La composizione di quest’opera – collocabile al maggio del 1436 – deriva dalla dichiarata volontà del Bruni di celebrare i due più illustri fiorentini del Trecento in funzione della più ampia celebrazione di Firenze: «la notitia et la fama di questi due poeti grandemente reputo appartenere alla gloria della città nostra» (p. 538). Ancora una volta, quindi, il Bruni, con uno scritto che avrebbe dovuto prospettare i meriti letterari di Dante e del Petrarca, affronta una questione prettamente politica come quella dell’esaltazione di Firenze. A ciò era spinto dal rinnovarsi del conflitto di Firenze con Milano e i Visconti – il duca Filippo Maria tentava, in questi anni, di attuare un espansionismo sul tipo di quello del padre Gian Galeazzo –, che, quasi in parallelo, ripeteva la situazione già verificatasi all’inizio del secolo: e anche allora, nel clima di guerra con Milano, il Bruni aveva rivendicato la grandezza ed il primato di Firenze con un’opera esaltatrice di essa, la Laudatio fiorentine urbis e con un altro scritto, per certi versi ancor più qualificante, i Dialogi ad Petrum Paulum Histrum. E proprio ai temi lì trattati sulla posizione delle Tre Corone fiorentine – Dante, Petrarca, Boccaccio – nel più ampio panorama della letteratura volgare, e non di essa sola, si rifà ora il Bruni nelle biografie di Dante e del Petrarca, tornando ad esaltare, accanto ai meriti poetici dei due autori, il ruolo da essi avuto, e soprattutto quello avuto da Dante, nella vita pubblica di Firenze.
L’apparizione delle due Vite, dunque, si inserisce in un rilancio dell’immagine «civile» di Firenze, nuovamente impegnata in una guerra, ma, allo stesso tempo, anche intenzionata a candidarsi, come in effetti avverrà a pochi mesi di distanza, quale sede del Concilio che, apertosi a Basilea nel 1431, doveva sancire l’unione della Chiesa latina con quella greca. In questi frangenti il Bruni – ancora una volta in linea con gli indirizzi politici della città, che a Dante voleva erigere un monumento funebre che ne raccogliesse le ossa, richieste ufficialmente al Signore di Ravenna –, intendeva dimostrare la «gloria» di Firenze di fronte al mondo per il fatto di aver generato Dante e Petrarca. A questa ulteriore testimonianza doveva aggiungersi anche la nuova e contemporanea messa in circolazione, a quasi trent’anni dalla sua prima apparizione, della stessa Laudatio, di cui le Vite divengono, in un certo senso, un’appendice ideale fondata su una dimostrazione letteraria. E proprio la rinnovata diffusione della Laudario andava a contrapporsi ad un’opera di evidente propaganda antifiorentina composta fra il 1435 e il 1436, il De laudibus Mediolanensium urbis panegyricus di Pier Candido Decembrio: il quale, pur amico del Bruni, rinnovava i moduli della propaganda viscontea dell’inizio del secolo, che aveva visto il cancelliere milanese Antonio Loschi contrapporsi a Coluccio Salutati, cancelliere della Repubblica di Firenze.
In tale contesto, per il Bruni, era quasi giuoco-forza puntare la celebrazione di Firenze sulla rivendicazione della grandezza di Dante e del Petrarca, anche in difformità da quanto sostenuto nei Dialogi, dove però il secondo già correggeva l’opposizione espressa nel primo alla letteratura volgare a seguito dell’accettazione di un pressoché incondizionato classicismo.
Non è un caso, allora, che il Bruni non esalti tanto il «poeta» Dante – a dimostrazione del permanere di riserve sulla sua opera latina e volgare, nonostante il «distinguo» operato nell’invettiva In nebulonem maledicum, dove, fra le tante accuse a Niccolò Niccoli c’è pure quella di essere ostile e critico verso Dante, Petrarca e Boccaccio –, quanto il «cittadino» Dante (come, altrove, il «cittadino» Cicerone), che fortemente domina nell’impostazione generale della biografia e nell’immancabile confronto col Petrarca: «Dante nella vita activa et civile fu di maggiore pregio che ‘1 Petrarca, però che nelle armi per la patria et nel governo della repubblica laudabilmente si adoperò» (p. 559). D’altro canto, il riequilibrio col Petrarca avviene nel campo «letterario», perché nella vita di lui il Bruni insiste non tanto sugli esiti della sua poesia quanto sul ruolo di primato che egli ha avuto nella riscoperta delle lettere: «Francesco Petrarca fu il primo ch’ebbe tanta gratia d’ingegno che riconobbe et rivocò in luce l’antica leggiadria dello stile perduto et spento; et posto che in lui perfetto non fusse, pure da sé vide et aperse la via a questa perfetione» (p. 555).
Così la celebrazione di Firenze, attraverso i suoi maggiori poeti, diviene esemplare: Dante è esaltato come cittadino, Petrarca come rinnovatore della cultura. Inoltre in questa diversità di campi di affermazione – né può essere trascurato il ruolo di Firenze indicato, proprio in rapporto a questi aspetti, nell ‘Oratio in funere lohannisStrozze – potrebbe vedersi una mediazione fra i due diversi modi di azione che più contraddistinsero Dante e Petrarca: e cioè nel primo il prevalere dell’impegno civile e quindi l’applicazione alla vita attiva, e nel secondo il prevalere dell’impegno letterario e quindi l’aspirazione alla vita contemplativa. Modi e forme di vita, questi, che lo stesso Bruni sperimentava in se stesso. E il ricorso, proprio questa volta, alla lingua volgare potrebbe significare anche una particolare scelta di tale impegno civile del Bruni: una dimostrazione, cioè, del suo attaccamento con quel settore dell’Umanesimo culturale e politico fiorentino che nell’uso, per così dire municipalistico, del volgare – qui ripreso in relazione alle opere dei grandi Trecentisti – vedeva una forma di opposizione verso la fazione medicea che da sempre aveva privilegiato l’uso del latino.
Avendo in questi giorni posto fine a una opera assai lunga, mi venne appetito di volere, per ristoro dello affaticato ingegno, leggere alcuna cosa vulgare1. Però che, come nella mensa un medesimo cibo, così nelli studii una medesima lectione continuata rincresce.
Cercando adunque con questo proposito, mi venne alle mani una operetta del Boccaccio intitolata Della vita, costumi et studii del clarissimo poeta Dante2; la quale opera, benché da me altra volta fusse stata diligentissimamente letta, pure al presente examinata di nuovo, mi parve che il nostro Boccaccio, dolcissimo et suavissimo huomo, così scrivesse la vita et i costumi di tanto sublime poeta come se a scrivere avessi il Philocolo, o il Philostrato o la Fiammetta. Però che tutta d’amore et di sospiri et di cocenti lagrime è piena, come se l’huomo nascesse in questo mondo solamente per ritrovarsi in quelle dieci giornate amorose, nelle quali da donne innamorate et da giovani leggiadri raccontate furono le Cento Novelle3. Et tanto s’infiamma in queste parti d’amore, che le gravi et substanzievoli parti della vita di Dante lassa indietro et trapassa con silentio, ricordando le cose leggieri et tacendo le gravi.
Io adunque mi puosi in cuore per mio spasso scrivere di nuovo la Vita di Dante con maggiore notitia delle cose estimabili. Né questo faccio per derogare al Boccaccio, ma perché lo scriver mio sia quasi un supplimento allo scrivere di lui. Et aggiugnerò dipoi la Vita del Petrarca, perocché la notitia et la fama di questi due poeti grandemente reputo appartenere alla gloria della città nostra.
Veniamo adunque prima al facto di Dante.
I maggiori di Dante furono in Firenze di molto antica stirpe, intanto che lui pare volere in alcun luogo i suoi antichi essere stati di quelli Romani che puosero Firenze. Ma questa è cosa molto incerta et, secondo mio parere, niente è altro che indovinare; ma, di quelli che s’abbia notitia, il tritavo suo fu messer Caggiaguida, cavaliere fiorentino, il quale militò sotto lo ‘mperadore Currado.
Questo messer Cacciaguida ebbe due fratelli: l’uno chiamato Moronto, l’altro Elixeo. Di Moronto non si legge alcuna successione; ma da Elixeo nacque la famiglia nominata Elixei, et forse anche prima avevano questo nome. Di messer Cacciaguida nacquero gli Aldighieri, così vocati da un suo figliuolo, il quale per stirpe materna ebbe nome Aldighieri. Messer Cacciaguida, e’ fratelli, e’ loro antichi abitarono quasi in sul canto di Porta San Pietro, dove prima vi s’entra da Mercato Vecchio, nelle case che ancora oggi si chiamano delli Elixei, perché a loro rimase l’antichità. Quelli di messer Cacciaguida, detti Aldighieri, abitarono in su la piazza dietro a San Martino del vescovo, dirimpetto alla via che va a casa i Sacchetti, et dall’altra parte si stendono verso le case de’ Donati e de’ Giuochi.
Dante nacque negli anni Domini MCCLXV, poco dopo la tornata de’ Guelfi in Firenze, stati in exilio per la sconfitta di Monte Aperto. Nella puerizia sua, nutrito liberalmente et dato a’ precettori delle lettere, sùbito apparve in lui ingegno grandissimo et attissimo a cose excellenti. Il padre suo Aldighieri perdé nella sua puerizia; niente di manco, confortato dai propinqui et da Brunetto Latini, valentissimo huomo secondo quel tempo, non solamente a litteratura, ma a degli altri studi liberali si diede, niente lasciando indietro che appartenga a far l’uomo exceliente. Né per tutto questo si racchiuse in ozi, né privossi del secolo, ma, vivendo et conversando con gli altri giovani di sua età, costumato et accorto et valoroso ad ogni esercitio si truova; intanto che in quella battaglia memorabile et grandissima, che fu a Campaldino4, lui giovane et bene stimato si trovò nelle armi, combattendo vigorosamente a cavallo nella prima schiera, dove portò gravissimo pericolo, però che la prima battaglia fu delle schiere equestri, nella quale e cavalieri che erano dalla parte delle Aretini con tanta tempesta vinseno et superchiorono la schiera de’ cavalieri fiorentini, che sbarattati et rotti bisognò fuggire alla schiera pedestre. Questa rotta fu quella che fe’ perdere la battaglia agli Aretini, perché i loro cavalieri vincitori, perseguitando quelli che fuggivano, per grande distantia lasaro addietro la loro pedestre schiera; sì che, da quindi innanzi, in nessuno luogo interi combatterono, ma i cavalieri soli et dispersi sanza sussidio di pedoni, et i pedoni poi di per sé sanza sussidio di cavalieri. Et dalla parte de’ Fiorentini addivenne il contrario, ché, per esser fuggiti i loro cavalieri alla schiera pedestre, si ferono tutti un corpo et agevolemente vinsero prima i cavalieri et poi i pedoni.
Questa battaglia racconta Dante in una sua epistola, et dice esservi stato a combattere et disegna la forma della battaglia5. Et per notitia della cosa, sapere dobbiamo che Uberti, Lamberti, Abati et tutti gli altri usciti di Firenze erano con gli Aretini; et tutti gl’usciti d’Arezzo, gentilhomini et popolani et guelfi che in quel tempo tutti erano cacciati, erano co’ Fiorentini in questa battaglia. Et per questa cagione le parole scritte in Palagio dicono «Sconfitti i Ghibellini a Certomondo»6, et non dicono «gli Aretini», acciò che quella parte degli Aretini, che fu col Comune a vincere, non si potesse dolere.
Tornando adunque al nostro proposito, dico che Dante virtuosamente si trovò a combattere per la patria in questa battaglia; et vorrei che ‘1 Boccaccio nostro di questa virtù più che dello amore di nove anni avesse fatto mentione et di simili leggerezze, che per lui si raccontano di tanto huomo7. Ma che giova a dire? La lingua pur va dove il dente duole, et a chi piace il bere, sempre ragiona di vini.
Doppo questa battaglia tornasi Dante a casa et agli studii più ferventemente che prima si diede; et niente di manco, niente tralasciò delle conversazioni urbane et civili. Et era mirabile cosa che, studiando continovamente, a niuna persona sarebbe paruto ch’ egli studiasse per l’usanza lieta et conversatione giovanile. Nella qual cosa mi giova di riprendere l’errore di molti ignoranti, e quali credono niuno essere studiante se non quelli che si nascondono in solitudine et in otio; et io non vidi mai niuno di questi camuffati et rimossi dalla conversatione delli huomini che sapesse tre lettere. Lo ingegno grande et alto non ha bisogno di tali tormenti; anzi è verissima conclusione et certissima che quelli che non appara tosto non appara mai: sì che stranarsi et levarsi dalla conversatione è al tutto di quelli i quali niente sono atti col basso ingegno ad imprendere.
Né solamente conversò civilmente con gli uomini Dante, ma ancora tolse moglie in sua giovaneza, et la moglie sua fu gentil donna della famiglia de’ Donati, chiamata per nome monna Gemma, della quale ebbe più figliuoli, come in altra parte di questa opera diremo8. Qui il Boccaccio non ha patientia, et dice le mogli essere contrarie agli studii et non si ricorda che Socrate, il più sommo philosopho che mai fusse, ebbe moglie et figliuoli et officii nella repubblica della sua città; et Aristotile, che non si può dire più là di sapientia et di doctrina, ebbe due mogli in varii tempi, et ebbe figliuoli et ricchezza assai; et Marco Tullio, et Catone, et Seneca, et Varrone, latini sommi philosophi, tutti ebbeno mogli, figliuoli et officii et governi nella repubblica. Sì che, perdonimi il Boccaccio, i suoi giudicii sono molto fievoli in questa parte et molto distanti dalla vera oppinione. L’huomo è animale civile, secondo piace a tutti i philosophi: la prima congiuntione, dalla quale multiplicata nasce la città, è marito e moglie; né cosa può essere perfetta dove questo non sia, et solo questo amore è naturale, legittimo et perfetto.
Dante adunque, tolta donna et vivendo civile et honesta et studiosa vita, fu aoperato nella repubblica assai; et finalmente, pervenuto alla età debita, fu creato de’ priori, non per sorte, come s’usa al presente, ma per eletione, come in quel tempo si costumava fare. Furono nell’offitio del priorato co’ lui messer Palmieri Altoviti, et Neri di messer Iacopo degli Alberti, et altri colleghi; et fu questo suo priorato del MCCC. Da questo priorato nacque la cacciata sua et tutte le cose avverse ch’ egli ebbe nella vita, secondo lui medesimo scrive in una epistola, della quale le parole sono queste: «Tutti e mali et tutti gl’inconvenienti miei dalli infausti comitii del mio priorato ebbono cagione et principio; del quale priorato, bene che per prudentia io non fussi degno, niente di meno per fede et per età non ne era indegno, però che dieci anni erano già passati doppo la battaglia di Campaldino, nella quale la Parte ghibellina fu quasi al tutto morta et disfatta, dove mi trovai non fanciullo nelle armi, ove ebbi temenza molta et nella fine grandissima allegrezza per li varii casi di quella battaglia»9.
Queste sono le parole sue. Ora la cagione di sua cacciata voglio particularmente raccontare, però che è cosa notabile, et il Boccaccio se ne passa con pie’ asciutto, ché forse non gli era così nota come a noi, per cagione della Storia che abbiamo scritta.
Avendo prima avuto la città di Firenze divisioni assai tra Guelfi et Ghibellini, finalmente era rimasa nelle mani de’ Guelfi; et stata assai lungo spazio in questa forma, sopravvenne un’altra maladitione di parte intra Guelfi medesimi, i quali reggevano la repubblica; et fu il nome delle parti Bianchi et Neri.
Nacque questa perversità ne’ Pistoiesi prima, et massime nella famiglia de’ Cancellieri; et essendo già divisa tutta Pistoia, per porvi rimedio fu ordinato da’ Fiorentini che i capi di queste sette ne venissono a Firenze, acciò che là non facessero maggiore turbatione. Questo rimedio fu tale che non tanto di bene fece a’ Pistoiesi, per levarli i capi, quanto di male fece a’ Fiorentini, per tirare a sé quella pestilenza. Però che, avendo i capi in Firenze parentadi et amicitie assai, sùbito acceseno il fuoco con maggiore incendio, per li diversi favori che avevano da’ parenti et dagli amici, che non era quello che avevano lasciato a Pistoia. Et trattandosi di questa materia publice et privatim, mirabilmente s’apprese il mal seme et divisesi la città tutta in modo che quasi non vi fu famiglia nobile né pleblea che in sé medesima non si dividesse, né huomo particulare di stima alcuna che non fussi dell’una delle sette; et trovossi la divisione essere tra’ fratelli carnali, che l’uno di qua, l’altro di là teneva10.
Essendo già durata la contesa più mesi, et multiplicati gl’inconvenienti non solamente per parole, ma ancora per fatti dispettosi et acerbi cominciati tra’ giovani et discesi tra gl’huomini di matura età, la città stava tutta sollevata et sospesa. Addivenne che, essendo Dante de’ priori, certa raunata si fe’ per la parte de’ Neri nella chiesa di Santa Trinita; quello che trattassero fu cosa molto secreta, ma l’effetto fu di fare opera con papa Bonifatio ottavo, il quale allora sedeva, che mandasse a Firenze messer Carlo di Valois de’ reali di Francia a pacificare et a riformare la terra.
Questa raunata sentendosi per l’altra parte, súbito se ne prese suspectione grandissima: in tanto che presero l’armi, et fornironsi d’amistà et andarono a’ priori, aggravando la raunata fatta et l’avere con privato consiglio presa deliberatione dello stato della città, et tutto essere stato, dicevano, per cacciarli di Firenze; et pertanto domandavano a’ priori che facessero punire tanto prosuntuoso eccesso.
Quegli che avean fatta raunata, temendo ancora loro, pigliarono l’armi et appresso i priori si dolevano delli avversari, che sanza deliberatione pubblica s’erano armati et fortificati, affermando che sotto vari colori li volevano cacciare; et domandavano a’ priori che gli facesseno punire sì come turbatori della quiete pubblica. L’una parte et l’altra di fanti et d’amistà fornite s’erano: la paura et il terrore et il pericolo era grandissimo.
Essendo adunque la città in armi et in travagli, i priori, per consiglio di Dante, prowidono di fortificarsi dalla moltitudine del popolo; et quando furono fortificati, ne mandarono a’ confini gli uomini principali delle due sette, che furono questi: messer Corso Donati, messer Geri Spini, messer Giacchinotto de’ Pazzi, messer Rosso della Tosa, et altri co’ loro. Tutti questi erano della Parte nera, et furono mandati a’ confini a Castello della Pieve in quello di Perugia. Dall’altra parte de’ Bianchi furono mandati a’ confini a Serezzana messer Gentile et messer Torrigiano de’ Cerchi, Guido Cavalcanti, Baschiera della Tosa, Baldinaccio Adimari, Naldo di messer Lottino Gherardini et altri.
Questo diede gravezza assai a Dante; et con tutto che lui si scusi come huomo sanza parte11, niente di manco fu riputato che pendessi in Parte bianca et che gli dispiacesse il consiglio tenuto di Carlo di Valois a Firenze, come materia di scandolo et di guai alla città. Et accrebbe la ‘nvidia, perché quella parte de’ cittadini, che fu confinata a Serezzana, sùbito ritornò a Firenze, et l’altra ch’era confinata a Castello della Pieve, si rimase di fuori. A questo risponde Dante che, quando quelli da Serezzana furono rivocati, esso era fuori dell’oficio del priorato et che a lui non si debba imputare12; più dice, che la ritornata loro fu per la infirmità et morte di Guido Cavalcanti, il quale ammalò a Serezzana per l’aere cattiva et poco appresso morì.
Questa disaguaglianza mosse il papa a mandare Carlo a Firenze, il quale, essendo per riverentia del papa et della Casa di Francia ricevuto nella città, rimise e cittadini confinati; et appresso cacciò la Parte bianca per rivelatione di certo tractato fatto per messer Piero Ferranti suo barone, il quale disse essere stato richiesto da tre gentili huomini della Parte bianca, cioè da Naldo di messer Lottino Gherardini, da Baschiera della Tosa et da Baldinaccio Adimari, da operarsi con messer Carlo di Valois che la lor parte rimanesse superiore nella terra, et che gli avevano promesso di dargli Prato in governo se facesse questo: et produsse scrittura di questa richiesta et promessa co’ li suggelli di costoro. La quale scrittura originale io ho veduto, però che ancora oggi è in Palagio con l’altre scritture pubbliche; ma, quanto a me, ella mi pare forte sospetta et credo certo ch’ella sia fictitia. Pure, quello che si fusse, la cacciata seguitò di tutta la Parte bianca, mostrando sdegno Carlo di questa riquiesta et promesa da loro fatta.
Dante in questo tempo non era in Firenze, ma era a Roma, mandato poco avanti imbasciadore al papa per offerire la concordia et pace de’ cittadini. Niente di meno, per isdegno di quelli che confinati furono nel suo priorato della Parte nera, gli fu corso a casa et rubato ogni sua cosa et dato il guasto alle sue possessioni, et a lui et a messer Palmieri Altoviti dato bando della persona, per contumacia di non comparire, non per verità d’alcun fallo commesso. La via di dar bando fu questa: che legge feceno iniqua et perversa, la quale sì guardava indietro che il podestà di Firenze potesse et dovesse cognoscere i falli commessi per l’addietro nell’oficio del priorato, con tutto che assolutione fusse seguita. Per questa legge citato Dante per messer Cante de’ Gabrielli, allora podestà di Firenze, essendo absente et non comparendo, fu condennato et sbandito et pubblicati i suoi beni, con tutto che prima rubati et guasti.
Abbiamo detto come passò la cacciata di Dante et per che cagione et per che modo. Ora diremo qual fusse la vita sua nello exilio.
Sentita Dante la ruina sua, subito partì da Roma, dove era imbasciadore, et camminando con celerità ne venne a Siena. Quivi intesa chiaramente la sua calamità, non vedendo alcuno riparo, deliberò accozzarsi co’ li altri usciti, et nel primo accozzamento fare una congregatione delli usciti, la quale si fe’ a Gargonsa; dove trattate molte cose, finalmente fermaro la sedia loro ad Arezzo et quivi ferono campo grosso, et crearono loro capitano generale il conte Alexandro da Romena, ferono dodici consiglieri, del numero de’ quali fu Dante, et d’isperanza in isperanza stetteno infino all’anno MCCCIIII. Allora fatto sforzo grandissimo d’ogni loro amistà, ne vennero per rientrare in Firenze con grandissima multitudine, la quale non solamente d’Arezzo, ma da Bologna et da Pistoia co’ loro si congiunse; et giugnendo quelli dentro improvvisi, subito preseno una porta di Firenze et vinsono parte della terra; ma finalmente bisognò se n’andassono sanza frutto alcuno.
Fallita adunque questa tanta speranza, non parendo a Dante più da perdere tempo, partì d’Arezzo et andossene a Verona; dove, ricevuto molto cortesemente da’ signori della Scala, co’ loro fece dimora alcun tempo et ridussesi tutto a umiltà, cercando con buone opere et con buoni portamenti racquistare la gratia di potere tornare in Firenze per spontanea revocatione di chi reggeva la terra. Et sopra questa parte s’affaticò assai, et scrisse più volte, non solamente a particulari cittadini et del reggimento ma al popolo; et intra l’altre, una epistola assai lunga, che incomincia: «Popule mee, quid feci tibi?»13.
Essendo in questa speranza Dante di ritornare per via di perdono, sopravvenne la electione d’Arrigo di Luzimborgo imperadore, per la cui electione prima, et poi per la passata sua essendo tutta Italia sollevata in speranza di grandissima novità, Dante non potette tenere il proposito suo dell’aspettare la gratia, ma, levatosi co’ l’animo altero, cominciò a dire male di quelli che reggevano la terra, appellandoli scellerati et cattivi et minacciando la debita vendetta per la potentia dello imperadore, contra la quale dicea essere manifesto loro non avere alcuno scampo14. Ma tanto il tenne la reverentia della patria che, venendo lo ‘mperadore contra a Firenze et ponendosi a campo presso alla porta, non vi volle essere, secondo lui scrive, con tutto che confortatore fussi stato di sua venuta.
Morto dappoi lo ‘mperadore Arrigo, il quale nella seguente state morì a Bonconvento, ogni speranza al tutto fu perduta da Dante, però che di gratia lui medesimo s’avea tolta la via per lo parlare et scrivere contro a cittadini che governavano la repubblica, et forza non ci restava per la quale sperare potesse. Sì che, deposta ogni speranza, povero assai trapassò il resto della sua vita, dimorando in varii luoghi per Lombardia et per Toscana et Romagna, sotto il sussidio di varii signori, per fino che finalmente si ridusse a Ravenna, dove finì sua vita.
Poiché detto abbiamo delli affanni pubblici et in questa parte mostrato il corso di sua vita diremo ora del suo stato domestico et di suoi costumi et studi.
Dante, innanzi la cacciata sua di Firenze, con tutto che di grandissima ricchezza non fusse, niente di meno non fu povero, ma ebbe patrimonio mediocre et sufficiente al vivere honoratamente. Ebbe un fratello chiamato Francesco Aldighieri; ebbe moglie, come di sopra dicemmo, et figliuoli, de’ quali ancora resta oggi successione et stirpe, come di sotto faremo mentione. Case in Firenze ebbe assai decente, congiunte co’ le case di Geri di messer Bello, suo consorto; possessioni in Camerata et nella Piacentina et in piano di Ripoli; suppellectile abbondante et pretiosa, secondo egli scrive15. Fu huomo molto pulito, di statura decente, et di grato aspetto et pieno di gravità; parlatore rado et tardo, ma nelle sue risposte molto sottile. La effigie sua propria si vede nella chiesa di Santa Croce, quasi al mezzo della chiesa, da mano sinistra andando verso l’altare maggiore, et ritracta al naturale ottimamente per dipintore perfetto del tempo suo16. Dilettossi di musica et di suoni, et di sua mano egregiamente disegnava; fu ancora scrittore perfetto, et era la lettera sua magra et lunga et molto corretta, secondo io ho veduto in alcune epistole di sua propria mano scritte. Fu usante in giovanezza sua con giovani innamorati, et lui ancora per simile passione occupato, non per libidine, ma gentilezza di cuore; et ne’ suoi teneri anni versi d’amore a scrivere cominciò, come vedere si può in una sua operetta vulgare, che si chiama Vita nuova. Lo studio suo principale fu poesia, ma non sterile, né povera, né fantastica, ma fecundata et inricchita et stabilita da vera scientia et di moltissime discipline.
Et per darmi a intendere meglio a chi legge, dico che in due modi diviene alcuno poeta. Uno modo si è per ingegno proprio agitato et non mosso da alcuno vigore interno et nascoso, il quale si chiama furore et occupatione di mente. Darò una similitudine di quello che io voglio dire: beato Francesco, non per scientia né per disciplina scolastica, ma per occupatione et abstratione di mente, sì forte applicava l’animo suo a Dio che quasi si trasfigurava oltre al senso umano, et cognosceva di Dio più che né per studio né per lettere cognoscono i theologi. Così nella poesia alcuno per interna agitatione et applicatione di mente poeta diviene, et questa è la somma et la più perfetta spetie di poesia; et qualunque dicono i poeti esser divini, et qualunque li chiamano sacri, et qualunque gli chiamano vati, da questa abstratione et furore, ch’io dico, prendono l’appellatione. Li exempli abbiamo d’Orpheo et Hesiodo, de’ quali l’uno et l’altro fu tale, quale di sopra è stato da me raccontato17. Et fu di tanta efficacia Orpheo ch’e sassi et le selve movea co’ la sua lira; et Hesiodo, essendo pastore rozzo et indotto, bevuto solamente l’acqua della fonte Castalia, senza alcuno studio poeta sommo divenne; del quale abbiamo l’opere ancora oggi, et sono tali che niuno de’ poeti litterati et scientifichi le vantaggia. Una spetie adunque di poeti è per abstratione ed agitatione di mente; l’altra spetie è per scientia, e per studio, per disciplina et arte et prudentia. Et di questa seconda spetie fu Dante, per che per studio di philosophia et di teologia et astrologia, aritmetica et geometria, per letione di storie, per revolutione di molti et varii libri, vigilando et sudando nelli studi, acquistò la scientia, la quale doveva ornare et explicare co’ li suoi versi.
Et perché della qualità de’ poeti abbiam detto, diremo ora del nome, per lo quale ancora si comprenderà la sustantia. Con tutto che queste sono cose che male si possono dire in vulgare idioma, pure m’ingegnerò darle ad intendere, perché, al parer mio, questi nostri poeti moderni non hanno bene intese; né è maraviglia, essendo ignari della lingua greca. Dico adunque che questo nome «poeta» è nome greco18, et tanto viene a dire quanto «facitore». Per avere detto insino a qui, conosco che non sarebbe inteso il dire mio, sì che più oltre bisogna aprire lo ‘ntelletto. Dico adunque che de’ libri et delle opere poetiche alcuni huomini sono leggitori delle opere altrui et niente fanno da sé, come addiviene al più delle genti; altri huomini sono facitori d’esse opere, come Vergilio fece il libro dell’Eneida, et Statio fece il libro della Thebaida, et Ovidio fece il libro Metamorphoseos, et Homero fece l’Odissea et l’Iliade. Questi adunque che ferono l’opere furono poeti, cioè facitori di dette opere che noi altri leggiamo; et noi siamo i leggitori, et loro furono i fattori. Et quando sentiamo lodare uno valente huomo di studii et di lettere, usiamo dimandare: «Fa egli alcuna cosa da sé? Lascia egli alcuna opera da sé composta et fatta?».
Poeta è adunque colui che fa alcuna opera, cioè autore et componitore di quello che altri legge. Potrebbe dire qui alcuno che, secondo il parlare mio, il mercatante, che scrive le sue ragioni et fanne libro, sarebbe poeta; et che Tito Livio et Sallustio sarebbono poeti, però che ciascuno di loro scrisse libri et opere da leggere. A questo rispondo che il fare opere non si dice se none in versi; et questo addiviene per excellentia di stile, però che le sillabe et la misura et il suono è solamente di chi dice in versi. Et usiamo dire in nostro vulgare: «Costui fa canzone et sonetti»; ma per scrivere una lettera a’ suoi amici, non diremo che lui abbi fatto alcuna opera. Il nome del poeta significa exceliente et ammirabile stilo in versi, coperto, adombrato di leggiadria et alta fintione. Et come ogni presidente comanda et impera, ma solo colui si chiama imperadore che è sommo di tutti, così chi compone opere in versi, è sommo, excellentissimo nel comporre tali opere, si chiama poeta. Ora questa la verità certa et assoluta del nome et dell’effetto de’ poeti: lo scrivere in stilo litterato o vulgare non ha a fare al fatto, né altra differenza è se non come scrivere in greco o in latino.
Ciascuna lingua ha sua perfetione et suo suono et suo parlare limato et scientifico; pur, chi mi domandasse per qual cagione Dante piuttosto elesse scrivere in vulgare che in latino et litterato stile, risponderei quello che è la verità: cioè che Dante conosceva sé medesimo molto più atto a questo stile vulgare in rima che a quello latino o litterato. E certo molte cose da lui leggiadramente in questa rima vulgare sono dette che né arebbe saputo né arebbe potuto dire in lingua latina ed in versi heroici. La prova sono l’Egloghe da lui fatte in versi exametri, le quali, posto sieno belle, niente di manco molte n’abbiamo vedute più vantaggiatamente scritte. Et a dire il vero, la virtù di questo poeta fu nella rima vulgare, nella quale è excellentissimo sopra ogni altro; ma in versi latini o in prosa non aggiugne appena a quegli che mezzanamente hanno scritto.
La cagione è che il secolo suo era dato a dire in rima; et di gentilezza di dire in prosa o in versi latini niente intesero gl’huomini di quel secolo, ma furono rozzi et grossi et senza peritia di lettere, dotti, niente di meno, in queste discipline al modo fratesco e scolastico.
Cominciossi a dire in rima, secondo scrive Dante, innanzi a lui anni 15019; et furono i principii in Italia Guido Guinezzelli bolognese, Guitton cavaliere gaudente d’Arezzo, et Bonagiunta da Lucca et Guido da Messina, i quali tutti Dante soverchiò di gran lunga di sententie, di pulitezza et d’elegantia et di leggiadria, intanto che è oppinione di chi intende che non sarà mai huomo che Dante vantaggi in dire in rima. Et veramente e l’è mirabil cosa la grandezza et la dolcezza del dire suo prudente et sententioso et grave, con varietà et copia mirabile, con scientia di philosophia, con notitia di storie antiche, con tanta cognitione delle cose moderne che pare ad ogni acto essere stato presente. Queste belle cose, con gentilezza di rima explicate, prendono la mente di ciascuno che legge, et molto più di quelli che più intendeno. La fictione sua fu mirabile et con grande ingegno trovata; nella quale concorre descriptione del mondo, descriptione de’ cieli et de’ pianeti et descriptione de li huomini, meriti et pene della vita humana, felicità et miseria et mediocrità di vita intra due extremi. Né credo che mai fusse chi prendesse più ampia et fertile materia, da potere explicare la mente d’ogni suo concepto, per la varietà degli spiriti loquenti di diverse ragioni di cose et di diversi paesi et di vari casi di fortuna.
Questa sua principale opera cominciò Dante avanti la cacciata sua, et da poi in exilio la finì, come per essa opera si può vedere apertamente. Scrisse ancora canzoni morali et sonetti. Le canzoni sono perfette et limate et leggiadre et piene d’alte sententie, et tutte hanno generosi cominciamenti, sì come quella canzon che comincia: «Amor, che muovi tua virtù dal cielo, come il sol lo splendore»20 dove fa comparatione philosophica et sottile intra gli effetti del sole et gli effetti di amore; et l’altra che comincia: «Tre donne intorno al cor mi sono venute»21, et l’altra che comincia: «Donne, che avete intelletto d’amore»22.
Et così in molte altre canzoni è sottile et limato et scientifico; ne’ sonetti non è di tanta virtù. Queste sono l’opere sue vulgari.
In latino scrisse in prosa et in verso. In prosa un libro chiamato Monarchia, il quale libro è scritto al modo fratesco, sanza niuna gentilezza di dire. Scrisse ancora un altro libro intitulato De vulgari eloquentia. Ancora scrisse molte Vistole in prosa. In versi scrisse alcune Egloghe, et il principio del libro suo in versi eroici; ma non gli riuscendo lo stile, non lo seguì23.
Morì Dante negli anni MCCCXXI a Ravenna.
Ebbe Dante, tra gli altri, uno figliuolo chiamato Piero, il quale studiò in legge et divenne valente; et per propria virtù et per lo favore della memoria del padre, si fece grande huomo et guadagnò assai, et fermò suo stato a Verona con assai buone facultà. Questo messer Piero ebbe uno figliuolo chiamato Dante, et di questo Dante nacque Lionardo, il quale oggi vive et ha più figliuoli. Né è molto tempo che Lionardo antedetto venne a Firenze con altri giovani veronesi bene in punto et onoratamente, et me venne a vicitare come amico della memoria del suo proavo Dante; et io li mostrai le case di Dante et de’ suoi antichi et diegli notitia di molte cose a lui incognite, per essersi stranato lui et suoi dalla patria. Et così la Fortuna questo mondo gira et permuta gli abitatori con volgere di sua rota.
Francesco Petrarca, huomo di grande ingegno et non di minore virtù, nacque in Arezzo nel Borgo dell’Orto. La natività sua fu negli anni MCCCIIII a dì XXI di luglio, poco innanzi al levare del sole. Il padre ebbe nome Petracco; l’avolo suo ebbe nome Parenzo; l’origine loro fu dall’Ancisa. Petracco suo padre abitò in Firenze et fu adoperato assai nella repubblica, però che molte volte fu mandato ambasciadore della città in gravissimi casi, molte volte con altre commissioni adoperato a gran fatti, et in Palagio un tempo fu scriba sopra le Riformagioni diputato, et fu valente huomo, activo et assai prudente.
Costui in quello naufragio de’ cittadini di Firenze, quando sopravvenne la divisione fra Neri et Bianchi, fu riputato sentire con Parte bianca, et per questa cagione insieme con gli altri fu cacciato di Firenze. Il perché, ridotto ad Arezzo, quivi fe’ dimora, aiutando sua parte et sua setta virilmente, quanto bastò la speranza di dovere ritornare a casa. Dipoi, mancando la speranza, partì d’Arezzo et andonne in corte di Roma, la quale in quelli tempi era nuovamente trasferita ad Avignone. In corte fu bene adoperato con assai honore et guadagno; et quivi allevò suoi figliuoli, de’ quali l’uno ebbe nome Gherardo, l’altro Checco: questo è quello che poi fu chiamato Petrarca, come in processo di questa sua vita diremo.
Il Petrarca adunque, allevato ad Avignone, comunque e’ venne crescendo, si vide in lui gravità di costumi et altezza d’ingegno, et fu di persona bellissimo, et bastò la formosità sua per ogni parte di sua vita. Apparate le lettere et uscito di quelli primi studii puerili, per comandamento del padre si diede allo studio di ragione civile et perseverowi alcuno anno. Ma la natura sua, la quale a più alte cose era tirata, poco stimando le leggi et i litigi, et reputando quella essere troppo bassa materia a suo ingegno, nascosamente ogni suo studio a Tullio et a Vergilio et a Seneca et a Lattantio et agli altri philosophi et poeti et istorici riservava. Lui ancora pronto a dire in prosa, pronto a sonetti et a canzoni morali, gentile et ornato in ogni suo dire, in tanto sprezzava le leggi et loro tediose et grosse commentationi di chiose che, se la reverenza del padre non l’avesse tenuto, non che li fusse ito dietro alle leggi, ma, se le leggi fussero ite dietro a lui, non l’arebbe acceptate.
Doppo la morte del padre, fatto di sua podestà, subito si diede tutto a quelli studi apertamente de’ quali prima era stato nascoso discepolo per paura del padre; et sùbito cominciò a volare sua fama et essere chiamato non Francesco Petracchi, ma Francesco Petrarca, ampliato il nome per riverentia delle sue virtù. Et ebbe tanta gratia d’intelletto che fu il primo che questi sublimi studii, lungo tempo caduti et ignorati, rivocò a luce di cognitione; i quali, dapoi crescendo, montati sono nella presente altezza. Della qual cosa, acciò che meglio s’intenda, facendomi indietro con breve discorso, raccontare voglio.
La lingua latina et ogni sua perfetione et grandezza fiorì massimamente nel tempo di Tullio, però che prima era stata non pulita, né limata, né sottile, ma, salendo a poco a poco a sua perfetione, nel tempo di Tullio nel più alto colmo divenne. Dopo l’età di Tullio cominciò a cadere et a discendere come infine a quel tempo era montata, et non passarono molti anni che ricevuto avea gran calo et diminutione. Et puossi dire che le lettere et gli studii della lingua latina andassero parimente co’ lo stato della repubblica di Roma, però che per infino alla età di Tullio ebbe accrescimento; dipoi, perduta la libertà del popolo romano per la signoria delli imperadori, i quali non restarono mai d’uccidere et di disfare gl’huomini di pregio, insieme col buono stato della città di Roma perì la buona dispositione delli studi et delle lettere24. Ottaviano, che fu il meno reo imperadore, fe’ uccidere migliaia di cittadini romani; Tiberio et Galigula et Claudio et Nerone non vi lassarono persona che avessi viso d’uomo. Seguitò poi Galba et Ottone et Vitellio, i quali in pochi mesi disfecero l’un l’altro. Doppo costoro non furono imperadori di sangue romano, però che la terra erasi annichilata da’ precedenti imperadori che niuna persona d’alcun pregio v’era rimasa. Vespasiano, il quale fu imperadore dopo Vitellio, fu di quello di Rieti, et così Tito e Domiziano suoi figliuoli; Nerva imperadore fu da Narni; Traiano, adoptato da Nerva, fu di Spagna; Adriano ancor fu di Spagna; Severo d’Africa, Alexandro d’Asia, Probo d’Ungheria, Dioclitiano di Schiavonia; Costantino fu d’Inghilterra. A che proposito si dice questo da me? Solo per mostrare che, come la città di Roma fu annichilata dalli imperadori, perversi tiranni, così gli studi et le lettere latine ricevetteno simile ruina et diminutione, intanto che allo extremo quasi non si trovava chi lettere latine con alcuna gentilezza sapesse. Et sopravvennero in Italia Goti et Longobardi, nationi barbare et strane, e quali affatto quasi spensero quasi ogni cognitione di lettere, come appare nelli strumenti in quelli tempi rogati et fatti, de’ quali niente potrebbe essere più materiale cosa, né più grossa et rozza.
Ricuperata da poi la libertà de’ popoli italici per la cacciata de’ Longobardi, i quali ducento e quattro anni tenuta avevano Italia occupata, le città di Toscana et l’altre cominciarono a riaversi et a dare opera alli studi et alquanto limare il grosso stilo, et così a poco a poco venneno ripigliando vigore, ma molto debolemente et senza vero giuditio di gentilezza alcuna, più tosto attendendo a dire in rima vulgare che ad altro; et così per insino al tempo di Dante lo stilo litterato pochi sapeano, et quelli pochi il sapeano assai male, come dicemmo nella Vita di Dante.
Francesco Petrarca fu il primo ch’ebbe tanta gratia d’ingegno che riconobbe et rivocò in luce l’antica leggiadria dello stile perduto et spento; et posto che in lui perfetto non fusse, pure da sé vide et aperse la via a questa perfetione, ritrovando l’opere di Tullio et quelle gustando et intendendo, adactandosi, quanto poté et seppe, a quella elegantissima et perfectissima facondia: et per certo fece assai, solo a dimostrare la via a quelli che doppo lui aveano a seguire.
Dato adunque a questi studi il Petrarca et manifestando sua virtù, insino da giovane fu molto honorato et reputato, et dal papa fu richiesto di volerlo per secretano di sua corte, ma non consentì mai, né prezzò il guadagno. Niente di manco, per potere vivere in otio con vita honorata, acceptò benefici et fessi cherico seculare; et questo non fe’ tanto di suo proposito, quanto constrecto da necessità, perché dal padre o poco o niente di heredità gli rimase, et in maritare una sua sorella quasi tutta la heredità paterna si convertì. Gherardo suo fratello si fe’ monaco di Certosa; et in quella religione perseverando, finì sua vita.
Gli honori del Petrarca furono tali che niuno huomo di sua età fu più honorato di lui, né solamente oltr’ a’ monti, ma di qua in Italia; et passando a Roma, solennemente fu coronato poeta. Scrive lui medesimo in una sua epistola25 che negl’anni MCCCL venne a Roma per lo giubileo et, nel tornare da Roma, fece la via d’Arezzo per vedere la terra dove era nato; et sentendosi sua venuta, tutti i cittadini gl’uscirono incontra, come se fusse venuto un re. Et conchiudendo, per tutta Italia era sì grande la fama et lo honore a lui tribuito da ogni città et terra et da tutti e popoli che parea cosa incredibile et mirabile. Et non solamente da’ popoli et da’ mezzani, ma da sommi et grandi prìncipi et signori fu desiderato et honorato, et con grandissime provvisioni appresso di sé tenuto; però che con messer Galeazzo Visconti dimora fece alcun tempo, con somma gratia pregato da quel signore che appresso lui degnasse di stare; et simile dal Signore di Padova fu molto honorato26. Et era tanta la reputatione sua et la reverentia che gli era portata da quelli signori che spesse volte co’ lui lunga contesa faceano di volerlo mandare innanzi nello andare o nello entrare in alcuno luogo et preferillo in honore. Così il Petrarca con questa vita honorata et reputata et gradita visse fino allo stremo di sua età.
Ebbe il Petrarca nelli studii suoi una dota singulare: che fu a prosa et a verso aptissimo, et nell’uno stile et nell’altro fece assai opere. La prosa sua è leggiadra et fiorita, il verso è limato et ritondo et assai alto. Et questa gratia dell’uno stile et dell’altro è stata in pochi o in nullo fuori di lui, però che pare che la natura tiri a l’uno o a l’altro; et quale vantaggia per natura, a quello si suole l’huomo dare. Onde avenne che Vergilio, nel verso excellentissimo, niente in prosa valse o scripse; et Tullio, sommo maestro in dire in prosa, niente vale in versi. Questo medesimo veggiamo delli altri poeti et oratori, l’uno di questi due stili essere stato di sua excellente loda; ma in amendue gli stili niuno di loro, che mi ricordo aver letto. Il Petrarca solo è quello che, per dota singulare, in l’uno et in l’altro stile fu excellente, et opere molte compose in prosa et in versi, le quali non fa bisogno raccontare, perché sono note.
Morì il Petrarca ad Arquato, villa del Padovano, in montagna, dove in sua vecchiezza, ritraendosi per sua quiete a vita otiosa et separato da ogni impedimento, avea eletto sua dimora. Tenne il Petrarca, mentre che visse, grandissima amicitia con Giovanni Boccaccio, in quella età famoso ne’ medesimi studii; sì che, morto il Petrarca, le Muse fiorentine, quasi per ereditaria successione rimaseno al Boccaccio, et in lui risedette la fama de’ predetti studii, et fu successione ancora nel tempo, però che, quando Dante morì, il Petrarca era d’età d’anni diciasette et quando morì il Petrarca, era il Boccaccio di minore età di lui di anni nove, et così per successione andarono le Muse.
NOTIZIA DEL BOCCACCIO E PARALLELO DELL’ALIGHIERI E DEL PETRARCA
La vita del Boccaccio non scriveremo al presente, non perché non meriti ogni grandissima loda, ma perché a me non sono note le particularità di sua generatione et di sua privata conditione et vita, senza la cognitione delle quali cose scrivere non si debba.
Ma l’opere et i libri suoi mi sono assai noti, et veggio che lui fu di grandissimo ingegno et di grandissimo studio et molto laborioso, et tante cose scrisse di sua mano propria che è una maraviglia. Apparò la grammatica da grande, et per questa cagione non ebbe mai la lingua latina molto in sua balìa. Ma per quello che scrisse in vulgare, si vede che naturalmente egli era eloquentissimo et aveva ingegno oratorio. Delle opere sue scripte in latino, le Genologia Deorum tengono il principato. Fu molto impedito dalla povertà et non si contentò di suo stato, anzi sempre querele et lagni di sé scrive. Tenero fu di natura et disdegnoso; la qual cosa guastò molto i fatti suoi, però che né da sé aveva, né d’essere presso a’ principi et a signori ebbe sofferenza.
Lasciando adunque stare il Boccaccio et indugiando la vita sua ad altro tempo, tornerò a Dante et al Petrarca, delli quali dico così: che se comparatione si debba fare intra questi prestantissimi huomini, le vite de’ quali sono scripte da noi, affermo che ambedue furono valentissimi et famosissimi et degni di grandissima commendatione et loda. Pure volendoli insieme con trito examine di virtù et di meriti comparare et vedere in quale di loro è maggiore excellentia, dico ch’egli è da fare contesa non piccola, perché sono quasi pari nel corso loro alla fama et alla gloria. De’ quali due parlando, potiamo dire in questo modo, cioè che Dante nella vita activa et civile fu di maggiore pregio che ‘1 Petrarca, però che nelle armi per la patria et nel governo della repubblica laudabilmente si adoperò. Non si può dire del Petrarca questa parte, però che né in città libera stette, la quale avessi a governare civilmente, né in armi fu mai per la patria, la qual cosa sappiamo essere gran merito di virtù. Oltre a questo, Dante, da exilio et da povertà incalzato, non abbandonò mai i suoi preclari studii, ma in tante difficultà scripse la sua bella opera. Il Petrarca in vita tranquilla et suave et honorata et in grandissima bonaccia l’opere sue compose. Concedesi che più è da desiderare la bonaccia, ma, niente di meno, è di maggior virtù nella adversità della fortuna potere conservare la mente alli studi, massimamente quando di buono stato si cade in reo. Ancora in scientia di philosophia et nelle matematiche Dante fu più dotto et più perfetto, però che gran tempo gli diede opera, sì che il Petrarca non è pari in questa parte a Dante. Per tutte queste ragioni pare che Dante in honore debba essere preferito.
Volgendo carta et dicendo le ragioni del Petrarca, si può rispondere al primo argomento della vita activa et civile ch’el Petrarca fu più saggio et più prudente in eleggere vita quieta et otiosa che travagliarsi nella repubblica et nelle contese et nelle sette civili, le quali sovente gittano tal frutto, quale a Dante addivenne essere cacciato et disperso per la malvagità degl’huomini et ingratitudine de’ popoli. Et certo Giano della Bella suo vicino, dal quale il popolo di Firenze avea ricevuto tanti benefitii, et poi il cacciò et morì in exilio27, sofficiente exemplo dovea essere a Dante di non si travagliare nel governo della repubblica. Ancora si può rispondere, in questa medesima parte della vita activa, che il Petrarca fu più constante in ritenere l’amicitia de’ principi, perché non andò mutando et variando come fe’ Dante. Et certo il vivere in reputatione ed in vita honorata da tutti i signori et popoli non fu senza grandissima virtù et sapientia et costantia.
Alla parte che si dice che nella adversità della fortuna Dante conservò la mente agli studii, si può rispondere che nella vita felice et nella prosperità et nella bonaccia non è minor virtù ritenere la mente agli studii che ritenella nella adversità, però che più corrompono la mente degl’huomini le cose prospere che le adverse. «La gola, il sonno et l’otiose piume»28 sono capitali inimici degli studii.
Se in philosophia et astrologia et nelle altre scientie matematiche fu più dotto Dante – che ‘1 confesso et consento –, dire si può che in molte altre cose il Petrarca fu più dotto che Dante, però che nella scientia delle lettere et nella cognitione della lingua latina Dante fu molto inferiore al Petrarca. Due parti sono nella lingua latina, cioè prosa et versi; nell’una et nell’altra è superiore il Petrarca, però che in prosa lungamente è più exceliente et nel verso ancora è più sublime et più ornato che non è il verso di Dante: sì che in tutta la lingua latina Dante per certo non è pari al Petrarca. Nel dire vulgare, in canzone il Petrarca è pari a Dante, in sonetti il vantaggia. Confesso, niente di meno, che Dante nell’opera sua principale vantaggia ogni opera del Petrarca.
Et però, conchiudendo, ciascuno ha sua excellenza in parte, et in parte è superato. L’essere il Petrarca insignito di corona poetica, e non Dante, niente importa a questa comparatione, però che molto è da stimare più il meritare corona che averla ricevuta, massime perché la virtù è certa, et la corona talvolta per lieve giudicio così a chi non merita come a chi merita dare si puote.
1. Sicuramente si tratta della traduzione latina delle Lodi di Alcibiade a Socrate interne al Simposio di Platone, inviata a Cosimo dei Medici con una lettera non datata (Ep. VII,1) ma assegnata dubitativamente al 1435 (LUISO, Studi cit., p. 126).
2. Giovanni Boccaccio scrisse questa biografìa di Dante dopo il giugno 1351, per poi riprenderla intorno al 1360 allo scopo di prepararne una nuova e più sintetica stesura; in seguito ritoccò ancora il testo in una successiva redazione. È superfluo ricordare qui come proprio il Boccaccio – insieme con i figli stessi dell’Alighieri – sia stato, per tutto il secolo XIV, il più profondo conoscitore dell’opera di Dante, e come, quindi, fondamentale per la storia della fortuna di Dante sia stata la sua produzione. Fu copista, editore e commentatore (fino al canto XVII dell’Inferno) della Commedia, mentre la sua biografia dantesca è la più importante «vita» dell’Alighieri, insieme a quella del Bruni, nell’età umanistica.
3. Evidente è il riferimento al Decameron del Boccaccio.
4. La battaglia di Campaldino – avvenuta l’ii giugno 1289 – è ricordata dal Bruni anche nelle Historiae, pp. 76-77, ove sono pure ricordate la partecipazione di Dante allo scontro armato e la presunta epistola dello stesso Alighieri (di cui alla successiva nota n. 5).
5. Non si ha più traccia di questa lettera di Dante e forse anche di altre poi citate dal Bruni: di esse esiste testimonianza solo in questa biografìa del Bruni. Il quale, invece, dovette averle conosciute direttamente, e pure apprezzate per la loro scrittura «magra et lunga et molto corretta» (cfr. p. 548).
6. Questa iscrizione si legge in Palazzo Vecchio. La località di Certomondo fu l’epicentro della battaglia di Campaldino; nella chiesa fu poi sepolto il comandante delle truppe aretine, il vescovo Giovanni Ubaldini.
7. Il Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, a cura di P.G. Ricci, Milano, 1974, pp. 451-454, non parla della partecipazione di Dante alla battaglia di Campaldino, mentre, con esagerazione, ricorda la sua presenza nella vita politica fiorentina.
8. Cfr. p. 552.
9. Cfr. la precedente nota n. 5. La traduzione del Bruni costituisce l’unica testimonianza superstite di questa lettera di Dante.
10. Di tutte le vicende fiorentine qui e più avanti esposte si ha una più ampia trattazione nelle Historiae, pp. 88-141.
11. Cfr., ad esempio, DANTE, Par. 17, 68-69: «…a te fia bello/averti fatto parte per te stesso».
12. Altro riferimento ad una lettera dantesca andata perduta; non si può escludere che si tratti di un’unica lettera (cfr. la precedente nota n. 5).
13. Cfr. la precedente nota n. 5.
14. Il riferimento è all’epistola rivolta da Dante «ai Fiorentini scelleratissimi» (Epistola VI), ma forse anche ad altre testimonianze andate perdute.
15. Sui beni patrimoniali e le condizioni economiche di Dante cfr. M. BARBI, Le condizioni economiche di Dante e della sua famiglia, in Problemi di critica dantesca, I, Firenze, 1934 (rist. anast. 1965), e Codice diplomatico dantesco, a cura di R. Piattoli, Firenze, 1940, passim.
16. Si tratta del ritratto eseguito da Taddeo Gaddi in Santa Croce, in un affresco, dipinto su un tramezzo nella navata sinistra, che raffigurava un miracolo di San Francesco e nel quale, oltre a Dante, erano raffigurati anche Giotto e Guido Cavalcanti. Ma il tramezzo fu distrutto nel 1566 da Giorgio Vasari nell’ambito della ristrutturazione della chiesa (cfr. G. VASARI, Vite, a cura di A. Rossi, Milano, 1962, pp. 448-449). Un altro ritratto di Dante si doveva a Giotto nella cappella della Maddalena nel Palazzo del Podestà.
17. Continua è nella letteratura greca e latina l’esaltazione del poeta “divinus”; cfr., ad esempio, HOR., carni. 1,12,7; ars 391-396; QUINT., i nst. 1,10,9.
18. Da ðïéçôÞò «chi fa qualcosa», dal verbo ðïéÝù «fare».
19. Il richiamo ai centocinquanta anni poteva derivare nel Bruni da quanto Dante dice sulla formazione e l’avvio del volgare, ad esempio, in De vulgari eloquentia 1,12,4 (dove attribuisce il merito delle origini del volgare alla Scuola siciliana, riunita a Palermo intorno a Federico e a Manfredi di Svevia).
20. Cfr. DANTE, Rime 90.
21. Cfr. DANTE, Rime 104.
22. Cfr. DANTE, Vita Nuova 19, 4-14.
23. Cfr. BOCCACCIO, Trattatello, cit., pp. 486, 529.
24. Si rinnovano anche i motivi di critica all’avvento degli imperatori romani, già variamente ripetuti dal Bruni (cfr. pp. 600604). Anche nelle Historiae, p. 14 si trova la stessa condanna con i nomi degli imperatori responsabili della «declinano» dell’impero romano; pure i successivi riferimenti ai Goti e ai Longobardi hanno corrispondenza in Historiae, pp. 22-23.
25. Cfr. PETRARCA, Fam., 11,1, ed anche 21,15.
26. I Signori di Padova con cui il Petrarca fu in rapporto furono Iacopo da Carrara e poi, dopo il suo assassinio nel 1351, Francesco da Carrara.
27. Esponente di rilievo delle famiglie mercantili guelfe, Giano della Bella, dopo essere stato dei Priori nel 1289, aderì alla fazione popolare e fu fra i sostenitori della politica antimagnatizia che portò all’emanazione, nel 1293, degli Ordinamenti di giustizia; morì fra il 1311 e il 1314. Dante lo ricorda in Par. 16, 127-132 e il Bruni in Historiae, pp. 81106 passim.
28. Cfr. PETRARCA, Canzoniere 7,1.