebbe Lanuvino23 Con tua buona pace ti dirò ciò che penso: quelli che ora ho nominato mi sembrano molto più sopportabili di te. Essi erano contrari ciascuno ad una singola persona, non a tutti i propri concittadini; tu, invece, sei arrivato a tal punto di critica che da solo cerchi di abbattere tre persone, e per di più tuoi concittadini. Ma ora il tempo mi impedisce di prendere la difesa di questi uomini, e proteggerli dai tuoi insulti: il giorno ormai sta per finire, come vedete. E così temo che ci mancherebbe il tempo per affrontare questo argomento. C’è bisogno di non poche parole per difenderli, non perché rispondere alle tue accuse sia gran cosa, o difficile, ma perché è una difesa che non si può fare bene senza aggiungervi anche le loro lodi: e questo, sì, è molto difficile farlo in maniera degna data la grandezza dei loro meriti. Così io rimanderò questa difesa ad un momento più adatto. Comunque per ora io dico: tu, o Niccolò, codesti uomini stimali a tuo piacere, o poco o molto; questo, invece, è il mio pensiero: che essi furono uomini forniti di vasta ed ottima cultura, e degni di quella fama che è stata loro attribuita da tanto grande e generale consenso. Insieme anche questo ritengo, e sempre lo riterrò: che non c’è niente che tanto possa giovare ai nostri studi quanto la discussione; e se questi tempi hanno sofferto una certa decadenza, non per questo ci è stata tolta la possibilità di compiere tale esercizio. Per tutto ciò non cesserò di esortarvi ad attendere il più possibile a questo esercizio».
Dopo che ebbe detto queste cose ci alzammo.
L’indomani, quando ci fummo riuniti tutti quelli che eravamo convenuti insieme il giorno precedente, e a noi si fu aggiunto Piero, figho di Mino24, un giovane attivo e buon parlatore, familiare di Coluccio, decidemmo di andare in quel giorno a visitare la villa di Roberto. Oltrepassato, dunque, l’Arno, allorché si fu giunti e si fu vista la villa, ritornammo nel portico che si trova dopo il vestibolo. E lì Coluccio, dopo essersi messo a sedere ed essere stato un po’ raccolto in se stesso, mentre noi più giovani, standogh intorno, gh facevamo corona, prese a dire: «Quanto sono belli gh edifici della nostra città, e quanto magnifici! Me lo hanno fatto notare, mentre eravamo nel giardino, quelle costruzioni che abbiamo dinanzi agli occhi: sono di stimati: fratelli, a cui io ho voluto sempre bene e che sempre ho avuto amici insieme con tutta la famiglia dei Pitti. Guardate lo splendore di questi edifici, osservatene la raffinatezza e l’incanto. Ma ora io non ammiro queste costruzioni più di tutte le altre splendidissime di cui è piena l’intera città, tanto che spesso mi viene a mente ciò che Leonardo ha detto in quell’orazione in cui benissimo ha raccolto i motivi di esaltazione di Firenze; e appunto, celebrandone la bellezza, dice: “Firenze per magnificenza supera forse tutte le città ora esistenti; per pulizia quelle ora esistenti e quelle che mai sono esistite Una affermazione che penso sia stata fatta da Leonardo con assoluta verità; credo, infatti, che né Roma, né Atene, né Siracusa siano state altrettanto eleganti e pulite, ma che sotto questo aspetto siano di gran lunga superate dalla nostra».
Allora intervenne Piero: «È tutto vero, o Coluccio; ma Firenze non eccelle soltanto in questo: anche nelle altre cose vediamo che è superiore a molte città. Lo pensavo prima per conto mio; ora, però, nel leggere codesto elogio, mi sono saldamente confermato in tale opinione. Per questo fatto tutti i concittadini debbono esserti grati, o Leonardo, tanta è stata la diligenza con cui hai fatto l’elogio di questa città. Prima di tutto tu lodi la città e le sue bellezze; poi le sue origini dai coloni romani; in terzo luogo descrivi le imprese esterne e quelle interne, e la celebri stupendamente in ogni specie di virtù. Ma ciò che più mi è piaciuto in quella tua orazione è che tu dimostri come lo spirito del nostro partito ha avuto un nobile inizio, e poi è stato assorbito da questa città a giusto e perfetto diritto, mentre porti a giudicare aspramente la fazione imperiale, che è nostra nemica, riferendone le scellerataggini e rimpiangendo la perduta libertà del popolo romano».
«Fu necessario a Leonardo – intervenne Coluccio – attaccare alquanto anche gli stessi Cesari, allo scopo, che si era proposto, di esaltare la nostra città».
«Io mi ricordo – disse Piero – di aver letto in Lattanzio Firmiano, uomo dottissimo ed eloquentissimo, che egli si chiedeva con molta meraviglia per quale motivo Cesare sia innalzato al cielo, dopo che è stato il parricida della sua patria26 Penso che Leonardo abbia seguito questo scrittore».
«Che bisogno c’è – esclamò Coluccio – che Leonardo segua Lattanzio, dal momento che ha letto Cicerone e Lucano, uomini dottissimi e sapientissimi autori, e anche Svetonio? Io però, per parlare di me, non mi sono mai potuto indurre a ritenere che Cesare sia stato parricida della sua patria: e questo argomento, a mio parere, io con dihgenza l’ho trattato abbastanza nel libro che ho scritto Sul tiranno, arrivando a concludere, con buone ragioni, che Cesare non regnò empiamente Perciò mai crederò che Cesare sia stato parricida, e mai cesserò di innalzarlo al cielo per la grandezza delle imprese da lui compiute. Se però dovessi esortare i miei figli alla virtù, o questo dovessi invocarlo da Dio, certamente preferirei che fossero simili a M. Marcello o a F. Camillo, piuttosto che a C. Cesare. Quelli non gli furono inferiori in guerra, ma al loro valore militare si accompagnava una probità che non so se Cesare l’avesse; coloro che ne narrano la vita, riferiscono il contrario. Non a torto, dunque, a mio giudizio, Leonardo, badando al suo scopo, dopo aver ricordato le virtù di Cesare, introdusse il sospetto dei suoi vizi, per rendere accetta la propria causa alle orecchie di giusti ascoltatori. Io non ho dubbi che proprio da quel tempo incominciarono in questa città i contrasti fra le parti, e che ciò fu l’inizio di questo legittimo accordo. Infatti, ciò che una volta successe, allorché quegli uomini fortissimi che andarono contro Manfredi in Puglia per vendicare l’oltraggio alla città – e in quella schiera, o Roberto, tanto si distinse la vostra famiglia – non fu l’origine delle parti, ma uno splendido ristabilimento28. Infatti, in quel tempo si erano impadronite del potere persone i cui sentimenti erano diversi dalla volontà di questo popolo».
Allora Roberto: «È per me cosa molto gradita, o Coluccio, che la mia famigha sia stata in quella schiera, la quale, a giudizio di tutti, combatté con tanto eroismo per la gloria di questa città. Ma dal momento che ci siamo trovati a fare questo ricordo, e tu vai lodando di Firenze tanto apertamente gli edifici, lo splendore, le passioni politiche, e infine la gloria conseguita in guerra, farai bene, a mio parere, se difenderai, contro le critiche di ieri, gli uomini dottissimi nati nella nostra città. Infatti, quei tre poeti non sono la parte più piccola della sua gloria».
Allora Coluccio: «Tu pensi bene, Roberto; essi non sono davvero la parte più piccola di questa gloria, ma anzi di gran lunga la maggiore. Ma che cosa resta da fare? Ieri non ho manifestato abbastanza il mio parere, che cosa cioè io penso riguardo a quegli uomini sommi?». «Certo che lo hai manifestato – disse Roberto – ma noi stavamo aspettando che tu rispondessi alle accuse». «Quali accuse? – riprese Coluccio – Chi è tanto inesperto che non le potrebbe ribattere con estrema facilità? So bene che la difesa da esse è chiara per voi tutti che siete qui. Voi però volete fare troppo i furbi e gli astuti. Chi c’è fra voi che non ritiene di poter ingannare un vecchio canuto? Ma non è così, credetemi, o giovani: la lunga vita è per noi maestra, e l’esperienza ci insegna ad essere più saggi. Ieri non mi sfuggiva la tua astuzia, o Niccolò, quando non solo criticavi i nostri poeti, ma ti scagliavi contro di loro con una certa acidità. Tu credevi che io, turbato dalle tue sofisticherie, sarei balzato subito a fare le lodi di quegli uomini; e di ciò avevi parlato, io penso, col nostro Leonardo, il quale già da vario tempo non cessa di chiedermi di mettere per scritto le lodi di costoro. Ora anche se io desidero farlo, e compiacere così anche a Leonardo – che ogni giorno lavora per me traducendomi un discorso dal greco in latino29–, tuttavia non vorrei apparire, caro Niccolò, spinto dalle tue astuzie. E così io esporrò le lodi di questi uomini quando mi piacerà. Oggi, dunque, non lo farò, affinché il tuo stratagemma non ottenga ciò che vuole».
Allora Roberto: «Ma, o Coluccio, dal momento che qui vi trovate nel mio regno, io non vi permetterò mai di andarvene, finché non sarà stato risposto a quelle accuse». E Niccolò sorridendo: «Orsù, Roberto, dato che i nostri stratagemmi hanno ottenuto poco, costringiamolo con la forza». E Coluccio: «Oggi da me non otterrete mai che io canti come un uccello chiuso in gabbia. Ma se la cosa vi sta tanto a cuore, affidatela a Leonardo che è qui: uno che ha fatto le lodi dell’intera città, è capace di fare le lodi anche di questi uomini». Io allora: «Se potessi farlo in modo degno dei loro meriti, o Coluccio, non mi dispiacerebbe affatto; ma io non ho tanto talento oratorio, e, te presente, non oserei una tal cosa. Perciò, o compiaci tu a Roberto, o scegliete me come arbitro per comporre questa controversia fra voi». A questo punto, poiché tutti dissero che erano d’accordo di fare così, soggiunsi: «Io voglio stare seduto, in modo che la mia sentenza abbia valore». E insieme ordinai a tutti gli altri di mettersi a sedere. Fatto ciò pronunziai la sentenza: lo stesso Niccolò fosse ora lui a difendere quegli uomini che il giorno prima aveva criticato; Coluccio se ne stesse come ascoltatore e censore. Allora Coluccio sorridendo: «Leonardo non avrebbe davvero potuto dare un giudizio migliore e più giusto di questo: infatti, non c’è medicina più efficace del curare un male col suo contrario».
E Niccolò: «Avrei avuto più piacere di ascoltare da te, o Coluccio. Pure, affinché tu capisca che io intendevo affidare a te la questione, che ora non rifiuto di affrontare io stesso – purché non mi manchi la capacità oratoria –, non mi opporrò a questa sentenza, ma la osserverò, e ubbidirò al comando, e risponderò per ordine a tutte le obiezioni. Comunque sia chiaro, prima di tutto, che ieri ho attaccato esclusivamente per spingere Coluccio a fare l’elogio dei tre poeti. Ma era difficile che un uomo che su tutti è il più saggio, credesse che io dicessi sul serio e che il mio discorso non fosse artefatto. Egli sapeva che io sono stato sempre applicato allo studio, e che in ogni momento della vita sono sempre vissuto fra i libri e le lettere; e poteva ben ricordare che questi stessi poeti fiorentini io li ho particolarmente amati. Proprio Dante una volta lo avevo imparato a memoria, tanto che neppure oggi l’ho dimenticato; anzi, anche ora potrei recitare gran parte di quel suo eccezionale e meraviglioso poema senza bisogno di alcun libro: cosa che certamente non potrei fare senza un vivo amore per lui. Francesco Petrarca, poi, l’ho sempre stimato tanto da essermi recato fino a Padova per trascriverne i libri dal suo stesso originale. Per primo io ho portato qui l’Africa, come può testimoniare Coluccio30 E Giovanni Boccaccio come potrei odiarlo io, che a mie spese ho ornato la sua biblioteca per riguardo alla memoria di così grande uomo, e tanto spesso la frequento presso il convento degli Eremitani?
Per tutto ciò, sarebbe stato molto difficile, come dicevo, che a Coluccio sfuggisse questa astuzia, tanto da non capire la mia finzione. Ma come egli avrebbe mai potuto pensare che io, che ho dato tante manifestazioni del mio amore verso questi poeti, fossi cambiato da un giorno all’altro tanto che lanaioli, calzolai e sensali – gente che mai si è occupata di lettere e che niente mai ha potuto gustare della dolcezza della poesia – stimassero Dante o Petrarca o Giovanni Boccaccio più di me, che sempre quei poeti ho coltivati e sempre li ho avuti molto cari: e ne ho onorata la memoria, dopo che non potevo più vederli, non solo a parole ma anche a fatti? Certamente grandissima sarebbe la nostra ignoranza se i poemi di tali uomini ci fossero portati via.
Tutto questo io dico affinché possiate capire – cosa del resto molto evidente anche se non ne avessi parlato – che io non ho criticato quegli uomini dottissimi perché ritenessi che fossero da criticare, ma perché Coluccio, sdegnato, si decidesse a farne le lodi. E certamente, o Coluccio, mi pareva che i poeti fiorentini richiedessero il tuo ingegno, la tua eloquenza, la tua dottrina: e questo per me sarebbe stato un risultato grandissimo. Ma, dal momento che ora tu non vuoi farlo, mi proverò io, per quanto me lo permetteranno le forze del mio ingegno, a prendere il tuo posto. Di quanto mancherà, la colpa sarà da imputare a te e a Leonardo, che mi avete imposto questo obbligo». Allora Coluccio: «Incomincia, o Niccolò, e non rimandare il tuo compito».
«Mi sembra necessario – disse Niccolò – che un sommo poeta abbia tre doti: l.’arte dell’immaginazione, l’eleganza dell’espressione, la conoscenza di molte cose. Di queste tre doti la prima è precipua dei poeti, la seconda i poeti l’hanno in comune con gli oratori, la terza coi filosofi e gli storici. Se un poeta ha queste tre doti, non c’è altro da ricercare in lui. Vediamo dunque, se siete d’accordo, quali di queste doti ebbero i nostri poeti: e incominciamo da Dante, che è il più lontano. C’è forse qualcuno che osi dire che l’arte dell’immaginazione è mancata a lui, che ha inventato quella così splendida, così inaudita, rappresentazione dei tre regni? Che questi regni li ha distinti tutti e tre in settori diversi, di maniera che i molteplici peccati del nostro mondo vengano puniti ciascuno al suo luogo, secondo la sua gravità? Che dovrei dire poi del paradiso in particolare, il cui ordine è tanto netto, la cui descrizione è fatta con tanta cura, che una così bella creazione mai potrebbe essere lodata abbastanza? Che cosa, poi, della sua discesa e della sua ascesa? Che cosa dei compagni e delle guide, tanto bene immaginati? Che del calcolo delle ore? E che dovrei dire della sua eloquenza, che fa apparire incapaci di parlare tutti coloro che vissero prima di lui? Non c’è bisogno che accenni ai tropi, ai pregi della sua arte retorica, che sono mirabilmente diffusi nelle sue opere, e non sono meno adorni che numerosi. Dolcissimi fiumi di parole scorrono senza fatica, ed esprimono tutti i pensieri come se fossero messi sotto gli occhi di coloro che ascoltano o che leggono. E non esiste oscurità alcuna che il suo discorso non illumini e apra. Infatti – cosa più difficile di ogni altra – egli sa esporre e discutere così bene in quelle sue precisissime terzine le più profonde questioni di teologia e di filosofia, che appena sono capaci di fare altrettanto nelle loro conversazioni scolastiche gli stessi teologi e filosofi.
A tutto questo c’è da aggiungere un’incredibile conoscenza delle vicende storiche: non soltanto quelle antiche ma anche le recenti, non soltanto quelle interne ma anche le esterne, sono raccolte in questa meravigliosa opera o per ragioni estetiche o per motivi culturali. Non c’è posto in Italia, non c’è monte, non c’è corso d’acqua, non c’è famiglia un po’ nota, un uomo che abbia compiuto qualcosa degna di ricordo, che da Dante non sia ricordato e nel poema non sia collocato proprio al suo giusto posto. Così quello che ieri faceva Coluccio, cioè considerare Dante pari a Virgilio e ad Omero, non mi dispiace affatto. Non so che cosa ci sia nei loro poemi che non abbia abbondante riscontro in quello del nostro poeta. Leggete, vi prego, quei canti in cui egli ritrae l’amore, l’odio, la paura e le altre umane passioni; leggete le descrizioni dei tempi, leggete i movimenti del cielo, leggete il sorgere e il tramontare delle stelle, leggete i calcoli aritmetici, leggete le esortazioni, le invettive, le consolazioni: e poi riflettete fra voi che cosa di più perfetto per sapienza e di più raffinato per eloquenza un poeta potrebbe dire. Quest’uomo, dunque, tanto elegante, tanto facondo, tanto dotto io ieri l’ho separato dal numero dei letterati per questo: perché stia non con loro, ma sopra di loro; perché col suo poema non diletti soltanto loro, ma tutta quanta la città.
Ora, dal momento che ho chiarito abbastanza, almeno mi pare, il mio pensiero su Dante come cittadino, come poeta e uomo dottissimo, risponderò alle accuse che gli vengono rivolte. M. Catone – si osserva – morì a quarantotto anni ancora giovane e nel fiore della vita; Dante, invece, lo immagina con la barba bianca e lunga. Questa è un’accusa inconsistente: nell’aldilà non vanno i corpi, ma le anime dei defunti. Perché, allora, ne rappresentò bianchi i capelli? Perché la mente stessa di Catone, custode rigido della virtù e uomo dalla vita tanto pura, era bianchissima anche nel suo corpo giovanile. Non abbiamo sentito poco fa Coluccio come stimava ben poco i giovani? Non a torto: sono la saggezza dell’età canuta, l’integrità dei costumi e la temperanza, che determinano la virtù.
Ma – si obietta – di quei versi di Virgilio “ A che non spingi tu, esecranda fame dell’oro, gli animi umani”31 e degh altri. Dante non comprese il senso. Temo, piuttosto, che noi non comprendiamo lo stesso Dante: infatti, a che serve dire che egli ignorava questi versi, che sono ben noti anche ai fanciulli? Come avrebbe potuto accadere che uno, il quale aveva intuito e penetrato i più nascosti sentimenti di Virgilio, venisse tratto in inganno da questo verso tanto chiaro? Non sta così: o è un errore di copisti, che il più delle volte si mettono a scrivere senza pratica e senza cultura, oppure la sentenza di Virgilio è stata tirata da uno dei due estremi: cioè, dato che la liberalità è una virtù, e dato che come estremi ha da una parte l’avarizia e dall’altro la prodigalità, che sono vizi tra loro pari, biasimando l’uno, il biasimo ricade anche sull’altro. Questo trasse in inganno anche Virgilio, il quale si meravighava molto che Stazio, che pure aveva scontato la pena della prodigalità, fosse stato avaro
La terza accusa poi che si fa a Dante, che cioè egli dica che quasi la stessa pena è inferta tanto a colui che uccise il Salvatore del mondo quanto a colui che uccise il tormentatore del mondo, presenta il medesimo errore della critica riguardo all’età di Catone, un errore che spesso inganna gli sciocchi che prendono le cose dette dai poeti come se fossero vere e non inventate. Ma forse tu pensi che Dante, l’uomo più dotto di tutti quelli del suo tempo, ignorasse in che modo Cesare avesse conseguito il potere? E ignorasse che era stata tolta la libertà e che con profondo dolore del popolo romano la corona era stata posta da Antonio sul capo di Cesare? Credi che ignorasse quanta straordinaria virtù tutte le storie concordano nell’attribuire a M. Bruto? Chi non loda la sua giustizia, integrità, operosità, grandezza d’animo? Dante non ignorò davvero tutte queste sue doti: ma in Cesare volle rappresentare il principe legittimo e il giustissimo monarca delle cose del mondo, in Bruto l’uomo sedizioso, turbolento e malvagio che con scelleratezza trucidò questo principe. Certamente non perché Bruto fosse stato tale: altrimenti, se fosse così, come avrebbe potuto venire esaltato dal senato quale restauratore della libertà? Ma siccome Cesare aveva comunque regnato, e Bruto insieme con più di sessanta fra i più nobili cittadini lo aveva ucciso, il poeta prese da questo evento materia per la sua invenzione artistica. Perché, dunque, un uomo ottimo e giustissimo, e per di più restauratore della libertà, Dante lo ha messo nelle fauci di Lucifero? E perché Virgilio una donna castissima, che per conservare la sua pudicizia accettò di morire, l’ha rappresentata così lussuriosa da uccidersi proprio per amore33? Ai pittori e ai poeti è stato sempre riconosciuto il diritto di osare qualunque cosa. Del resto non a torto forse, come io in realtà ritengo, si potrebbe sostenere che nel trucidare Cesare Bruto si comportò da empio. Non mancano certo autori i quali, o per passione di parte o per compiacenza verso gli imperatori, chiamano scellerato ed empio quell’atto di Bruto. Tuttavia per quella specie di equiparazione di Cristo e di Cesare mi sembra più idonea la prima difesa: e non dubito affatto che questo sia stato il pensiero del nostro poeta.
Però – si osserva ancora – a Dante, anche se ebbe tutte le doti, certamente mancò la conoscenza della lingua latina. Ma questa è un’affermazione che si faceva per spingere Coluccio all’ira: infatti, quale persona sana di mente starebbe di buon animo a sentir dire che fu ignaro delle lettere uno che ha tanto disputato, che ha scritto poemi, che ha avuto riconoscimenti in tanti studi? Questo non avrebbe potuto assolutamente accadere: necessariamente Dante fu e letteratissimo e dottissimo e facondissimo e abilissimo nell’inventare, come con molta chiarezza testimoniano non solo la comune opinione ma anche i suoi scritti.
Ora, poiché, come credo, ho parlato abbastanza di Dante, diciamo poche cose sul nostro Petrarca, sebbene l’eccellenza di un uomo così grande come lui non possa accontentarsi di poche lodi. Ma vi prego di accettare da me quanto dirò, come da uno non abbastanza capace a parlare; tanto più, come tutti ben vedete, che devo esporre all’improvviso senza essermi prima affatto preparato». Allora Piero: «Vai avanti, Niccolò: noi ben sappiamo quanto tu sia bravo, e lo abbiamo constatato mentre lodavi e difendevi Dante: nessuna opportunità è stata da te trascurata nel lodarlo». «Dunque, essendomi recato a Padova, come ho detto sopra – riprese Niccolò –, per trascrivere i libri del nostro Petrarca, non molti anni dopo la sua morte, mi incontravo spesso con quanti egli da vivo aveva avuto molta familiarità. Da essi venni a conoscere i costumi del poeta come se l’avessi visto di persona; e del resto le stesse cose le avevo sentite prima dal teologo Luigi, uomo virtuosissimo e dottissimo. Tutti, dunque, asserivano che egli aveva posseduto molte doti degne di lode, ma soprattutto tre. Dicevano, appunto, che era stato bellissimo, saggissimo e l’uomo più dotto della sua età: e tutto ciò lo sostenevano con testimonianze e con ragionamenti. Lasciamo da parte la bellezza e la saggezza, perché queste sono due doti che riguardano la vita privata. D’altra parte penso che abbiate sentito parlare della sua eccezionale maestà, della sua continenza, integrità, illibatezza e delle altre sue elevatissime virtù: ma noi tralasciamo, come dicevo, questi che sono aspetti personali. Prendiamo in considerazione, invece, la sua dottrina – perché questa egli l’ha lasciata a noi tutti –, e in che modo costoro dimostravano che anche in questo campo il nostro Petrarca eccelleva. Esaltandone, dunque, la dottrina, dicevano che Francesco Petrarca era da anteporsi a tutti i poeti vissuti prima di lui; e così, cominciando da Ennio e da Lucrezio fino ai nostri tempi, venivano a prendere in esame qualunque poeta, e mostravano come ciascuno di loro fosse stato insigne in un solo determinato genere. La produzione di Ennio, di Lucrezio, di Pacuvio, di Accio era stata esclusivamente di carmi e poemi, mentre in prosa nessuno di loro aveva mai scritto qualcosa degno di lode; del Petrarca, invece, c’erano bellissimi poemi in elegantissimi versi, e moltissimi libri in prosa. Tanto egli si era affermato col suo ingegno da uguagliare nella poesia i più stimati poeti, e nella prosa i più eloquenti oratori. Dopo avermi mostrato i suoi carmi – epici, bucolici, familiari –, come testimonianze dei suoi scritti in prosa mi recavano moltissimi volumi di trattati e di epistole: mi indicavano, scritte da lui, esortazioni alla virtù, riprensioni di vizi, molte cose sulla cura dell’amicizia, sull’amore di patria, sull’ordinamento degli stati, sull’educazione della gioventù, sul disprezzo della fortuna, sulla correzione dei costumi: opere tutte da cui facilmente si capiva che egli aveva avuto una straordinaria dottrina. Petrarca possedeva un intelletto così disposto verso ogni genere di composizione, che non si astenne neppure dallo scrivere in volgare: e anche in questo campo, come in tutti gli altri, si mostrò elegantissimo e facondissimo. Quelle persone poi, dopo avermi mostrato tutto ciò, mi sollecitavano, qualora avessi qualcuno, fino dai tempi più lontani, che fosse in grado di uguagliare così grandi pregi, a portarlo avanti; se, invece, non potevo farlo, e non avevo nessuno che in ogni genere fosse riuscito come Petrarca, non esitassi ad anteporre il mio concittadino a tutti gli uomini più dotti vissuti fino ad oggi.
Non so che cosa ne sembri a voi: io presi in considerazione tutti quegli elementi su cui essi fondavano la loro tesi; e poiché mi pareva che la loro conclusione fosse basata su ottime ragioni, fui d’accordo con loro, e mi persuasi che era così. O forse così penseranno quegli estranei; e noi, cittadini, saremo più freddi nel lodare un nostro concittadino? Non avremo il coraggio di onorarlo per i suoi meriti, specialmente per il fatto che fu lui a risollevare gli studi liberali, i quah ormai erano estinti, e che a noi egli aprì la strada per cui potessimo procurarci la cultura? E non so se non sia stato il primo fra tutti a portare alla nostra città l’alloro poetico. Ma – si dice – il libro a cui ha dedicato il suo maggiore impegno, non è stimato molto. E chi è così severo censore da non stimarlo? Vorrei chiedere a costui per quale ragione lo faccia; comunque se in quel libro ci fosse qualche cosa da criticare, essa deriverebbe dal fatto che, sopraggiunto dalla morte, Petrarca non la potè rendere perfetta. Ma le sue bucohche – si dice ancora – non hanno niente di pastorale! Questo non mi pare; infatti, vedo tutto pieno di pastori e di greggi, quando vedo te».
A questo punto, poiché ridevano tutti, Niccolò soggiunse: «Io dico così per il fatto che ho sentito alcuni accusare Petrarca proprio di questo: non pensate che codeste siano accuse mie; ma avendole sentite da altri, ieri ve le ho riferite per la ragione che ormai sapete. Perciò ora mi piace smentire non tanto me stesso, che parlavo simulando, quanto uomini del tutto sciocchi, che queste cose le pensavano sul serio. Infatti, il discorso che costoro fanno, che cioè un solo canto di Virgilio e una sola lettera di Cicerone essi la preferiscono a tutte le opere di Petrarca, io spesso lo rivolto, dicendo che di gran lunga preferisco un’orazione del Petrarca a tutte le lettere di Virgilio e le poesie dello stesso poeta a tutte le poesie di Cicerone.
Ma ormai basta. Veniamo a Boccaccio, del quale io ammiro la dottrina, l’eloquenza, l’arguzia, e soprattutto l’acutezza dell’ingegno in ogni questione e in ogni opera. Con linguaggio ricchissimo e piacevolissimo egli ha cantato, narrato, descritto, le genealogie degli dei, i monti e i fiumi, le varie cadute degli uomini illustri, le dame famose, i canti bucolici, gli amori, le ninfe e le altre infinite cose. Chi, dunque, non lo amerebbe? Chi non lo onorerebbe, non lo innalzerebbe al cielo? E chi non penserebbe che tutti questi poeti sono una parte grandissima della gloria della nostra città?
Questo, dunque, è quanto avevo da dire riguardo ai nostri più illustri poeti; d’altra parte, parlando a uomini dotti, ho tralasciato le cose meno importanti. Ora, però, prego te, o Coluccio, dato che hai promesso di farlo senza alcun inganno, come dicevi poco fa, di occuparti di questi uomini insigni e celebrarli con la tua eloquenza».
«In verità – disse Coluccio – io non vedo che tu abbia tralasciato qualcosa che si possa aggiungere a loro lode». Allora Piero: «Io, o Niccolò, ho sempre ammirato la tua abilità oratoria, e oggi l’ammiro in modo particolare. Una causa, che pareva che tu non potessi affrontare, l’hai trattata in modo tale che non avrebbe potuto essere perorata né meglio né più eloquentemente. Perciò, se hai preso noi per giudici, dal momento che ci è stato ordinato di stare seduti ad ascoltare la causa, io col mio voto ti assolvo; e come nel passato ti ho sempre considerato un uomo dotto e perbene, così ancora ti considero, tanto più dopo aver visto e conosciuto la tua virtù. Tu hai studiato con grandissima cura il poema di Dante, tu per amore di Petrarca sei andato a Padova, tu per affetto verso Boccaccio hai ornato a tue spese la sua biblioteca, tu, lasciata ogni altra preoccupazione, ti sei dato tutto agli studi letterari; tu Cicerone, Plinio, Varrone, Livio, tutti, insomma, quegli antichi che hanno esaltato la lingua latina, li conosci così bene che tutte le persone di una certa cultura ti ammirano moltissimo».
«Certamente – riprese Niccolò – io ho ricevuto un grandissimo premio nell’ottenere così alte lodi da una bocca tanto eloquente. Ma piano, mio Piero: tanto più che non m’inganno affatto, e capisco abbastanza chi io sia e quali capacità io abbia. Quando, infatti, leggo quegli antichi, che tu ora ricordavi – cosa che fo molto volentieri, se le mie occupazioni me lo permettono – quando rifletto sulla loro sapienza ed eleganza, mi sento tanto lontano, conoscendo la limitatezza del mio ingegno, dal pensare di sapere qualcosa: cosicché mi pare che neppure i più grandi ingegni, in questi tempi, possano riuscire ad imparare qualcosa. Ma quanto più reputo difficile questo risultato, tanto più ammiro i poeti fiorentini, i quali, nonostante l’avversità dei loro tempi, per l’eccezionale ricchezza del loro ingegno, riuscirono ad essere pari o addirittura superiori a quegli antichi». E Roberto: «Questa notte, o Niccolò, ti ha restituito a noi; ieri, infatti, tu dicesti cose che erano assolutamente lontane dalle idee del nostro gruppo». Allora Niccolò: «Ieri mi ero proposto, o Roberto, di procurarmi i tuoi libri; sapevo che se ti avessi persuaso, subito li avresti venduti all’incanto».
Allora Coluccio: «Dai ordine, Roberto, di aprire le porte; ormai possiamo uscire senza paura di calunnia». «Io però – disse Roberto – non darò quest’ordine se prima non mi prometterai…». «Che cosa?» disse Coluccio. «Che domani sarete tutti a cena da me: ho qualcosa che vorrei celebrare con un discorso conviviale». «Questi tre – intervenne Coluccio – dovevano essere a cena da me: perciò tu non offrirai la cena a loro ma a me». «Come ti pare – disse Roberto – purché veniate». «E noi – disse Coluccio – per risponderti anche da parte dei miei ospiti, verremo. Tu però prepara un doppio convito: uno per ristorare il corpo, l’altro per ristorare i nostri animi».
Così detto tornammo via, con Roberto che ci accompagnò fino al Ponte Vecchio.
1. L’affermazione deriva dal De ingenuis morihus composto nel 1401 da Pietro Paolo Vergerio: cioè dall’amico a cui il Bruni dedica i Dialogi. A sua volta il Vergerlo attribuiva il detto a Francesco da Carrara, signore di Padova dal 1350 al 1388 e poi, dopo l’abdicazione a favore di Francesco Novello, morto nel 1393.
Pietro Paolo Vergerio nacque a Capodistria nel 1370. Studiò a Padova e, giovanissimo, nel 1386 fu incaricato dell’insegnamento di dialettica nello Studio fiorentino. A Firenze entrò in amicizia con Coluccio Salutati e con gli studiosi riuniti intorno a lui. Dal 1388 al 1390 insegnò a Bologna e qui compose la commedia Paulus. Passò poi a Padova, dove rimase fino al 1397, divenendo amico di uno dei più illustri maestri dello Studio, Giovanni Conversini, e quindi dello stesso signore di Padova, Francesco Novello, per il quale scrisse orazioni e trattati, fra cui il De arte metrica insieme con Francesco Zabarella. In questi anni si dedicò alla pubblicazione e alla diffusione dell’Africa di Francesco Petrarca. Fra il 1398 e il 1399 tornò a Firenze per studiare greco con Manuele Crisolora: in quest’occasione, oltre che col Salutati, fu in rapporto col Bruni e gli altri umanisti fiorentini di’fine secolo. Tornò nuovamente a Padova nel 1405, laureandosi poi in arti, in medicina e-’in diritto. A questo tempo risale la stesura del De ingenuis morihus et lihemlihus studiis. Dal 1405 al 1409 fu a Roma presso la curia pontificia: scrisse la Poetica narratio e veri discorsi pubblici. Dal 1414 al 1418 fu a Costanza per partecipare al Concilio; poi, dopo essere stato incoronato «poeta laureatus» dall’imperatore Sigismondo del Lussemburgo, passò ai suoi servizi. Morì a Budapest l’8 luglio 1444.
2. Il Bruni ricorda qui le turbolenze subite da Arezzo a partire dal 1380 e che avevano portato alla dedizione della città a Firenze nel 1385. Ma Arezzo era stata nuovamente devastata durante la guerra contro i Visconti nel 1396 (cfr. Historiae, pp. 230-237; Commentarius, pp. 425-429).
3. Coluccio Salutati nacque a Stignano, in Val di Nievole, il 16 febbraio 1332. Seguì, insieme agli studi di retorica sotto la guida di Pietro da Moglio, quelli notarili a Bologna: la città dove il padre Piero era stato esiliato nel 1330 per le disavventure politiche della Parte guelfa. A Bologna il Salutati trovò la protezione di Taddeo Pepoli e, dopo la sua morte, dei suoi successori fino alla loro cacciata dalla città avvenuta nel 1350. Coluccio tornò allora in Val di Nievole, ed esercitò la professione notarile a Buggiano e, dal 1351, a Pescia, dove divenne anche notaio e giudice del comune. Fra il 1353 e il 1360 fu ancora a Buggiano, poi, nel 1361 a Montecatini e a Uzzano; nel 1366 fu incaricato di stendere i nuovi statuti di Vellano, finché, nel 1367, venne nominato notaio e cancelliere di Todi. Ma nella primavera del 1368 andò a Roma, dove rimase fino al 1370: in tale anno, in base alle sollecitazioni del papa Urbano V, ebbe l’incarico di cancelliere del comune a Lucca; questo ufficio non gli fu, però, confermato l’anno successivo, quando, anche in seguito alla morte della moglie, tornò a Stignano. Qui sposò una cugina e rimase fino all’inizio del 1374, quando fu chiamato a Firenze come cancelliere dell’ufficio delle Tratte. Appena un anno dopo, il 19 aprile 1375, divenne cancelliere della Repubblica di Firenze: mantenne l’ufficio fino alla morte, avvenuta il 6 maggio 1406. In questo trentennio il Salutati visse da protagonista la vita politica e, soprattutto, intellettuale fiorentina: alle responsabilità dell’ufficio – in anni sconvolti, ad esempio, dal Tumulto dei Ciompi, dalla guerra degli Otto Santi, dalla lotta contro Gian Galeazzo Visconti – il Salutati unì un costante impegno letterario e umanistico che incise profondamente nella cultura, non solo fiorentina, del tempo, come erede e continuatore del rinnovamento attuato dal Petrarca, pur rimanendo legato, assai spesso, alla tradizione medievale. Fra le sue opere, oltre al ricco epistolario, vanno ricordate: le poesie raccolte nel Bucolicum Carmen e la Conquestio Phillidis, il De lahorihus Herculis, il De seculo et religione, il De fato et fortuna, il De tyranno.
4. Niccolò Niccoli nacque a Firenze intorno al 1364; morì il 3 febbraio 1457-Formatosi nel cenacolo di Santo Spirito riunito intorno al frate agostiniano Luigi Marsili, ebbe parte attiva nell’organizzazione dello Studio fiorentino. Profondo cultore delle tradizioni classiche, intraprese viaggi a Padova, a Pisa, a Venezia, a Verona per cercare e raccogliere codici e testi di autori latini, riuscendo a formare una ricca biblioteca personale, che poi fu depositata nel convento domenicano di San Marco, divenendo la prima biblioteca pubblica. Pur non lasciando opere scritte, fu personaggio centrale dell’Umanesimo fiorentino della prima metà del secolo XV anche per la forza polemica con cui ebbe a scontrarsi con molti studiosi. Anche col Bruni entrò in aspro conflitto nel 1417, al punto da subirne una violenta invettiva, l’Oratio in nehulonem maledicum (cfr. pp. 333-371), che interrompeva una duratura amicizia.
5. Su Roberto de’ Rossi non si hanno molte notizie. Visse entro la prima metà del Quattrocento; fu profondo conoscitore delle lingue e delle letterature classiche; tradusse Aristotele – ma è rimasta solo la versione degli Analytica posteriora, forse dedicata a Guarino Veronese –, scrisse poesie in latino e in volgare. Fu in rapporti assai stretti con gli umanisti fiorentini del circolo del Salutati e quindi con Manuele Crisolora.
6. Luigi Marsili nacque a Firenze intorno al 1342; morì il 21 agosto 1394. Entrato giovanissimo nell’Ordine degli Agostiniani, studiò a Parigi, divenendo maestro di teologia. Viaggiò in Francia e in Italia, finché nel 1379 rientrò a Firenze. Nel 1382 la Signoria lo inviò come oratore in Francia presso il duca d’Angiò, mentre per due volte, nel 1385 e nel 1390, fu proposto al papa Bonifazio IX come vescovo di Firenze: ma la richiesta della Signoria non ebbe mai successo perché il Marsili risultava sgradito al pontefice per le sue forti polemiche contro la corruzione della curia avignonese e per l’appoggio dato alle Chiese nazionali. Nel convento fiorentino di Santo Spirito dette vita ad un vivace cenacolo cuiturale, che divenne punto d’incontro dei letterati riuniti intorno al Salutati. Commentò alcune canzoni e scritti del Petrarca (col quale era stato in contatto epistolare), ma fu anche conoscitore profondo della letteratura pagana. – Per la consueta alternanza “Ludovicus”/“ Luigi” cfr., ad esempio, GIOVANNI DALLE CELLE-LUIGI MARSILI, Lettere, a cura di F. Giambonini, Firenze, 1991.
7. Manuele Crisolora nacque a Costantinopoli intorno al 1350. Fra il 1394 e il 1395 fu inviato dall’imperatore d’Oriente, Manuele Paleologo, col quale era imparentato, in Italia per cercare aiuto contro i Turchi. Su iniziativa del Salutati, del Niccoli e degli altri umanisti fiorentini (fra cui anche Palla Strozzi), il 24 marzo 1396 la Signoria concesse al Crisolora la condotta per l’insegnamento del greco nello Studio di Firenze: iniziò le lezioni ai primi di febbraio del 1397. Quando nel 1400 l’imperatore arrivò in Italia, il Crisolora lo seguì nei suoi spostamenti, fermandosi però a Pavia. Ma ai primi del 1403 tornò a Costantinopoli. L’anno dopo arrivò nuovamente in Italia, a Venezia, e così ancora nel 1406 e nel 1407, quando compì un viaggio in Francia, in Inghilterra e in Spagna. A metà del 1410 si fermò a Bologna, dove si unì alla curia pontificia, che poi seguì a Roma e a Firenze. In quest’ambito andò a Costanza per il Concilio: ma qui morì il settembre 1415. Tradusse in latino la Repubblica di Platone, scrisse gli Erotemata, la Sincresi e varie epistole.
8. Il riferimento è ad un presunto autore di un dialogo consolatorio medievale. Per il successivo detto «primis labris gustare» cfr., ad esempio, CIc, nat. deor., I, 20; Cael. 28.
9. Cfr. CIC, top. 1,3.
10. Il richiamo a Atteone deriva da OV., met. 3, 198-sgg., HYG., fab. 180-181. Per la critica alle traduzioni medievali cfr. in particolare De interpretatione recta (pp. 152 e sgg.).
11. Cfr., ad esempio, CIC:., orat. 172; Tusc. I, 4.
12. Il riferimento è ai logici «britannici» Riccardo Ferebrich, Gniglielmo Heytesbury, Ockham; per il richiamo a Radamante cfr. OV., met., 9, 440; HYG., fab., 155, 178; VERG., Aen., 6, 566; IUV., 13, 197; SIL, IT., 13, 543 (e anche CIC, Tusc., I, 5; PLIN., nat. 7, 56, 191).
13. Cfr. DIOG. LAER., 8, I, 8.
14. Cfr. DANTE, Inf., 27, 121-123.
15. CIC, de orat., 2, 156; Tusc., 2, I; GELL. 5, I5, 9; 5, 16, 5.
16. Cfr. VERG., Aen., 3, 56-57, poi ripreso da DANTE, Purg. 22, 40.
17. Cfr. DANTE, Purg. I, 34.
18. Cfr. DANTE, Inf. 34, 64-66.
19. Cfr. DANTE, Inf. 4, 127.
20. Cfr. DANTE, Purg. 34, 61-66.
21. Col termine «quodlibeta» sono indicate le «quaestiones quodlibetales», tipiche forme di discussione della cultura scolastica.
22. Cfr. ad esempio: Fam. 4, 13, 3; 7, 18, 7; 8, 3, 11.
23. Cfr. rispettivamente MACR., sat. 5, I, 19-sgg. e TER., Uatit. 22.
24. Di Piero Sermini non si conosce l’anno della nascita avvenuta a Montevarchi. Nel 1394 era stato cancelliere della Parte guelfa, poi, dopo altri incarichi di vario rilievo (nel 1402 era stato a Bologna per conto dei Dieci di Balia, nel 1403 aveva ricoperto l’ufficio di notaio dell’entrata di Camera e poi altre mansioni notarili nell’Arte dei giudici e dei notai) in seguito alla morte del cancelliere Benedetto Fortini, il 10 dicembre 1406, divenne cancelliere della Repubblica di Firenze il 28 dicembre 1406. Nel novembre del 1410, improvvisamente, il Sermini rinunziò all’incarico, che lasciò definitivamente il 28 dicembre successivo per ritirarsi – gli subentrò il Bruni per tre mesi – nel monastero del Paradiso, dove, nella Pasqua del 1411, venne ordinato sacerdote. Morì nel luglio del 1425 dopo aver raggiunto grande fama come predicatore e aver continuato a servire la Repubblica in varie missioni diplomatiche.
25. Cfr. Laudatio p. 574, con “munditia” invece di “splendor atque lautitia”.
26. Cfr. LACT., inst. 1, 15.
27. Cfr, SALUTATI, De tyranno, cap. 3 (ed. a cura di F. Ercole, Bologna, 1942, pp. 20-25).
28. Si tratta della guerra contro Manfredi di Svevia, capo dei Ghibellini, su cui il Bruni ritorna nella Laudatio (p. 640) e nelle liistoriae, pp. 31-41.
29. Il riferimento, implicito, è alla traduzione dell’Oratio ad adolescentes di San Basilio completata dal Bruni fra il 1401 e il 1403 e dedicata a Coluccio Salutati.
30. È probabile che il Niccoli portasse per primo a Firenze, forse intorno al 1396, una copia dell’edizione dell’Africa curata da Pietro Paolo Vergerio.
31. Cfr, la precedente nota n. 16.
32. Cfr. DANTE, Purg., 22, 19-24.
33. Cfr. VERG., Aen., 4.