DE MILITIA

DELLA MILIZIA

Finito di comporre nel dicembre 1421, il De militia rappresenta la più alta espressione del pensiero del Bruni – prima delle Historiae florentini populi – nel campo sociale e politico. Anche se non può essere considerato lontano dalla Laudatio fiorentine urbis e poi dall’Oratio in funere Iohannis Strozze, da esse il De militia nettamente si differenzia per l’assenza dell’enfasi retorica ed encomiastica che permea quelle due opere. Il De militia appare, infatti, come una trattazione svincolata da fasti celebratori, ridotta all’essenziale nella forma e quindi, per certi aspetti, più salda ed incisiva nella sostanza, anche se non vi manca l’elemento propagandistico ed ideologico che così fortemente caratterizza la Laudario e l’Orario. Né casuale è la dedica dell’opera – che pure è scritta da un Bruni semplice cittadino, privo di incarichi pubblici – a Rinaldo degli Albizi, che anni dopo sarebbe divenuto il simbolo della fazione oligarchica ed antimedicea destinata a reggere le sorti di Firenze fino al 1434, quando cioè i Medici, prima sconfitti dalla parte albizzesca, ritornarono in città e dettero vita ad un nuovo e tutto «signorile» reggimento dello Stato.

Nel De militia il Bruni prende lo spunto da discussioni e scritti sull’uso e sulle caratteristiche storiche della milizia per ampliare il ragionamento ai rapporti che essa ha, anche nei tempi presenti, con lo Stato e quindi con la vita stessa dei cittadini: «Primum ergo, cum homo civile sit animai, miles autem homo, cuncta militaris institutio a civitate tanquam a capite repetenda est. Civitas enim totius vite cunctorumque humanorum munerum princeps est et perfectrix» (p. 656). E sulla base di questa affermazione il Bruni sviluppa il concetto della «civitas», cioè della «communitas civium», non staccata dal quadro armonico che aveva già offerto nella lontana (dell’inizio del secolo) Laudario. Scrive, infatti, che proprio la città «officia inter cives distribuit, necessaria providet, aliena repellit, ac ex multorum cetu singulorum defectui supplementum inducit, ut illa demum sint recta hominum officia existimanda que ab illius ordine institutoque processerint» (p. 656). La tesi della «distribuzione» degli uffici tornerà nell’Oratio in funere Iohannis Strozze, dove ancora più nettamente sarà definito il carattere «popolare» del governo della città, che a tutti garantisce libertà ed uguaglianza di diritti politici.

Entro siffatta e fondamentale visione della «civitas», il Bruni conduce, dunque, la specifica trattazione sulla milizia, impostandola intorno a tre temi essenziali: origine ed essenza della milizia, rapporti fra l’odierna milizia fiorentina e la milizia dei tempi lontani, posizione e condotta del soldato non solo in guerra ma anche in pace. Ognuno dei tre temi è svolto con ricchezza e varietà di argomenti, di richiami, di considerazioni, in un frequente collegamento fra presente e passato. Ma il motivo che più spesso e con più calore ispira queste pagine è l’ammirazione, e quindi la rievocazione, degli insegnamenti tecnici, sociali e morali che vengono dal mondo antico, e soprattutto dalla Roma repubblicana. Così è, ad esempio, con l’ampia e appassionata esaltazione di Romolo, che con grande saggezza portò il problema della realizzazione della milizia dalle fantasiose teorie dei filosofi alla realtà pratica della vita dei cittadini e dello Stato; così è con la rievocazione di tanti eccelsi Romani, che, nei campi e nei modi più diversi, resero ammirevole la gloria della loro città: come Cicerone e Catone, Tiberio Gracco e Caio Mario, Fabio Massimo e Attilio Regolo, e tanti altri. E ancora l’ispirazione di Roma si percepisce, fra l’altro, nel ricordo dei nobili costumi e degli elevati comportamenti dei soldati-cittadini che rifiutarono guadagni illeciti o aiutarono in più forme i loro concittadini. Fino a giungere alla prosopopea, che chiude la trattazione, della patria che si rivolge al soldato: «Que quidem patria si, me hercle, loqui posset, sic, ut opinor, cum illo ageret…» (p. 698): una prosopopea che non può non ricollegarsi idealmente, ad esempio, alla famosa prosopopea ciceroniana della prima orazione contro Catilina: «Nunc te patria […] sic agit et quodam modo tacita loquitur…».

Fra le più svariate motivazioni che caratterizzano il De militia è comunque da rilevare l’importanza attribuita dal Bruni al ruolo del soldato, sentito come il «propulsator belli» e il «custos civium», cioè colui che difende la patria dagli attacchi dei nemici e insieme i singoli cittadini dalle offese che possono essere loro arrecate da più parti: «est enim miles nihil aliud quam custos civium et propulsator belli legitime ad hoc ipsum sacramento adactus» (p. 674). Così nella concezione del Bruni l’esercizio delle armi e la vita della città si incontrano su un piano che va ben oltre l’onore che spetta a chi è soldato e a chi, soprattutto, è

cavaliere, anche perché durante il tempo di pace il «miles» è sempre impegnato nella tutela e nella salvaguardia dei cittadini.

Questa intima connessione che lega il soldato alla patria e quindi ai suoi concittadini in virtù del suo giuramento – «Miles autem est custos civium fide ac sacramento, et vi naturaque professionis ad hoc unum agendum meditandumque costitutus» (p. 694) – porta, come conseguenza, ad escludere dalla milizia chi sceglie la professione delle armi per trarne profitto economico: «cui professioni contrarium est omne protinus studium lucrifaciendi» (p. 696). A questo motivo si aggiungerà più tardi un’ulteriore riflessione: che, cioè, la città deve affidarsi ai soldati che sono suoi cittadini, non a quelli che sono esclusivamente mercenari; perché soltanto il cittadino è disposto a morire per la sua patria. E sarà il messaggio più drammatico dell’orazione funebre in onore di un eroe, Nanni Strozzi.

Ad Rainaldum Albicium

Fateor, clarissime vir1, et mihi ipsi iam sepe in dubium venisse hanc nostri temporis militiam, que dignitatis honorisque loco prestantibus viris tribui solet, nec incuriose quidem a me pervestigata fuisse illius initia atque progressus. Et res quidem, ut comperio, antiquissima est ac in ipsam penitus vetustatem radices agens2. Veruni ita per varios degeneravit mores, ita per multa secula e via deflexit, ut proprie videatur nature primevique instituti parva admodum vestigia retinere, nec tamen usque adeo obscurata quin et unde processerit et quo progressa sit queat agnosci.

Qua de re ut ad te aliquid scriberem excitavit non flagitatio modo tua, cui refragari non possum, verum etiam libelli cuiusdam inspectio, tibi ab optimo quodam viro ut aiebas transmissi3, qui de principiis eius professionis se dicturum pollicitus, idque unum profecto haberi prestarique a se posse non ambigue protestatus, nil postea tamen, quod equidem intelligam, ad vivum resecat, nullamque eius neque naturam neque originem tradit, sed re ipsa in qua persistendum fuit exiliter porro ieiuneque percursa, nomen dumtaxat militie aurique et corone interpretationes quasdam superfluo magis quam necessario consectatur. Interpretationes vero istiusmodi perfaciles et in dicentis arbitrio scimus repositas, cum sit nulla res tam muta, nulla tam dissentiens forma que non possit comminiscendo ac subornando ad intellectum aliquem virtutis referri. Ego autem cohortandos ad virtutem non milites solum sed omnes omnino homines puto. Nam virtus omnibus communis est. Scribentis tamen esse censeo in re quam proposuit discutienda persistere, non aliud profiteri aliud agere. Preterea quedam ab illo dicta sunt de ordinibus institutisque legionum premiisque et penis militum, que mihi quidem nequaquam probantur, utque verum ipse dicam, ea vera non puto.

Nos igitur illo omisso, cuius singula refellere nil attineret, aggrediamur, si placet, de re ipsa transigere, ante omnia premittentes de quibus sumus dicturi, ut et mihi velut cancelli sint quidam extra quos evagari non liceat, et tu audiens iam hinc reddaris attentior. Sermo totus sic a nobis instituetur, ut primo quenam fuerit huius preclari muneris origo et institutio aperiamus, ex quo etiam palam fiet quid sit militia et miles. Deinde quemadmodum hec nostra militia primeve illi vetusteque institutioni congruat ostendemus. Tertio, si id videbitur, de auro ornatuque militari, et an ullum sit in pace militis officium disseremus. His enim discussis, quid amplius requiras? Non admodum erit? Pergo igitur ad illa eodem ordine transigenda.

Primum ergo, cum homo civile sit animai, miles autem homo, cuncta militaris institutio a civitate tanquam a capite repetenda est4. Civitas enim totius vite cunctorumque humanorum munerum princeps est et perfectrix. Hec enim officia inter cives distribuit, necessaria providet, aliena repellit, ac ex multorum cetu singulorum defectui supplementum inducit, ut illa demum sint recta hominum officia extimanda que ab illius ordine institutoque processerint. Forma vero civitatis duplex est: una limatior a sapientibus cogitata, litteris solum et ingenio constans, altera qualem usu et re vera civitatem videmus. In utraque ergo istarum principia militaris discipline sunt a nobis perquirenda, si modo originem eius intelligere cupiamus. Hoc est qualis a philosophis incogitata et qualis rursus in vera civitate sit a maioribus instituta.

Ac primo in philosophorum civitate videamus quid illi tradiderint de militari institutione. Convenit inter omnes sapientes, hinc enim iam quo facilius intelligas ordiendum arbitror, hominem esse ipsum per se imbecillum nimis atque infìrmum, sibi denique ipsi nequaquam sufficere. Itaque societate et conventu opus esse hominibus, ut quod seorsum degentibus singulis deesset, id per mutuam opem de multitudine socia nanciscantur. Hos vero cetus hominum ad commoda vite consequenda sociatos Greci quidem «polis», nostri autem «civitates» vocavere. Nec tamen omnis congregatio hominum civitas est, sed illa tantum que ex suis partibus eam perfectionem sit consecuta ut nulla externa quesita ope in se ipsa satis habeat ad bene vivendum. Quamdiu vero ipsa sibi non sufficit, non erit civitas nuncupanda, siquidem civitatis hoc proprium est plenam indigentie expletionem ad usum vite continere. Que autem hominum genera civitati necessaria sint, ex quibus quasi membris in unum coeuntibus perfectum corpus civile absolvatur, ab iisdem est sapientibus perquisitum. Sunt enim numero admodum multa, si singulatim indigentiam prosequare, sin generatim admodum pauca.

Hippodamus quidem Milesius, qui primus de optimo reipublice statu scripsisse traditur, tres civitati partes necessarias consignavit. Harum unam agricolas fecit, alteram artifices, tertiam propulsatores belli et arma tenentes5. Agricolas siquidem frumenta prebere, artifices vero domos et vestes ac cetera huiuscemodi necessaria ad vitam, propulsatores autem belli hos ipsos et eorum opera custodire quidem atque tueri. Cui vero hec tria recte assint eam civitatis perfectionem habere. Cernis iam originem militie. Et quidem naturalem et necessariam. Neque enim agricole neque artifices in civitate perstabunt absque propulsatoribus belli, neque rursus propulsatores ipsi sine agricolis et artificibus frumentum et cetera ad vitam necessaria conferentibus permanebunt, sed ex horum trium cetu sufficiens quiddam absolutumque resultat. Civitas autem tunc demum est appellanda cum sibi ipsa sufficere potest. Nam illud pro tuo te ingenio latere non arbitror civitatem esse, non, ut ineruditi vulgo credunt, menia et tecta, sed multitudinem hominum iure sociatam. Hec igitur multitudo, cuius singulis per se degentibus multa deforent, ex societate communi perfectionem consequitur.

Eam vero tria hominum genera prestare posse Hippodamus censuit, agricolas, artifices, et propulsatores belli, quos milites dicimus. Ex quo fit ut militia et miles non solum a laudabili quodam et honesto verum etiam a necessario et naturali principio deduci appareant. Plato quoque, in iis preclaris libris qui sunt ab eo de re publica scripti, cum et agricolas et ceteros necessarios usus in civitate constituisset, unum genus hominum longe ceteris anteposuit, quos «custodes» appellavit6. Horum ille munus fore dixit arma tenere civesque alios ab hostibus tutari, quibus etiam mirifica quedam privilegia tribuit honoreque et dignitate multum admodum voluit antecellere. Hos ille duros in armis ferocesque adversus hostem fore dixit oportere, in cives autem benignos et mites.

Sentio ista dici exiliter et quasi nude, sed est id quidem necessarium. Sunt enim prima veluti elementa civitatis, que amplitudinem orationis non satis recipiunt. Iam vero que sequuntur illustriora esse possunt. Post iacta enim civitatis fundamenta partesque eius constitutas, celeberrimus ille oratorum campus hinc totus patescit ad iustitiam, ad pietatem, ad fortitudinem commendandam. Cum enim absque civitatibus hominum vita esse nequeat, pietas in patriam et mors pro illius salute excepta mirificis laudibus in celum tolluntur7. Hinc illi Demosthenis clamores, quibus plenum exultabat theatrum in Marathone, in Artemisio, in Salamine pro patria defunctos commendantis. Hinc ex nostris Decii pater et filius, qui se pro salute civium suorum devovere. Hinc Oratius Cocles, qui pro tutela patrie adversus victorem congressus regem pone rescindi pontem iussit. Hinc Bruti, Publicole, Camilli, Scipiones celebrantur. Contra vero in proditores vexatoresque patrie, Catilinas dico et Cethegos, Spurium Melium, Numitorem Flagellanum, cui ampia et exundans deesse potest orario? Quam digna piane res sit civitatis defensio ex malis que oppressam sequuntur licet intueri. Rapi virgines e complexu parentum, matres familias ad libidinem trahi, sacra profanaque simul pollui, cedibus et incendiis cuncta misceri8. Itaque huius meriti gloriam secuti homines statuas sibi effìngunt habitu fere militari, quasi prestantissimum sit in hoc genere laudis potissimum claruisse9. Hec et huiusmodi illustriora, ut diximus, esse possunt, si quis ea velit splendore copiaque verborum consectari. Sed nos ad propositum nostrum redeamus.

Plato igitur et Hippodamus ita censuere. Proximus fuit Phileas Carthaginensis, qui et ipse de re publica scripsit.10. Ab eo quoque de agricolis et propulsatoribus belli eadem ferme que ab Hippodamo tradita sunt. In artificibus autem variavit, quos nullam civitatis partem esse censet, sed publicos servos esse debere. Huius, ut opinor, vox haud equis auribus Florentie fuisset excepta, neque sane alioquin probandam eius sententiam reor. Admiscet enim naturalibus principiis servitutem, quam esse contra naturam omnes fatentur. Quare superiores illos magis teneamus quos et ceteri in hac partitione civitatis sequuntur. De illo certe nequaquam ambigendum est quin uterque philosophus de militibus dicat, quos alter propulsatores belli alter custodes appellavit.

Videtur porro et nomen ipsum miles hec eadem quoque apud nos significare. Sunt enim apud doctissimos ac vetustissimos de eo quidem nomine tres ferme sententie11. Alii namque putant militem dictum a malo quod arcere solet, quam nominis deductionem quidam eorum qui sibi eruditi videntur reiciunt quasi duram et ineptam. Sed non satis intelligunt. Est enim secundum analogie rationem ista deductio perquam sane conveniens et recta. Nam cum agricola quidem annonam conferat in communem civitatis usum, artifex autem vestem et domum ac cetera huiuscemodi necessaria subministret, miles ipse nichil aliud prestat in communi societate quam uti malum arceat, id est uti cives tutetur provideatque ne cui malum ab hostibus inferatur. Ut igitur agricola ab agro colendo et artifex ab arte facienda recte dictus est, sic et miles a malo quod arcet recte dicitur miles. Ab officiis enim nomina in civili societate ducuntur. Officium autem est alterius agrum colere, alterius artem exercere, huius vero malum arcere. Optima igitur ratione rectissimoque instituto creditum est milites a malo arcendo dictos, quos idem sentiens Hippodamus propulsatores belli vocitavit, Plato autem custodes. Etenim qui bellum propulsant, quid aliud propulsant quam malum? Et qui malum arcent a civibus eos quis neget esse custodes? In nomine quoque convenientia est, siquidem militia parum admodum a malitia distat, a malo utraque proficiscens.

Hec prima de nomine militis sententia est, meo quidem iudicio concinna et vera.

Alii a voce greca tractum id nomen putaverunt, que ferme duritiem significat12. En quod Plato custodes in armis durosque nuncupavit. Minime quidem molles esse convenit, sed duros laborum periculorumque patientes, qui arma tenere, qui cum hoste armato congredi, qui in agmine, qui in pulvere, qui per estum et glaciem militiam tolerare ac propriam salutem pro civium salute offerre periculis habeant, de quo preclare Virgilius in Italie laudibus: «Durum a stirpe genus. Natos ad flumina primum / Deferimus, sevoque gelu duramus et undis»13. Idem alio loco: «Sub te tolerare magistro / Militiam grave Martis opus»14. Satis ex ipso nomine probatum reor quos Plato custodes, Hippodamus propulsatores belli appellavit, nos milites dicere, sive a malo arcendo miles dicatur, quod est idem quod propulsator et custos, sive a greca voce que duritiem significat.

Tertii a mille numero dici militem putant, littera una detracta15, quod ad utrumque commune est, cum et propulsatores belli et custodes numero constent et ad usum rei bellice dividi per numeros necessarium sit, unde centuriones ac tribuni militum in exercitu dicuntur.

Sed iam satis de prima civitatis forma. Nunc de altera videamus, in qua cum permulte sint civitates et queque suis constent institutis et moribus, nos romanam potissimum utpote ceterarum principem optimeque constitutam inspiciamus. Ante omnia tamen illud intelligendum est quia primam civitatis formam ratio efficit, secunda imbecillitati subiacet humane. In illa constituentis voluntas, in hac potestas magis attenditur. Ex hoc factum est ut, cum Plato et Hippodamus genus militare seorsum a ceteris sequestratumque posuerint, Romulus ipse conditor urbis promiscuos milites nec aliquo tempore ab reliquis separatos institueret civibus16. Vidit enim Romulus quemadmodum necessaria erat militia in civitate ad vim hostium propulsandam, sic perdifficile fore, ac fieri vix posse, ut iidem semper cives militie onus sufferrent. Itaque rem ut necessariam in civitate retinuit munus autem pro condicione hominum variavit ut alii alias certo singuli tempore militarent. Quapropter et agricola cum vicissitudo ac rei publice necessitas flagitabat posito aratro sumebat arma, et artifex intermisso artificio quasi alius factus militabat. Sic ex duobus hominum generibus tertium exprimebatur, non ipsum perpetuum, sed tempore dumtaxat spatioque distinctum. In expeditionem enim proficiscebatur non ut artifex sed ut miles, rursus ad artificium redibat non ut miles sed ut artifex. Quamdiu rei publice causa in exercitu aberat, militie privilegiis et honore gaudebat, reversus autem domum cum militia esset finita nec privilegiis nec honore militie fungebatur. Ita quasi fierent alii ac tempore mutarentur, bina singuli munera per vices adimplebant.

Usque adeo autem religiosa res militia fuit ut sacramento fieret miles, et qui miles non esset ei pugnare in hostem non liceret. De quibus, ne forsan hesites, subiciam tibi Ciceronis Catonisque testimonia. Quid enim maius quisquam aut certius ad fidem tibi possit afferre? Verba Ciceronis hec sunt in librorum de officiis primo. «Popilius imperator tenebat provinciam, in cuius exercitu Catonis filius tyro militabat. Sed, cum ei videretur unam dimittere legionem, Catonis quoque filium qui in eadem legione militabat dimisit. Sed, cum amore pugnandi in exercitu remansisset, Cato ad Popilium scripsit ut si eum pateretur in exercitu remanere secundo eum obligaret militie sacramento, quia priore amisso iure cum hostibus pugnare non poterat»17. Est quoque M. Catonis senis epistola ad filium, in qua scribit se audisse eum dimissum esse a consule cum in Macedonia bello Persei miles esset; monet igitur ut caveat ne prelium ineat. Negat enim ius esse ei qui miles non sit in hostem pugnare. O locuples testimonium, sive testium auctoritatem sive rerum testatarum magnitudinem contemplere. Quamquam sexcentis ea testibus si liberet probarem. Sed qui Ciceroni et Catoni non crediderit, quibus tandem is credet? Sed vide quam multe res uno hoc testimonio conficiantur.

Tria quidem adhuc erant a nobis exposita de Romuli militia. Primum esse illam non perpetuam sed ad tempus. Secundum religione sacramenti milites fieri. Tertium qui miles non esset ei pugnare in hostem non licere. Hec omnia uno hoc locuplete testimonio comprobantur: que manda, queso, memorie. Sunt enim necessaria ad illa que paulopost discutere volumus pernoscenda. Nunc pergo ad reliqua.

Militia vero omnis sic divisa fuit a Romulo ut ex civibus alii pedites alii equites militarent. In equitibus autem quoniam excellentia quedam apparebat, et vel ex censu vel ex genere vel ex vita prestantissimis civium hic honos tribuebatur, equestris dignitas loco nobilitatis et amplitudinis haberi est cepta. Ita equester ordo in civitate natus est, ad quem si qui adsumebantur, ex reliqua multitudine dignati hoc honore, non dubie ad nobilitatem et splendorem quendam videbantur traduci. Nec militie solum et in bello verum etiam domi et in pace hic honos manebat equiti, non quia tunc esset miles, sed quia ea dignitate erat ut cum militandum foret non pedes quemadmodum minima plebs sed prestantiori militie genere equo militaret. Ab equestri autem ordine ad preturam, ad senatum, ad consulatum erat ascensus, quas dignitates assecuti cum fuerant non iam equestris ordinis sed pretorii vel senatorii vel consularis dicebantur. Quemadmodum enim si nunc in hac nostra militia constituto vero summus ille vir ac pene divinus militie detulerit quantumque spei in hac una re collocaverit, non vivus modo instituendo exercendoque sed mortuus etiam confirmando ostendit. Verba siquidem eius suprema ad Iulium Proculum ista fuere: «Abi nuntia, inquit, Romanis celestes ita velie ut mea Roma caput orbis terrarum sit. Proinde rem militarem colant sciantque, et ita posteris tradant nullas opes humanas armis romanis resistere posse»19. Hec locutus sublimis abiit.

Satis quidem, ut opinor, demonstratum est in utraque civitatis forma que sit militie origo atque natura, ex quibus etiam deprehendi potuit quid sit miles. Est enim miles nihil aliud quam custos civium et propulsator belli legitime ad hoc ipsum sacramento adactus. Militia vero est res ipsa et quidem honestissima et maxime necessaria, secundum naturam ad civitatem continendam.

Nunc vero quoniam primo proposita transegimus loco, consequens est quemadmodum hec nostri temporis militia illi conveniat intueri, pro cuius cognitione duo ex iam dictis videntur repetenda. Unum est nobilitatem equis, plebem autem pedibus militare solitam, alterum qui miles non esset ei pugnare in hostem non licere. Dico igitur militiam hanc nostram ista duo prestare. Primum ut ex plebe ad equestrem ordinem, id est ad splendorem nobilitatemque, traducat, secundum ut legitimum propugnatorem per sacramentum efficiat. Quare et ignobili genere interdum orti, si vel egregia virtute vel opulentia precellant, ea se dignitate insigniri procurant, per illam se ac posteros nobilitari volentes. Et nobilissimi interdum homines illam assumunt, non tam nobilitatem querentes quam sacramenti misterium. Est ergo utraque vis in hac militia, sed tantum confert quantum is indiget cui confertur. Itaque collata ignobili utrumque prestat, nobili vero cum alterum iam habeat alterum solum. Congruit autem philosophorum institutioni et Romuli. Nam quod perpetua est hec militia, non autem temporaria, philosophorum institutioni convenit. Illi enim perpetuos milites esse voluerunt. Quod autem ex pedestri ordine ad equestrem traducuntur, id iam Romuli est, et aliorum si qui non dissimilia Romulo in suis civitatibus statuere.

Videtur autem vulgus in hac una quidem re peritius loqui quam mediocriter quidam eruditi. Vulgo enim sic proferunt huiusmodi honorem ut equi mentionem habeant. Denique cum alicui collata sit ea dignitas factum equitem vulgo dicunt equitemque compellant. At mediocriter eruditi militem aiunt, et est profecto miles. Nam id quidem negari haudquaquam potest, sed compellatio certe non satis honesta. Nam cum sit quidam miles et qui pedibus et qui equo militat et sit excellentia permagna in equite, malo equidem eo nomine compellare in quo est precellentia dignitatis proprie quam eo quod est utriusque commune. Velut enim si quis priores alloquens nostros non priores eos sed cives compellaret, verum quidem diceret sed eorum honori non satisfaceret. Sunt enim non cives modo sed etiam dignitate supra cives positi. Sic qui istos milites appellat verum quidem dicit sed eorum honori non satisfacit. Sunt enim non milites modo sed equestri dignitate prestantes. Signum huius est quod milites dicimus etiam non satis honesto exercitio preditos, ut qui super vestem miserunt sortem et qui ad supplicium ducunt et qui reos custodiunt20. Unde illud est: militem et reum eadem stringit catena. Quare apud peritissimos loquendi auctores observatum vidi ut miles fere peditem designet, eques autem cum honore dicatur, quod etiam ad dilucidandam orationem pertinet pedibus an equo, nobilis an ignobilis miles sit unico verbo discernere. Eques enim genus militie dignitatemque significat, eaque est dignitas que hodie confertur. Sed satis multa de verbo, quod, ut cuique libet, dicere licebit, ex quo usus quidem consuetudoque recepit. Ad rem ipsam redeamus.

Militia igitur nostra sic primeve illi vetusteque institutioni congruit. Aurum vero ceteraque insignia, qui tandem sibi velint, considerandum est. Qua in re levium hominum se usque ad ineptias iactare solet oratio virtutem in auro splendoreque commentantium. Sunt enim qui multa quedam significare aurum credant, tantumque in eo reponant ut illo contineri omnem militie putent decorem, adeo ut si quis aurum militibus demat nullam relinqui causam putent cur esse milites velint. Precellere siquidem eo insigni decorarique milites asserunt et conspicuos in ora hominum egregiosque fieri, illo autem dempto inter vulgus ac vilissimam turbam nullo discrimine versaturos. Alii vero aut nihil aut perparum admodum reponunt in auro, quippe quod medicis etiam circumforaneis ac feminis etiam scortis ac mehercule pueris et histrionibus commune sit. Quid habere potest in milite quod sit tantopere admirandum? Ferrum quidem et arma militis esse propria, aurum vero et gemmas muliebri mundo convenire magis.

Nos ergo, si placet, inter has sententias diiudicemus. In quo primum illud intelligendum puto, non omni militie aurum competere, sed equestri tantummodo. Equestris quoque dignitas multa per secula sine auro fuit. Constat enim Romulo regnante ac diu postea nullum protinus auri usum equites habuisse. Ex quo palam est ad vim naturamque militie aurum nihil pertinere, quin etiam nec postea quam equitibus concessum est omnes perinde equites aurum gestarunt. Sed multi severitatis prisce illius usum aspernati feruntur, ut C. Marius et Lucius Suffidius Calpurniusque et Manilius et alii quidam prestantissimi equites romani, quos constat auro nunquam uti voluisse. Illi etiam qui auro sunt usi nihil aliud quam anulos aureos gerebant, cum eos qui equites non essent ferreos habere mos esset21.

Filii quoque equitum quamdiu pretextati erant bulla aurea utebantur, quod Lucius Tarquinius rex omnium primus filio suo impuberi dedisse traditur, indeque receptum esse ut equitum filii auream bullam in pretexta gererent, quod nobilitatis erat insigne. Pueros ergo nobiles a plebis bulla aurea secernebat, equites vero a plebe anulus aureus, nec quicquam aliud in pace. Nam in preliis quidem arma decorare mos fuit, presertim apud Gallos, de quibus illa sunt Flomeri nostri: «Aurea cesaries ollis atque aurea vestis / Virgatis lucent sagulis, tum lactea colla / Auro innectuntur»22. Apud Grecos quoque prefectum illum Alexandri regis notatum scimus quia primus omnium aureas virgulas calceis inseruit23. Sed nostri equites, non his contenti, etiam spinter in palla circumferunt. Auri igitur usus primum equitibus in anulis fuit, idque parce ac verecunde, ut etiam quidam tamquam re vana et levi abstinerent. Post vero latius in consuetudinem venit, nec porro dignitatem ullam facit aurum, sed tantummodo ostentat, nec quicquam in milite significat preter equestrem dignitatem, id est nobilitatis signum a plebe distinguens. Nam senatores quidem ab equitibus genus vestis secernebat, equites vero a plebe anulus aureus.

Putare autem uti splendor luciditasque auri magnam aliquam virtutis signifìcationem contineat, non magis tolerabile est quam si quis vestem illam senatoriam in allegorias vertere conetur, ut, si late eius manice sint, virtutis capaces dicat esse, sin arcte et breves abstinentiam parsimoniamque significare. Denique nihil est quod non levissime in huiuscemodi significationes pertrahatur. Bipedem esse hominem multa significare potest. Idem fieret etsi esset tripes. Quo in genere perquam urbane iocatum ferunt Ludovicum Marsilium, hominem cum cetera doctrina tum sacrarum litterarum scientia omnium etatis nostre clarissimum24, qui cum ab eo quereretur, apices illi duo episcopalis mitre quidnam signifìcarent, ridens inquit: quia novum vetusque testamentum scire episcopum oportet. Tum ille, recte quidem hoc, at quid redimicula post collum ab eadem mitra pendentia? Redimicula, inquit, illa postergata atque reiecta significant nec novum nec vetus episcopum scire testamentum. Ita doctissimus vir stultitiam vanitatemque rogantis lepida cavillatione delusit, quod et in auro militari esset merito faciendum. Nam doctissimi quidem omnes fatentur aurum esse mulierum magis proprium quam equitum, et certe a mulieribus traductum ad equites constat, non ab equitibus ad mulieres. Est autem signum, ut diximus, equestris dignitatis, nec aliam in milite vim habet ullam; nec simul cum equestri dignitate incepit, sed postea diu illi tributum est, quo a plebe discerneretur.

Corona quoque oleagina non antiquissima fuit, sed post Fabii Maximi tempora. Is enim primus instituit ut equites romani idibus quintilibus transveherentur25. In ea transvectione serta olive gestare mos fuit. Inde consuetudo retinuit ut ea fronde coronentur in equestri dignitate recipienda, quasi tunc primum transvehantur ad equestrem numerimi additi. Etenim cetere quidem corone meriti sunt, hec autem non tam meriti quam spei bone. Cetere peditum equitumque communes, hec propria equitis. Nam vallares quidem et murales et civice, qui valium primus transilierat, qui murum conscenderat primus, qui civem servaverat, ei donabantur, sive is eques sive pedes esset. Idem est in rostrata obsidionalique corona. Sed hec propria equitis est, nec illa donari equitem sed sumere illam mos fuit, non meriti decus sed dignitatis insigne. Cur autem potissimum ex oliva fuerit placiti magis quam rationis esse crediderim, etsi non ignorans ultro citroque id commentum trahi posse. Nam civice quidem ex quercu aut ilice, obsidionales vero ex gramine, murales ac vallares et rostrate ex auro fere donari consueverunt. Fuerunt etiam triumphales corone ex lauro, ovales ex mirto vel oliva, quod ideo factum puto quod non quasi duci sed quasi equiti ovatio tribuebatur. Sed hec alieniora forsan a proposito. Nobis quidem sat est ostendisse secundum antiquum esse morem ut equites oliva coronentur, idque nunc in tradenda equestri dignitate non sine causa servari.

Sunt et alia quedam genera militie barbara quidem ut opinor ac superstitiosa, que non est propositi recensere. Nos enim romanam disciplinam in milite consectamur, ab illa quicquid desciscit agreste simul ac barbarum ducimus. Atque ut forma baptismi recta quidem ac laudabilis est ab Ecclesia constituta, reperiuntur tamen stulta quedam ac superstitiosa hominum genera qui vel ferro vel igne baptizandi formam immutant26, sic militie tradende recta quidem forma est quam supra retulimus, barbari tamen illam stulte pervertunt. Que sit igitur origo naturaque militie, et quemadmodum hec nostra illi conveniat quidve aurum coronaque valeant satis abunde, ut opinor, ostendimus.

Restat nunc quod extremo posuimus loco, an sit aliquod in pace militis offìcium intueri, de quo multa multos opinari video, nullos tamen ad probandum ratione et via profìcisci, sed assensione quadam magis duci quam uilo probabili argumento. At nos, si placet, maturius disseramus.

Videri sane potest esse aliquod militis offìcium in pace. Quid enim dicemus eum quamdiu bella non gesserit nihil agere? Et Romani quidem equites multa in civitate gerebant. Nam et iudicabant et vectigalibus intendebant et cetera multa obibant ut equites. Selectum denique locum habebant lege Othonis theatrali27, ne mixti cum plebe spectarent. Nostros quoque equites et magistratum gerere et tutorium munus subire, negotiis denique familiaribus augendoque patrimonio vacare videmus. Quis ergo neget aliquod esse militis in pace officium et munus in quo cum laude exerceatur? Contra hec vero facit, quia propulsator belli est miles. Propulsatoris autem belli nullum in pace est opus, quemadmodum nec pugnatoris. Et nomen belli castrorumque videtur miles, vel a numero delectus vel a duritie in armis vel a malo arcendo quod hostes inferebant. Quid igitur dicendum sit non immerito dubitatur.

Bonus miles et fortis ac civium suorum amator ab exercitu domum reversus vel ne profectus quidem in exercitum, cum sit pax nec eius opera civitas indigeat contra externos hostes, domi sedebit iners, nec ullum eius opus erit in pace? Omitto iustitiam, temperantiam, liberalitatem. Sunt enim he quietorum hominum virtutes. At fortitudinem, que est propria militis, quid prohibet eum domi exercere? Si viduas vexari, si pupillos spoliari, si imbecillos a potentioribus vi et armis patrio fundo pelli conspexerit, non se opponet, non resistet? Trepidantem denique patriam et ab improbis vexatam civibus non et Consilio et ope iuvabit? Et quanti fuerit militem esse si nihil horum sibi relinquamus? Marcus Tullius miles fuit in exercitu Lucii Sylle; reversus autem domum Sextum Roscium parricidii accusatum contra dominantis potentiam defendit28. Fortis nempe res, at in pace gesta, civisque fedo ab interitu servatus longe gloriosius quam in bello. Patrem enim Roscii, hominem locupletem et bonum sed magis quam par esset erga filium inclementem, clam occidendum quidam curaverunt. Filius per occasionem discordiarum quasi paterne cedis auctor ab iisdem interfectoribus accusabatur. Preda ad Crysogonum Syllamque redibat. Res erat nota et infamis. Ceterum nemo ob Sylle metum, qui tunc dominabatur, defensionem suscipere audebat. Adolescens bonus innocens modestus calamitosus miserandum ad supplicium trahebatur, insuendus culleo et in profluentem abiciendus. Non patre tantum amisso verum etiam patrimonio; nec patrimonio tantum sed etiam vita; nec vita tantum sed etiam fama. Quanto igitur pluris fuit hunc in iudicio servasse, quam si in prelio servavisset? Nam in prelio quidem pro patria cadentibus fama incolumis remanet, gloria augetur, patrimonia suos relicta consolantur. Hic uno flagitio cuncta peribant. An igitur tale si quid accidat non militis esse dicemus forti animo resistere? Paulinum consularem virum, cuius opes palatine canes spe iam et ambitione devorassent, ab ipsis hiantium faucibus extraxisse Boetius asserit29. Nonne hec et huiusmodi, que sunt fortitudinis opera et summo cum periculo adversus potentiores geruntur, militibus tribuemus?

Dixi de re privata. Quid de re publica? An Metellus parum laudabiliter fecisse videtur, quod Cesari Tarpeiam diripienti se cum maximo sui periculo opposuit?30 Quid Scipio ille, qui Tiberium Graccum rem publicam labefactantem propria manu occidit?31 Quid C. Marius, qui Saturninum? Quid Servilius Hahala, qui Spurium Melium oppressit, quamquam videri possunt hec in bello gesta, vel saltem non in pace? At Valerium Publicolam quis negabit non militie modo verum etiam domi multa preclara gessisse?32 Quid Fabius Maximus, vir militaris et bellica insignis gloria, nonne perturbatam vacillantemque rem publicam domi stabilivit, divisa in tribus urbanas forensi turba, ex quo Maximi cognomentum sibi et posteris habere promeruit? Quid Camillus? Nonne in ea urbe quam receperat armis consistendi Romanis auctor fuit, cum illi stulto Consilio migrare Veios statuissent? Quid Marcus Attilius Regulus, et ipse militaris vir, nonne captus ab hostibus cum Romam commutationis gratia captivorum missus esset, commutationem dissuasit, quia cum rei publice detrimento fieri intelligebat? Quam ob causam ab iisdem postea hostibus est supplicio affectus. Sed ille patrie consulere voluit, non sibi, et salutem publicam proprie antetulit.

Hec igitur egregia opera domi gesta, vel in civibus contra potentiorum iniurias tutandis, vel in re publica defendenda dirigendaque, militum esse quidam putant. Sed certe aberrant. Sunt enim hec omnia boni quidem, ut ita dixerim, viri et civis officia, non autem militis. Et de Romanis quidem constat, quorum militia domum reversione finiebatur. Neque enim Cicero miles erat cum Roscium defendit, neque Boetius cum Paulinum, neque Metellus cum Tarpeiam protexit, neque P. Scipio cum Tiberium Graccum occidit, neque Fabius aut Camillus aut Regulus cum illa suaserunt. Et si omnes primo militaverant, finita tamen militia erat. Nec igitur ipsi milites dum hec gerebant, nec sane que ab illis gerebantur militaria. Quare in temporaria quidem militia nullum militis in pace atque domi videtur fuisse officium neque munus. In nostra vero hac militia, quam non ad tempus sed perpetuam esse volumus, magis ambigi potest, quoniam domum reversis militia permanet.

Sed certe ratio ipsa compellere videtur ut idem sit de nostris quoque, id est de huius temporis militibus, extimandum. Caput autem huius considerationis est videre ut qualis quis agat. Possunt enim in unum eumdemque hominem plures nonnumquam incidere persone, ut in Philippum equitem florentinum33. Is enim et miles est et eques et iurisconsultus et advocatus et civis et vir, nisi tu neges, etiam bonus. Refert igitur cum quid gerit qua persona utatur, quod et in aliis est diligentissime intuendum. Neque enim, si medicus tutor pupillis ab amico datus recte tutelam administret, erit propterea medici officium administrare tutelam, sed boni viri. Sic et miles, si aut Roscium in iudicio defenderit aut commodum quippiam rei publice persuaserit, non erit illud officium militis, sed alias boni viri, puta oratoris aut senatoris. Agant igitur multa licet milites nostri in pace, magistratum gerant, patrie consulant, amicitias colant, publice rei ac private intendant, liberalitatem ac iustitiam inter propinquos exerceant, non sunt ista tamen militis officia, nec quicquam horum gerunt ut milites.

Unum modo genus est rerum gerendarum in pace quod esse militis defendi possit. Id quale sit videamus. Primum resecentur omnia preter fortitudinis opera, nam ceterarum quidem virtutum exercitia aliena protinus videntur a militis officio. Fortia autem sunt que cum periculo maximo laudabilique geruntur. Hec in bello patent, et militis certe officium in bello est. In pace quoque hec eadem fortia videntur ad militem pertinere posse, si non arte quapiam vel scientia externa, sed viribus et lacertis gerantur. Pellebat imbecillum potentissimus, ac nullo iure neque iudicio sed vi et armis fundo paterno deiciebat. Non est hic disceptatio fori nec opus advocatorum et disertorum, sed viribus et lacertis opus est. Opponit se ergo miles imbecillumque tutatur, non scientia legum, non eloquentia et dicendi arte, nam id advocati vel oratoris esset, sed viribus et pectore iniuriam propulsat. Hec militis propria in pace dici possunt, et videtur id quidem existimationi et fame que de militibus habetur respondere. Fama autem, ut inquit Homerus, numquam penitus vana est, quam populi multi decantant34. Omnes enim sic existimant et aiunt, quasi militum sit viduas pupillosque tutari. Hi sunt autem quibus propter imbecillitatem violentie plurimum inferuntur, quod ad ceteros quoque imbecillos transferre licebit.

Hec igitur militibus relinqui posse videntur. Verumtamen de his quoque ipsis addubitem quia hec civilia officia distincta sunt in belli munera et pacis, que sunt piane contraria ac longe disiuncta. Militem autem belli armorumque esse constat, que in pace quidem ac inter cives miscere confusio est civitatis, ut tolerabilius videatur nullum esse militis officium in pace confiteri, nisi forsan defendamus non esse tunc pacem cum vis affertur civibus, et esse profecto eos qui vim afferant verbo quidem cives, re vera hostes. Itaque cum sit quodammodo bellum in pace et militis certe officium eatenus locum habebit.

Ceterarum autem rerum que geruntur in pace quedam sunt que militiam dedecorent, quedam que etiam cum laude geri a milite possint. Cum laude geruntur omnia honesta, etsi non ea gerit ut miles. Dedecorant autem illa que sunt vel officio militis vel professioni contraria. Cum enim sit officium militis cives tutari, nihil erit minus tolerabile quam si ipse vim et iniuriam afferat civibus, ne unde salus petita sit inde scelus emergat35. Nam a ceteris quidem hominibus illate adversus civem iniurie flagitiose sunt, a milite vero si inferantur scelerate, impie, detestabiles. Quantum vero nefas sit civem impugnari a milite hinc intelligi licet, quod si deserat eum miles, nec alio impugnante subveniat, proditioni simile videtur. Siquidem proditor est qui rem custodie sue commissam hostibus patefacit. Miles autem est custos civium fide ac sacramento, et vi naturaque professionis ad hoc unum agendum meditandumque constitutus. Quod si pretermittere defensionem civis proditio est existimanda, quanto detestabilius fuerit per se civem impugnare.

Imprimis igitur miles vitare debet ne cui noceat civi, ne cui vim et iniuriam afferat, que sunt piane contraria officio suo, nec militiam dedecorare modo ac fedare, verum etiam perimere eius vim naturamque videntur. Cumque hec militia, ut volumus, perpetua sit, nec ut in Romuli militia ad aliud ut ita dicam opificium detur regressus, professio certe eius qui hac militia sacratur id continere videtur, satis divitiarum sibi adesse, nec ultra questum facere unquam velie, sed omnem suam operam rei publice condonare et in posterum dedicare; cui professioni contrarium est omne protinus studium lucrifaciendi. Quam ob rem etsi in aliis quibusdam mercatura decora sit, in milite tamen erit sordida et deformis. Est enim contra professionem, et quodammodo transfuga videtur atque desertor, qui calcata religione turbe se rursus immiscet ac pecuniis cumulandis questuique intendit. Iam vero qui mercatura tantopere interdicam militi, in qua non numquam honestus esse questus possit, quid facturum arbitrare in sordidioribus compendiis? Maiora quedam, ut mihi videtur, spectare et ad celsiora sese attollere decet, qui per susceptionem honoris supra vulgus evadere ac sublimis spectabilisque fieri per militiam voluit. Nam alios quidem alia decent. Mulieri, inquit Homerus36, taciturnitas decus affert, sed non item viro. Eodemque modo in milite. Multa enim in aliis decora sunt, vel saltem toleratu digna, que a militis dignitate omnino abhorrent.

Cognoscat igitur se unusquisque ac vim naturamque suam intelligat. Hoc enim usque adeo sapiens est preceptum, ut Deo tribuatur auctori, ac de celo creditum sit descendisse. Cognoscat igitur se ipsum miles, et quid officium professioque sua postulet contempletur, neque ad casum vivat ut plerique, sed certo stabilique iudicio in vita procedat. Sic, ut opinor, decentius locum servabit. Bonus quidem miles, et qui se ipsum cognorit, crebro secum ita colloquetur: «Miles sum, magnum sacramenti magnumque professionis onus sustineo. Ad equestrem dignitatem splendoremque assumptus honores amplissimos huius gratia reporto. Cuncta que maioribus tribui par est mihi ob hanc dignitatem a civibus meis tribuuntur, tam in re publica quam in privata. Quid ergo me facere decet? An honores quidem recipere, nullum autem de me ipso specimen virtutis meritique prestare? An cum dignitas per honorem me eum fecerit qui non eram prius, ipse per socordiam atque ignaviam in iisdem quibus eram prius actionibus permanebo, et ad sublimia provectum ornatuque conspicuo insignitum ad inferiora revolvi, ac nitorem auri sordido questu coinquinare non pudebit? Absit a me hec feditas, absit hec turpitudo. Sit satis divitiarum quicquid est, et id ipsum ad decus honoremque convertatur. Mihi quidem iam propositum est non opulentie studium, sed glorie, amplitudinis, beneficentie, que omnibus divitiis longe sunt anteponendo Quare studeant alii si ita est libido pecunie augende. Ego certe dignitatem in bello paceque servabo, honorique meo non questum modo sed ne vitam quidem anteponam». Hec et huiusmodi bonus et generosus miles secum ipse colloquetur, et certe faciet.

Degener autem miles ac sui immemor aberrabit, non cum querela hominum modo verum etiam cum patrie indignatione. Que quidem patria si, me hercle, loqui posset sic, ut opinor, cum illo ageret. «Quid nunc tu, queso, vir agis? Aut quibus in rebus studium tuum versatur? Ego enim communis parens cum cetera mea sic statuissem nihil ut mihi preter custodiam defensionemque adversus hostium iniuriam deesset, viros fortes et alta spectantes ad tutelam mei deligendos statui, sublimes generososque animos glorie et honoris pollicitatione ad hoc pietatis officium invitavi, pericula que subeunda forent ostendi, onera professionis huius monstravi, salutem propriam pro civium salute periculis obiectandam edixi, pro his tamen reportaturos ut gloria et honore ceteros anteirent. Proinde si decus et gloriam pluris facerent quam illa superiora commoda, militiam profiterentur. Sin illa gravia putarent, excellentiam ne quererent, obscuriores interlaterent. Hec tu cum aut scires aut certe ignorare tibi illa nequaquam liceret, in hoc militie preclaro gloriosoque munere nomen tuum edidisti. Te prohtentem spondentemque ultro admisi, recepi, honores detuli, excellenti insignique gradu collocavi. Quid ergo nunc tergiversaris? Quid locum deseris? Quid insignia tibi a me prebita coinquinas? Ego fortitudinem militibus meis propositam esse volui non ignaviam, studium glorie non pecunie cumulande. Si fortis et generosus es, alta specta, gloriam et celebritatem nominis glisce, illa ut professio tua spondet viliora contemne. Sin es degener et secors, quid me falsa insignium gestatione frustraris? Non est ferendum eum supra alios honore potiri, qui sit par ac similis aliis. Quare aut officium militis mihi presta, aut falsam personam exue militis». Si igitur patria loqui posset, hec profecto diceret merito quidem atque optimo iure.

Sed iam satis ut opinor. Cuncta enim sunt explicita de quibus ab initio dicendum fore premisimus. Que cum ita sint finem dicendi aliquando faciamus.

A Rinaldo degli Albizi

Confesso, o illustrissimol, che anch’io spesso ho avuto dubbi su questa milizia del nostro tempo, di solito assegnata come dignità ed onore a uomini insigni, e che con attenzione ho indagato sui suoi inizi e le sue evoluzioni. Certamente, come ho appurato, l’usanza è molto vecchia ed ha le sue radici nella stessa più lontana antichità2. Ma poi ha degenerato col variare dei costumi, e così nel corso di molti secoli ha deviato dalla sua strada, sicché sembra che ormai della sua propria natura e della sua originaria istituzione conservi solo poche vestigia. Tuttavia non è tanto cambiata che non si possano riconoscere la sua origine e il suo sviluppo.

A scriverti qualcosa su questo argomento mi ha spinto non solo la tua richiesta, a cui non posso oppormi, ma anche la lettura di quel libretto, a te mandato, come dici, da un certo ottimo uomo3. Questi, però, dopo aver promesso che avrebbe parlato degli aspetti fondamentali di quella professione e aver chiaramente sostenuto che questo solo si poteva avere e ricevere da lui, niente poi, per quello che io vedo, affronta fino in fondo, e niente dice della natura e dell’origine della milizia; invece, dopo aver esposto in modo incompleto e superficiale l’argomento su cui avrebbe dovuto insistere, indugia a parlare sul nome della milizia e su certe interpretazioni dell’oro e della corona con sovrabbondanza più del necessario. Le interpretazioni di tal genere sappiamo che sono molto facili e lasciate all’arbitrio di chi le espone, dal momento che nessuna cosa è tanto muta, nessuna tanto discordante nel suo aspetto che inventando ed adornando non possa essere riportata ad un qualche concetto di virtù. Io, poi, penso che alla virtù devono essere esortati non soltanto i soldati, ma assolutamente tutti gli uomini: la virtù è comune a tutti. Credo anche che sia compito di chi scrive persistere nel trattare l’argomento che si è proposto, e non promettere una cosa e farne un’altra. Inoltre, sugli ordinamenti e le norme delle legioni, sui premi e le punizioni dei soldati, quell’autore dice certe cose che io non condivido affatto e, sinceramente, non le considero vere.

Noi, dunque, lasciato da parte costui – di cui non interessa per niente ribattere le singole affermazioni – incominciamo, se sei d’accordo, a trattare proprio di questo argomento, prima di tutto premettendo di quali temi parleremo, affinché per me siano come cancelli al di là dei quali non è permesso vagare, e tu, ascoltando, già da qui stia ben attento. Tutto il nostro discorso sarà così disposto: in primo luogo vediamo quale fu l’origine e l’istituzione di questo illustre ufficio, e da ciò sarà chiaro che cosa siano la milizia e il soldato; poi mostreremo come questa nostra milizia si accordi con quell’originaria e antica istituzione; in terzo luogo, se sembrerà opportuno, parleremo dell’oro e degli ornamenti militari, e se, in tempo di pace, ci sia un qualche compito per il soldato. Una volta trattati tutti questi argomenti, che cosa più potresti richiedere? Non sarà abbastanza? Mi accingo, quindi, ad esporli nel medesimo ordine.

In primo luogo, dal momento che l’uomo è un animale civile, e il soldato è un uomo, tutta l’istituzione militare deve risalire alla «civitas», la città-stato, come ad un capo4. La città, infatti, è promotrice e autrice di tutta la vita e di tutti i compiti degli uomini. Essa distribuisce gli uffici fra i cittadini, provvede alle loro necessità, tiene lontane le avversità, e dall’unione di molti porta aiuto ai bisogni dei singoli: sicché sono da giudicare giusti quegli uffici, fra gli uomini, che sono derivati dalle sue disposizioni e dai suoi ordinamenti. La forma della città è duplice: una più raffinata, pensata dai sapienti, ma che si trova soltanto negli scritti e nelle idee ingegnose; l’altra, quella che vediamo nella pratica e nella realtà. Nell’una e nell’altra di queste due città dobbiamo ricercare i principi della disciplina militare, se desideriamo conoscerne l’origine: cioè quale è stata pensata dai filosofi e quale, a sua volta, sia stata disposta dagli antenati nella città vera.

Dapprima, dunque, vediamo nella città dei filosofi che cosa essi hanno trasmesso riguardo all’ordinamento militare. Si concorda fra i sapienti – penso proprio che si debba iniziare da qui per capire più facilmente – che l’uomo è di per sé troppo fragile e debole, e perciò non basta affatto a se stesso. Così gli uomini hanno bisogno di associazione e di unione, in modo che ciascuno, in base alle sue necessità, possa ricevere ciò che gli manca dalla moltitudine congiunta in una mutua assistenza. Questi gruppi di uomini associati per conseguire i beni della vita, i Greci li chiamano «polis», i nostri «civitas». Tuttavia non ogni aggregazione di uomini è «civitas», città, ma soltanto quella che dall’insieme delle parti ha raggiunto una tale perfezione da avere in se stessa quanto basta per vivere bene senza bisogno di richiedere aiuto esterno. Quando, invece, non basta a se stessa, non sarà da chiamare città, perché è proprio della città soddisfare il pieno appagamento dei bisogni di fronte alle esigenze della vita. Quali specie di uomini siano necessarie ad una città, perché da essi, come membra strette insieme, sorga un perfetto corpo civile, è stato ricercato dagli stessi sapienti. Di numero sono certamente molte se le necessità si considerano per singoli individui, se, invece, per categorie certamente poche.

Ippodamo di Mileto, che si dice aver scritto per primo sulla migliore condizione dello Stato, fissò tre categorie di uomini necessarie per una città: una i contadini, un’altra gli artigiani, la terza i difensori in guerra e gli armati5. I contadini per fornire il grano, gli artigiani per procurare le case, le vesti e le altre cose di tal genere necessarie alla vita; i difensori in guerra per custodire e salvaguardare queste stesse persone e le loro opere. La città che possiede queste tre categorie di uomini è città perfetta. Vedi, ormai, l’origine della milizia. E certamente un’origine necessaria e naturale. E infatti, né i contadini né gli artigiani potranno continuare a stare in una città senza chi li difenda in guerra, né questi, a loro volta, potranno starci senza i contadini e gli artigiani che procurino il grano e le altre cose necessarie alla vita. E dall’aggregazione di questi tre gruppi che risulta un organismo bastante a se stesso e completo. Allora, finalmente, quella è da chiamarsi città, quando da sé può bastare a se stessa. Del resto, data la tua intelligenza, non penso che ti sfugga che la città non è, come credono generalmente gli ignoranti, le mura e le case, ma una moltitudine di uomini associati con un insieme di leggi. Dunque, questa moltitudine, ai cui singoli componenti, di per se stessi bisognosi, mancherebbero molte cose, da una generale associazione raggiunge uno stato perfetto.

Ippodamo pensò che questo lo possono garantire tre categorie di uomini: i contadini, gli artigiani, i difensori in guerra, che noi chiamiamo soldati. Ne deriva che milizia e soldato sembrano aver avuto origine da un principio non solo lodevole e nobile, ma pure necessario e naturale. Anche Platone, in quei mirabili libri da lui scritti sullo Stato, dopo aver prefissato per una città gli agricoltori e gli addetti agli altri necessari mestieri, di gran lunga sopra a tutti mise una sola categoria di uomini, che chiamò «custodi»6. Il loro compito disse che sarebbe stato quello di tenere le armi e difendere gli altri cittadini dai nemici; e ad essi assegnò anche straordinari privilegi e volle che eccellessero moltissimo in onore e dignità. Disse pure che costoro dovevano essere duri nei combattimenti e violenti contro il nemico, ma benigni e miti verso i concittadini.

Capisco che queste cose sono esposte in modo arido e disadorno; ma questo pure è necessario. Sono come i primi elementi di una città, i quali non richiedono un discorso troppo diffuso. Le cose che seguono, invece, possono essere più elevate. Infatti, dopo che sono state gettate le fondamenta della città e stabilite le sue parti, si apre per gli oratori tutto un campo alla celebrazione della giustizia, dell’amore, della fortezza. Infatti, dal momento che senza la città non potrebbe esserci vita per gli uomini, l’amore verso la patria e la morte incontrata per la sua salvezza sono innalzate al cielo con stupende lodi7. Da qui quelle grida di plauso di Demostene, per le quali esultava tutto il teatro quando egli ricordava i morti per la patria a Maratona, ad Artemisia, a Salamina. Da qui, tra i nostri, i Deci, padre e figlio, che si sacrificarono per la salvezza dei loro concittadini. Da qui Orazio Coclite, che per la difesa della patria, scagliatosi contro il re vincitore, ordinò che dietro di sé venisse tagliato il ponte. Da qui l’esaltazione dei Bruti, dei Publicoli, dei Camilli, degli Scipioni. Dal lato opposto, verso i traditori e i vessatori della patria – dico i Catilina, i Cetego, Spurio Melio, Numitore Flagellano – chi non avrebbe da fare un discorso diffuso e traboccante? Quanto sia cosa meritevole la difesa della città si può vedere dai mali che su di lei si abbattono quando è stata soggiogata. Le fanciulle vengono strappate dalle braccia dei genitori, le madri di famiglia sono trascinate nella libidine, sono insozzate insieme le cose sacre e quelle profane, tutto è sconvolto da stragi e incendi8. Così, coloro che hanno conseguito gloria per questi meriti si fanno innalzare statue con abbigliamento generalmente militare, come se fosse cosa straordinaria essersi tanto segnalati in tali nobili azioni9. Queste cose e altre di tal genere possono risultare ancor più illustri, come si è detto, se qualcuno le accompagna con lo splendore e la ricchezza delle parole. Ma torniamo al nostro proposito.

Dunque, Platone e Ippodamo pensarono così. Vicinissimo ad essi fu il cartaginese Filea, il quale scrisse anch’egli sullo Stato10. Riguardo ai contadini e ai difensori in guerra anche lui ha esposto quasi le stesse idee di Ippodamo. Si differenzia, invece, riguardo agli artigiani, i quali, secondo lui, non sono parte alcuna della città, ma devono essere servi pubblici. Questa affermazione, a mio parere, non sarebbe stata accolta bene a Firenze, e penso che neppure altrove il suo pensiero dovrebbe essere approvato. Egli insieme a princìpi conformi alla natura mescola la schiavitù, che tutti riconoscono essere contro natura. Perciò, atteniamoci di più a quelli di sopra, Ippodamo e Platone, che anche gli altri seguono in questa partizione della città. Non si deve pensare che ci sia contrasto sul fatto che ambedue i filosofi parlino di soldati, ma uno li chiami difensori in guerra e l’altro custodi.

D’altra parte, è chiaro che anche da noi lo stesso nome di soldato indica queste due caratteristiche. Su quel nome i più dotti e antichi filosofi hanno tre teorie11. Alcuni pensano che si dica «miles» («militare», «soldato») dal «malum» («male») che egli suole tener lontano; ma questa derivazione la rifiutano come improbabile e non idonea alcuni di quelli a cui pare di essere dotti. Ma non capiscono bene. Infatti, questa derivazione, secondo il criterio dell’analogia, è certamente del tutto conveniente e giusta. Mentre il contadino porta i viveri a vantaggio dell’intera città, mentre l’artigiano fornisce le vesti, le case e tutte le altre cose necessarie di tal genere, il soldato niente altro procura alla comunità cittadina se non il tenerle lontano il male: cioè, difende i cittadini e provvede a che dai nemici non sia fatto danno ad alcuno. Come, dunque, «agricola» («agricoltore», «contadino») è stato detto dalla coltivazione dell’«ager» («agro», «campo»), e «artifex» («artigiano») dall’esercizio dell’«ars» («arte»), così il soldato rettamente è detto «miles» dal «malum» che tiene lontano. In una società civile i nomi si deducono dai diversi uffici. Ufficio di uno è quello di coltivare l’«ager», di un altro quello di esercitare un’«ars», del militare, invece, il tener lontano il «malum». Per ottimo motivo dunque, e a buon diritto, si è creduto che i «milites» siano stati così chiamati per il fatto che tengono lontano il «malum»; e, pensando proprio a questo, Ippodamo li chiamò «propulsatores belli» («allontanatori della guerra»), e Platone, poi, «custodes» («custodi»). Del resto, quelli che allontanano la guerra, che altro allontanano se non un male? E coloro che tengono lontano un male dai loro concittadini, chi non direbbe che sono custodi? Nel nome c’è anche una conformità, se è vero che «militia» dista ben poco da «malitia» («il fare il male»), l’una e l’altra derivando da «malum». Questa è la prima teoria sul nome di «miles», a mio parere certamente appropriata e vera.

Altri hanno pensato che il nome sia derivato da una parola greca, che significa precisamente «durezza»12. Ecco perché Platone li definì custodi nelle armi e «duri». Non conviene proprio che siano miti, ma occorre che siano «duri» sopportatori delle fatiche e dei pericoli, coloro che hanno da tenere in mano le armi, da battersi con un nemico armato, da sopportare il servizio militare nelle marce, nella polvere, nel gran caldo e nel gelo, e mettere a repentaglio la propria salvezza per la salvezza dei cittadini. E a proposito di tutto questo, bene dice Virgilio nel fare le lodi d’Italia: «Razza indurita fin dalla nascita, i nostri figli appena nati / li portiamo al fiume e li rendiamo duri col crudo gelo delle acque»13. E ancora in un altro punto: «Sotto la tua guida < si avvezzano > a sostenere la milizia, / gravoso lavoro di Marte»14. Penso che dal nome stesso sia dimostrato che quelli che Platone chiamò «custodi» e Ippodamo «allontanatori della guerra», noi li diciamo «milites» sia che «miles» venga dall’allontanare il «malum», il che è lo stesso di «propulsator» e «custos», sia da una parola greca che significa «durezza».

Un terzo gruppo pensa che si chiamino «milites» dal numero «mille», tolta una sillaba15; cosa che è comune ad ambedue le precedenti derivazioni, dal momento che i difensori e i custodi si basano sul numero, ed è necessario che per la pratica della guerra siano divisi per numeri. Perciò nell’esercito si parla di centurioni e di tribuni dei soldati.

Ormai si è detto abbastanza della prima forma della «civitas». Ora occupiamoci dell’altra: e poiché in questa si trovano moltissime città, e ciascuna fondata su istituzioni e costumi propri, noi guardiamo soprattutto a Roma, come la città più importante di tutte e quella meglio organizzata. Tuttavia, anzitutto, bisogna notare questo: che la prima forma della città la determina la ragione, la seconda è subordinata alla debolezza umana. In quella si bada alla volontà del fondatore, in questa più all’autorità. Da ciò deriva che mentre Platone e Ippodamo posero la classe militare a se stante e separata dalle altre, lo stesso Romolo, fondatore della città, dispose che i soldati fossero non distinti dagli altri cittadini, e in nessun tempo da essi separati16. Romolo vide come nella città erano necessari i soldati per respingere gli attacchi dei nemici, per cui sarebbe stato difficilissimo, e a stento avrebbe potuto accadere, che a sostenere il peso del servizio militare fossero sempre i medesimi cittadini. Così ritenne i soldati in città come cosa necessaria; mutò, però, l’incarico secondo la condizione degli uomini, di modo che ora questi, ora quelli facessero il servizio in un determinato periodo. Per questo motivo anche il contadino, quando la situazione e le necessità dello Stato lo richiedevano, lasciato l’aratro, prendeva le armi; e l’artigiano, interrotto il suo lavoro, come divenuto un altro, faceva il soldato. Così, da due categorie di uomini ne derivava una terza, non però di sempre, ma distinta dalle altre solo per un certo periodo di tempo. L’artigiano partiva per la spedizione non come artigiano ma come soldato, e poi ritornava al suo lavoro non come soldato, ma come artigiano. Durante tutto il tempo in cui, per causa dello Stato, era nell’esercito, il cittadino godeva dei privilegi e dell’onore della milizia; tornato poi a casa quando era finito il servizio militare, non godeva più di quei privilegi e dell’onore della milizia. Così, come se divenissero altri uomini e mutassero col tempo, tutti, singolarmente a vicenda, adempivano a due uffici.

La milizia fu una cosa tanto sacrosanta che si diveniva soldato con un giuramento, e a chi non fosse soldato non era permesso combattere contro il nemico. Perché tu non abbia dubbi in proposito, ti fornirò le testimonianze di Cicerone e di Catone. Che cosa di più importante e più sicuro uno potrebbe offrire per convincertene? Queste sono le parole di Cicerone nel primo libro del De officiis: «Nel tempo in cui Popilio governava la sua provincia, nel suo esercito faceva il soldato come recluta il figlio di Catone. Sembrandogli poi opportuno licenziare una legione, licenziò anche il figlio di Catone, che militava in quella legione. Ma siccome costui era rimasto nell’esercito per desiderio di combattere, Catone scrisse a Popilio che, se gli permetteva di rimanere nell’esercito, lo obbligasse a fare un secondo giuramento militare, perché, sciolto dal precedente, non poteva combattere contro i nemici»17. C’è anche una lettera del vecchio Catone al figlio, nella quale scrive che aveva saputo che egli era stato dimesso dal console quando era soldato in Macedonia nella guerra contro Perseo: lo ammonisce, quindi, di guardarsi dall’entrare in combattimento, affermando che, a chi non è soldato, non è permesso combattere contro il nemico. Testimonianza davvero preziosa, se si guarda sia all’autorità dei testimoni, sia all’importanza delle cose testimoniate. Eppure, se ci facesse piacere, potrei provare questi fatti con mille testimoni. Però, uno che non crede a Cicerone e a Catone, a chi crederà? Ma osserva quante conseguenze si possono trarre da questa sola testimonianza.

Sul servizio militare stabilito da Romolo finora ho esposto tre aspetti. Il primo, che questo servizio era non permanente ma temporaneo; il secondo, che si diventava soldati col vincolo sacro del giuramento; il terzo, che non era lecito combattere a chi non fosse soldato. Tutti questi aspetti sono comprovati da quell’unica preziosa testimonianza. E tu, ti prego, tienili a mente: sono necessari per conoscere bene le cose che vogliamo discutere fra poco. E vengo agli altri aspetti.

Tutto l’esercito da Romolo fu suddiviso in modo che una parte dei cittadini prestasse servizio come fanti e una parte come cavalieri. Dato che era evidente una certa superiorità della cavalleria e che l’onore di appartenervi era concesso ai cittadini più elevati o per censo o per famiglia o per tenore di vita, si incominciò a considerare la dignità equestre come segno di nobilità e di eccellenza. Così l’ordine equestre nacque nella città; e quelli che erano accolti in esso, giudicati degni di questo onore fra tutto il resto della cittadinanza, senza dubbio apparivano innalzati alla nobilità e ad un notevole splendore. E tale onore un cavaliere non l’aveva soltanto quando era nell’esercito e in guerra, ma gli rimaneva anche in patria e in tempo di pace, non perché allora fosse soldato, ma perché aveva una dignità per cui, quando ci fosse stato da prestare servizio militare, lo prestava non da fante, come la plebe più bassa, ma in un tipo più alto di milizia, a cavallo. Dall’ordine equestre c’era, poi, l’accesso alla pretura, al senato, al consolato; e quando i Romani avevano raggiunto questi gradi non si dicevano più dell’ordine equestre, ma di quello pretorio o senatorio o consolare. Allo stesso modo che ora, se in regnum vel principatus obveniat, non amplius militem sed regem vel principem dicamus, ita tunc maiorem nacti dignitatem ab ea nuncupabantur, non amplius equites at senatores aut consulares. Nam patres illos primum a Romulo mox a Prisco Tarquinio rege in senatum conscriptos, a quibus patricie manarunt familie, ex equestri ordine lectos non equidem ambigo, licet postea usque adeo in his creverit nobilitatis opinio ut reliquas omnes familias, quamvis nobiles quamvis consulatibus et dictaturis honestatas, tamen quia patricie gentis non erant, plebeias nuncuparent. Quod faciant per me licet, nihil enim repugno modo illud fateantur initium sue nobilitatis fuisse cum primum ex plebe ac multitudine ad equestrem pervenerint dignitatem, nec si ascendendo ad celsiores pervenerunt gradus ut iam ceteros despiciant, magis id refert mea quam si reges nemini preter se generis claritatem esse contendant. Sed certe ut quidam clarus qui non rex, sic etiam quidam nobilis qui non patricius.

Videtur etiam in Gallie civitatibus secundum vetustum morem equester ordo supra plebem attollere. Cesar quidem eorum institutorum diligentissimus spectator et testis in iis lilbris quos de bello a se in Gallia gesto composuit fere in hunc modum scripsit. «In omni Gallia eorum hominum qui aliquo sunt numero atque honore genera sunt duo, unum equitum alterum druidum, nam plebs pene servorum habetur loco»18. Hoc perinde est ac si quis dixerit: In Gallie civitatibus duo sunt que homines supra plebem attollant, equestris dignitas ac sacerdotium. Preter hec autem duo genera omnes sunt plebs. Plebs autem nullo neque numero neque honore apud Gallos est, sed pene servorum habetur loco.

At non sic Romulus, sed plebem sua iura libertatemque habere voluit. Equites tamen a plebe distinxit ac longe supra illam esse iussit dignitateque et amplitudine et honore precellere. Hec fuit institutio Romuli circa militiam, hec forma civitatis ab eo constitute, non iam ficta et umbratilis sed vera et solida. Quantum questo nostro ordinamento militare per accordo si costituisse il regno o il principato, non diremmo più soldato, ma re o principe, così allora coloro che avevano raggiunto una dignità maggiore prendevano il nome da quella: non più cavalieri ma senatori o consolari. E non dubito che quei padri iscritti nel senato prima da Romolo e poi dal re Tarquinio Prisco, e dai quali discesero le famiglie patrizie, siano stati scelti dall’ordine equestre; in seguito tanto crebbe nei loro riguardi la fama di nobiltà che tutte le altre famiglie, per quanto nobili, per quanto fregiate di consolati e di dittature, dato che non erano di gente patrizia, le chiamavano plebee. Facciano pure così; non mi oppongo affatto: purché riconoscano che l’inizio della loro nobiltà fu quando dalla massa della plebe giunsero alla dignità equestre. Se successivamente, salendo, sono arrivati a gradi più elevati, tanto da disprezzare gli altri, questo non mi importa più che se i re sostenessero che nessuno all’infuori di loro ha una nobile origine. Ma certamente, come può essere insigne uno che non è re, così può essere nobile chi non è patrizio.

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Carta iniziale di una copia antica del De milita

(Firenze, Archivio di Stato, Carte strozziane, S. III, 46, fol. 1r.)

Sembra che anche nelle città della Gallia, secondo un’antica usanza, l’ordine equestre s’innalzi sopra la plebe. Cesare, diligentissimo osservatore e testimone delle loro istituzioni, nei libri che ha composto sulla guerra da lui combattuta in Gallia, ha scritto press’a poco in questo modo: «In tutta la Gallia degli uomini che sono tenuti in qualche conto ed onore ci sono due classi, una dei cavalieri, l’altra dei druidi, perché la plebe è considerata alla stessa stregua degli schiavi»18. Questo è come se si dicesse: nelle città della Gallia due sono le cose che elevano gli uomini sopra la plebe: la dignità equestre e quella dei sacerdoti. Eccettuate queste due classi, tutti sono plebe. La plebe presso i Galli non gode di alcuna reputazione ed onore, ma è quasi nella condizione degli schiavi.

Non così Romolo: egli volle che la plebe avesse i suoi diritti e la sua libertà. Pure, distinse i cavalieri dalla plebe e dispose che fossero molto al di sopra di essa, ed eccellessero per dignità, per importanza, per onore. Questa fu la disposizione di Romolo nei riguardi dell’ordinamento militare, questa la forma della città da lui stabilita, non certamente immaginaria ed umbratile, ma vera e solida. Quanto quell’uomo sommo e quasi divino abbia conferito alla milizia e quanta speranza abbia riposto proprio in essa, lo ha mostrato non solo da vivo con l’istituirla e tenerla in esercizio, ma anche da morto col rafforzarla, se è vero che le sue ultime parole a Giulio Proculo furono queste: «Vai, annuncia ai Romani che così vogliono i celesti: che la mia Roma sia la capitale del mondo. Perciò coltivino e conoscano l’arte militare, e così tramandino ai posteri che nessuna forza umana può resistere alle armi romane»19. Detto ciò, si librò in alto.

Si è dimostrato abbastanza, a mio parere, quali siano, nell’una e nell’altra forma di città, l’origine e la natura della milizia; e da queste si è potuto dedurre che cosa sia il soldato. Il soldato non è altro che il custode dei cittadini e il loro difensore in guerra, a ciò obbligato legalmente con giuramento. La milizia, poi, è proprio la cosa, certamente onorevolissima ed estremamente necessaria, designata in conformità al diritto naturale, per conservare la città.

Ora, poiché abbiamo portato a termine quanto ci eravamo proposti per il primo argomento, ne consegue di passare ad osservare come la milizia del nostro tempo si addica ad esso; e per saper questo è opportuno ricordare due aspetti fra quelli già esposti. Uno è che, di solito, la nobilita fa il servizio militare a cavallo, la plebe a piedi; l’altro è che a chi non è soldato non è lecito combattere contro il nemico. Dico, dunque, che il nostro ordinamento militare conserva questi due aspetti. In primo luogo esso fa passare dallo stato plebeo all’ordine equestre, cioè allo splendore della nobilita; in secondo luogo rende legittima l’azione del combattente per mezzo del giuramento. Perciò, talvolta, anche uomini nati da umili famiglie, se eccellono per elevata virtù o per ricchezza, cercano di essere insigniti di quella dignità, volendo, per mezzo di essa, procurare lustro a se stessi e ai loro posteri. E talvolta uomini nobilissimi entrano nella milizia per il desiderio non tanto della nobiltà quanto del fascino misterioso del giuramento. Questa milizia, dunque, produce l’uno e l’altro effetto; essa, però, offre tanto quanto ha bisogno colui a cui è conferita. Così, data ad uno non nobile gli procura ambedue gli effetti, mentre, data ad un nobile, solo uno, dal momento che egli è già in possesso dell’altro. Inoltre corrisponde al progetto dei filosofi e di Romolo. Il fatto che questa milizia è permanente e non temporanea, concorda, appunto, col progetto dei filosofi: essi volevano che i soldati fossero permanenti. Il fatto, poi, che dall’ordine pedestre si passi a quello equestre, è già idea di Romolo e di altri, se nelle loro città stabilirono ordinamenti non diversi da quelli di Romolo.

Solo su tale argomento sembra che il popolo parli meglio di alcuni che hanno un po’ di cultura. Infatti, fra il popolo parlano di tale onore in modo che fanno un riferimento ai cavalli. Quindi, quando a qualcuno è stata data quella dignità, fra il popolo dicono che è stato fatto cavaliere, e «cavaliere» lo chiamano. Invece, quelli un po’ colti, lo dicono «soldato»: e certamente è soldato, non si può negare affatto, ma l’appellativo non è sufficientemente onorevole. Dal momento che è soldato tanto chi fa il servizio a piedi quanto chi lo fa a cavallo, e che grandissimo è il prestigio del cavaliere, preferisco chiamare il cavaliere col nome che indica con precisione la sua specifica dignità, piuttosto che con quello che è comune agli uni e agli altri. Così, se uno, parlando ai nostri priori, li chiamasse non «priori» ma «cittadini», direbbe certamente la verità, ma non avrebbe riguardo al loro onore, perché essi non sono soltanto cittadini, ma persone poste sopra gli altri cittadini per la loro dignità. Così, chi chiama soldati i cavalieri, dice la verità, ma non ha riguardo al loro onore: essi sono non solo soldati, ma superiori agli altri soldati per la loro dignità equestre. Prova di ciò è che chiamiamo soldati anche coloro che esercitano un ufficio non abbastanza onorevole, come quelli che si spartirono le vesti di Gesù tirandole a sorte, quelli che portano al supplizio, e quelli che sorvegliano i rei20. Da ciò è derivato questo detto: una medesima catena stringe il soldato e il reo. Per tale ragione ho visto che gli autori più esperti nell’eloquenza sono attenti ad indicare col termine «soldato» il «fante», mentre il termine «cavaliere» è usato con valore onorifico, perché, anche al fine di rendere chiaro il discorso, è importante indicare con un solo vocabolo specifico se il soldato sia a piedi o a cavallo, nobile o non nobile. Cavaliere, infatti, significa una specialità della milizia e una dignità: ed è la dignità che si conferisce oggi. – Ma, ormai, si è parlato molto riguardo alla parola: e da che cosa essa entrò nell’uso e nella consuetudine ciascuno potrà dirlo come più gli piace. Torniamo all’argomento.

La nostra milizia, dunque, concorda così con quella iniziale ed antica istituzione. Ora bisogna prendere in esame che cosa significano gli ornamenti d’oro e tutte le altre decorazioni. A tal proposito gli uomini sciocchi, nei loro discorsi, di solito si pavoneggiano fino all’assurdità, dicendo che il valore sta nello splendore dell’oro. Ci sono di quelli che credono che l’oro significhi molto, e lo stimano tanto da pensare che tutto il decoro della vita militare risieda in esso: di modo che se ai soldati si togliesse l’oro non resterebbe loro alcun motivo per cui voler fare quel servizio. Affermano che è per quella decorazione che i soldati si distinguono e ne traggono onore, e che divengono importanti e illustri agli occhi della gente: tolta, si troverebbero senza alcuna distinzione in mezzo al popolo ed alla massa più spregevole. Altri, invece, all’oro non attribuiscono alcuna importanza, o solo molto limitata, dal momento che è diffuso pure fra medici ciarlatani, donne di male affare, e, per Ercole, fra ragazzi e commedianti. Ma in un soldato che cosa può avere l’oro da dover essere tanto ammirato? Il ferro, senza dubbio, e le armi sono proprie del soldato; l’oro e le gemme si adattano di più al mondo femminile.

Noi dunque, ora, se fa piacere, decideremo fra questi due pareri. In primo luogo ritengo che si debba notare che gli ornamenti d’oro non spettano a tutta la milizia, ma soltanto alla cavalleria. Eppure, anche la dignità equestre per molti secoli è stata senza oro: si sa, infatti, che al tempo del regno di Romolo e poi a lungo, i cavalieri non facevano alcun uso dell’oro. Da ciò è manifesto che alla forza e alla natura della milizia gli ornamenti d’oro non servono affatto, e che, anzi, dopo che furono concessi ai cavalieri, neppure tutti i cavalieri li portarono. Si dice che molti, ispirandosi alla severità degli antichi, si rifiutarono di portarli, come Caio Mario, Lucio Suffidio, Calpurnio e Manilio, ed alcuni altri davvero illustrissimi cavalieri romani, i quali si sa che non vollero mai fare uso dell’oro. Anche quelli, poi, che lo hanno usato, non portavano altro che anelli d’oro, mentre era consuetudine che coloro che non erano cavalieri li avessero di ferro21.

Anche i figli dei cavalieri, finché vestivano la pretesta, portavano una borchia d’oro. Si tramanda che fu il re Lucio Tarquinio a fare, prima di tutti, questa concessione a suo figlio ancora fanciullo, e che da allora fu sancito che i figli dei cavalieri portassero sulla pretesta una borchia d’oro: e questo era segno di nobiltà. Una borchia d’oro distingueva, dunque, i fanciulli nobili dai plebei, mentre un anello d’oro distingueva i cavalieri dalla plebe: niente altro in tempo di pace. In battaglia, invece, c’era l’usanza di decorare le armi, specie presso i Galli, sui quali così dice il nostro Omero: «Hanno aurea la chioma e fregiata d’oro la veste; / risplendono nei loro sai striati, e i loro candidi colli / recinge una collana d’oro»22. Sappiamo che anche presso i Greci fu notato quel famoso prefetto di Alessandro che, primo fra tutti, attaccò striscette dorate nei calzari23. Ma i nostri cavalieri, non contenti di queste, portano un braccialetto sul mantello. Dunque, l’uso dell’oro da parte dei cavalieri dapprima fu con anelli, e questo in maniera moderata e riservata, tanto che alcuni se ne astennero, come da qualcosa di vano e di leggero. Dopo, però, è divenuto un’abitudine più diffusa, e l’oro non fa più alcuna dignità ma solo ostentazione, e nel soldato non indica altro che dignità equestre, cioè un segno che distingue la nobiltà dalla plebe. Infatti, i senatori dai cavalieri li distingueva il tipo della veste, i cavalieri dalla plebe l’anello d’oro.

Il ritenere, poi, che lo splendore e la lucentezza dell’oro contengano una qualche grande testimonianza di valore non è più accettabile del cercare di interpretare allegoricamente la veste dei senatori: come se uno dicesse che le maniche, se sono larghe, sono capaci di contenere virtù, se invece sono strette e corte, significano frugalità e parsimonia. In queste interpretazioni non c’è niente che non sia dedotto con estrema leggerezza. Del resto, il fatto che l’uomo sia con due piedi può voler dire molte cose; ma lo stesso sarebbe se fosse con tre. Riguardo a questo si racconta che con fine arguzia scherzasse Luigi Marsili, l’uomo più illustre di tutta la nostra età sia per la sua cultura in generale, sia per la sua conoscenza della letteratura religiosa24. Richiesto da un tale che cosa significhino le due punte della mitria episcopale, egli, ridendo, rispose che indicano che il vescovo deve conoscere il Nuovo e il Vecchio Testamento. Allora l’altro riprese: «Giusto, ma che cosa vogliono dire quei nastri che pendono dalla stessa mitria dietro il collo?». E Marsili: «Quei nastri dietro le spalle e lasciati cadere significano che il vescovo non conosce né il Nuovo né il Vecchio Testamento». Così, quell’uomo dottissimo con un elegante cavillo deluse la stoltezza e la vanità di chi l’aveva interrogato: ed è ciò che a ragione si dovrebbe fare a proposito degli ornamenti d’oro dei soldati. Comunque, tutti gli uomini più dotti riconoscono che l’oro è più appropriato alle donne che ai cavalieri; ed è evidente che è passato dalle donne ai cavalieri e non dai cavalieri alle donne. Esso, come già si è detto, è segno della dignità equestre, e non ha alcun altro valore nel soldato; inoltre non ha avuto inizio con la dignità equestre, ma fu dato a lei dopo molto tempo per distinguerla dalla plebe.

Anche la corona d’olivo non fu antichissima, ma dei tempi di Fabio Massimo. Egli, per primo, dispose che i cavalieri fossero passati in rassegna nelle idi di luglio25: e in quella rivista venne l’usanza di portare ghirlande d’olivo. In seguito si conservò la consuetudine di incoronare i soldati con tale fronda quando ricevono la dignità equestre, come se allora, per la prima volta, messi nel numero dei cavalieri, venissero passati in rassegna. Tutte le altre corone sono di merito; questa, però, non è tanto di merito quanto di buona speranza. Tutte le altre sono comuni dei fanti e dei cavalieri, questa è propria di chi è cavaliere. Le corone vallari, murali e civiche venivano date rispettivamente a chi per primo aveva superato il vallo nemico, a chi per primo era salito sulle mura, a chi aveva salvato un cittadino, sia che costui fosse fante o cavaliere. Lo stesso era per la corona rostrata e per quella ossidionale. Ma questa d’olivo è propria del cavaliere, e l’usanza fu non di donarla al cavaliere, ma di prenderla egli stesso, in quanto distintivo di una dignità, non ornamento per un merito. L’essere stata, poi, di olivo questa corona, crederei che sia dipeso più da un fatto di gusto che di calcolo, pur non ignorando che tale iniziativa si può tirare da una parte e dall’altra. Così, di solito, le corone civiche ci fu la consuetudine di donarle di quercia o di leccio, le ossidionali di fili d’erba, le murali, le vallari e le rostrate di oro. Ci furono anche corone trionfali di alloro, e quelle dell’ovazione di mirto o di olivo: e questo penso che sia avvenuto perché l’ovazione era tributata non tanto al comandante quanto al cavaliere. Ma forse tutte queste rievocazioni sono alquanto lontane dal nostro proposito. A noi, comunque, basta avere mostrato che è conforme ad antica usanza che i cavalieri siano incoronati con una corona d’olivo, e che questa usanza viene ora mantenuta non senza una ragione nell’assegnare la dignità equestre.

Ci sono anche altri tipi di milizia, certamente barbari e, a mio parere, superstiziosi, su cui non ho intenzione di fermarmi. Noi, nel campo militare, seguiamo l’ordinamento romano: quanto si distacca da esso lo consideriamo rozzo e barbaro. E come la forma del battesimo giusta e lodevole è quella stabilita dalla Chiesa, e ciononostante si trovano genti certamente stolte e superstiziose che la cambiano usando ferro e fuoco26, così la forma corretta da tramandare nella milizia è quella che noi abbiamo riferito sopra, mentre i barbari stoltamente la sovvertono. Quale, dunque, sia l’origine e la natura della milizia, e come questa nostra sia conforme a quella originaria, e poi quale sia il valore dell’oro e della corona, a mio parere, si è mostrato a sufficienza.

Rimane, ora, quello che abbiamo posto come ultimo punto, cioè osservare se in tempo di pace ci sia una qualche mansione per il soldato: un argomento su cui vedo che molti hanno idee diverse; nessuno però procede con metodo preciso nel dare una dimostrazione, mentre, invece, si è condotti più da una generica adesione che da un qualche valido motivo. Ma noi, se d’accordo, discutiamone più a fondo.

Può certamente sembrare giusto che ci sia qualche compito per il soldato in tempo di pace. Perché, allora, dovremo dire che per tutto il tempo in cui non è impegnato in guerra non fa niente? I soldati romani svolgevano molte mansioni in città: giudicavano, si occupavano delle imposte, eseguivano diversi altri incarichi come cavalieri. In conformità della legge di Ottone avevano un posto riservato in teatro, per non assistere allo spettacolo mescolati con la plebe27. Anche i nostri cavalieri li vediamo esercitare la magistratura, assumersi il compito di tutori, applicarsi agli affari di famiglia e alla crescita del patrimonio. Chi, dunque, potrebbe dire che in tempo di pace non c’è ufficio né compito in cui il soldato possa impegnarsi con lode? In maniera contraria si comporta, invece, il soldato in quanto difensore in guerra. In tempo di pace non c’è alcun bisogno del difensore in guerra, come nemmeno del combattente. «Soldato» sembra nome di guerra e di accampamento, derivato o dal numero o dalla durezza delle armi o dal respingere il male che i nemici arrecavano. Non a torto si è incerti su che cosa si debba dire.

Il soldato buono e forte, e che vuol bene ai suoi concittadini, una volta tornato a casa dal servizio nell’esercito, oppure nemmeno partito per l’esercito, quando c’è pace e la città non ha bisogno della sua opera contro nemici esterni, se ne starà inoperoso in patria? E non ci sarà alcun bisogno di lui? Tralascio la giustizia, la temperanza, la liberalità. Queste sono virtù degli uomini pacifici. Ma la fortezza, che è propria del soldato, che cos’è che gli impedisce di esercitarla in patria? Se vedrà fare violenza alle vedove, depredare gli orfani, cacciare i deboli dal fondo paterno da parte di uomini prepotenti con la violenza e le armi, non si opporrà, non farà resistenza? E infine la patria trepidante e sconvolta da cittadini malvagi non la soccorrerà col suo consiglio e il suo aiuto? E che varrà essere soldato, se non gli lasciamo niente di questo? Marco Tullio fu soldato nell’esercito di Lucio Siila; tornato poi a casa, contro la prepotenza di chi era al potere, difese Sesto Roscio, accusato di parricidio28. Azione certamente ardita, ma compiuta in tempo di pace: un cittadino salvato da disonorevole morte in maniera di gran lunga più gloriosa che se fosse stato salvato in guerra. Alcuni, segretamente, avevano fatto uccidere il padre di Roscio, uomo ricco e buono ma troppo severo col figlio; poi, col pretesto del disaccordo fra il padre e il figlio, da quei medesimi che avevano macchinato l’uccisione, come autore dell’assassinio era stato accusato Roscio: e così il suo patrimonio sarebbe stato depredato da Crisogono e da Siila. La cosa era risaputa e ben nota: ma nessuno, per paura di Siila, che allora era al potere, osava prendere la difesa di Roscio. Così un giovane buono, innocente, modesto, sventurato veniva trascinato ad un vergognoso supplizio: cucito in un sacco sarebbe stato gettato in un corso d’acqua. In tal modo era perduto non solo il padre, ma anche il patrimonio; non solo il patrimonio, ma anche la vita; non solo la vita, ma anche l’onore. Dunque, averlo salvato in un processo, quanto valse di più che se lo avesse salvato in battaglia? A quelli che cadono in battaglia per la patria l’onore rimane intatto, la gloria aumenta, i beni lasciati confortano i loro familiari. In quel caso con un solo crimine tutto veniva distrutto. Dunque, se accadesse qualcosa di simile non diremo che resistergli è proprio di un soldato dall’animo forte? Paolino era stato console; ma cagne palatine avrebbero già divorato con la speranza e l’intrigo le sue ricchezze, se Boezio, come asserisce, non lo avesse tolto dalle fauci stesse di quanti stavano con la bocca spalancata29. Non assegneremo, dunque, ai soldati azioni come queste e simili, che sono manifestazioni di fortezza e vengono compiute con grandissimo pericolo contro persone più potenti?

Ho parlato di situazioni private. Che dire di situazioni pubbliche? Forse Metello nell’opporsi, con grandissimo pericolo, a Cesare che stava distruggendo Tarpeia, vi sembra che abbia agito in modo non degno di molta lode30? E che dire di quel famoso Scipione che uccise di sua mano Tiberio Gracco che stava rovinando la Repubblica?31 E che di Caio Mario che uccise Saturnino? E che di Servilio Ahala, che abbatté Spurio Melio, anche se tutte queste azioni sembrano compiute in guerra, o, almeno, non in pace? E chi negherà che Valerio Publicola ha compiuto molte imprese illustri non solo quando era nell’esercito ma anche quando era in patria?32 E Fabio Massimo, uomo d’armi e famoso per la sua gloria militare, forse non era in patria quando ristabilì lo Stato sconvolto e vacillante, dividendo la massa della plebe in tribù urbane, fatto per cui meritò di avere il soprannome di Massimo per sé e per i suoi discendenti? E Camillo? Non fu lui che persuase i Romani a rimanere in quella città che egli aveva ripreso con le armi, quando costoro stoltamente avevano deliberato di emigrare a Veio? E Marco Attilio Regolo, anch’egli uomo d’armi, quando, dopo essere stato catturato dai nemici, fu mandato a Roma per lo scambio dei prigionieri, non dissuase i Romani da questo scambio perché capiva che sarebbe stato di danno alla Repubblica? E per questo suo comportamento fu poi suppliziato dagli stessi nemici. Ma egli volle badare al bene della patria, non al suo; alla propria salvezza antepose quella dello Stato.

Dunque, queste egregie azioni compiute in patria, o nel tutelare i cittadini contro le offese dei prepotenti, o nel difendere e guidare lo Stato, alcuni pensano che siano di competenza dei soldati. Ma certamente sbagliano. Tutti questi sono doveri di competenza, per così dire, dell’uomo e del cittadino perbene, non del soldato. E cosa nota riguardo ai Romani, il cui servizio militare aveva termine col ritorno a casa. Così non era più soldato Cicerone quando difese Roscio, né lo era Boezio quando difese Paolino, né Metello quando protesse Tarpeia, né Publio Scipione quando uccise Tiberio Gracco, né Fabio o Camillo o Regolo quando persuasero i concittadini a prendere quelle decisioni. E se tutti in un primo tempo avevano fatto il soldato, allora il loro servizio militare era finito. Dunque, quando compivano quelle azioni non erano militari, e quindi non erano militari le azioni che, allora, venivano compiute da loro. Per la qual cosa nella milizia temporanea sembra che non ci sia stato alcun dovere né servizio per un soldato in tempo di pace e in patria. Invece, in questa nostra milizia, che vogliamo sia non temporanea ma permanente, si può essere più in dubbio dal momento che l’obbligo militare rimane per coloro che sono tornati a casa.

Ma certamente la ragione stessa sembra spingere a pensare la stessa cosa anche riguardo ai nostri soldati, cioè ai soldati di questo tempo. L’essenziale di questa considerazione è vedere in quale veste uno agisca. Infatti in un unico e stesso uomo, talvolta, possono venire a trovarsi più persone, come nel cavaliere fiorentino Filippo33. Egli è, allo stesso tempo, e soldato e cavaliere, giureconsulto e avvocato, cittadino e uomo, anche dabbene, se sei d’accordo. Dunque, quando fa qualcosa importa il ruolo con cui la compie: e questo è da osservare con molta attenzione anche negli altri. Se un medico, posto da un amico a tutore di orfani, esercita rettamente la tutela, il dovere di esercitare la tutela non sarà stato del medico, ma dell’uomo perbene. Così, se un soldato difenderà Roscio in un processo o persuaderà una certa cosa vantaggiosa allo Stato, quell’azione non sarà dovere specifico del soldato, ma altre volte dell’uomo perbene, ad esempio di un oratore o di un senatore. Ammesso pure che i nostri soldati, in tempo di pace, facciano tante cose, ricoprano magistrature, provvedano alla patria, coltivino amicizie, si occupino di faccende pubbliche e private, si comportino con generosità e giustizia coi congiunti: pure, tutti questi non sono doveri specifici di un soldato, e nessuno di questi essi compiono come soldati.

In tempo di pace c’è soltanto un tipo di azioni che si potrebbe sostenere essere proprio di un soldato. Vediamo quale è. In primo luogo si passano in rassegna tutte, all’infuori delle opere che richiedono forza; infatti, la pratica di tutte le altre virtù appare senz’altro estranea alle mansioni del soldato. Le azioni compiute con la forza sono quelle che si attuano con enorme e lodevole sprezzo del pericolo: esse si manifestano in guerra, e il compito del soldato si espleta certamente in guerra. Anche in pace queste stesse azioni sembrano spettare al soldato, qualora si debbano compiere non con una certa tecnica e una conoscenza non comune, ma con la forza delle braccia. Un tale molto potente colpiva uno debole, e lo cacciava dal fondo paterno non con una sentenza giuridica ma con la forza delle armi. In questa situazione non è il caso di una disputa forense, né c’è bisogno di avvocati e di eloquenti parlatori, ma c’è bisogno della forza delle braccia. Dunque, il soldato si oppone e difende il debole non con la conoscenza delle leggi, non con l’eloquenza e l’arte del dire – questo sarebbe compito dell’avvocato o dell’oratore – ma con le forze del suo petto respinge l’offesa. Tali azioni si possono dire proprie del soldato in tempo di pace, e questo certamente corrisponde alla stima e alla fama che si ha dei soldati. La fama, poi, come dice Omero, non è mai completamente vana, e molti popoli la diffondono34. Tutti, infatti, pensano e dicono così, come se fosse compito dei soldati proteggere le vedove e gli orfani. Questi, infatti, sono coloro che, per la loro debolezza, di più sono fatti oggetto di violenza: ma la stessa situazione si potrà riferire anche agli altri deboli.

Sembra, dunque, che queste azioni si possano lasciare ai soldati. Nondimeno avrei dubbi anche su di esse, perché tali mansioni civili si distinguono in compiti di guerra e compiti di pace, i quali sono fra loro completamente diversi e nettamente separati. Si sa che il soldato è per la guerra e le armi: e mescolare queste con la pace e usarle in mezzo ai cittadini crea confusione nella città. Così appare più accettabile riconoscere che in tempo di pace non esiste alcun compito per il soldato, a meno che non si dica che non c’è pace quando si fa violenza ai cittadini, e che coloro che fanno violenza sono cittadini soltanto a parole, ma in realtà sono nemici. Perciò dal momento che in un certo modo c’è guerra in tempo di pace, ci sarà ugualmente spazio per l’opera del soldato.

Di tutte le altre azioni che si compiono in tempo di pace ce ne sono alcune che recano disonore alla milizia e alcune che possono essere fatte da un soldato pure con lode. Con lode si fanno tutte le azioni oneste, anche se uno non le compie come soldato. Recano disonore, invece, quelle che sono contrarie al suo dovere di soldato o alla sua professione. Perciò, dal momento che è dovere del soldato proteggere i concittadini, non ci sarà cosa più intollerabile di un soldato che arrechi lui stesso violenza e ingiurie ai concittadini, sicché da dove si è richiesta la salvezza, da là venga il tradimento. Gli oltraggi fatti ai concittadini da tutti gli altri uomini sono, sì, vergognosi, ma se sono fatti da un soldato sono scellerati, empi, detestabili. Quanto sia mostruoso che un concittadino venga attaccato da un soldato, si può capire dal fatto che se un soldato abbandona un concittadino e non lo aiuta mentre uno lo assale è come se compisse un tradimento; se è vero che è traditore chi apre ai nemici quanto è stato affidato alla sua custodia. Il soldato è custode dei concittadini per promessa e per giuramento, e dalla caratteristica e dalla natura della sua professione è posto a fare e considerare solo questo. E se tralasciare la difesa di un concittadino si deve giudicare tradimento, quanto più riprovevole sarà danneggiare di suo un concittadino.

In primo luogo, dunque, il soldato deve evitare di far del male a qualche concittadino, di arrecare ad alcuno violenza e offesa: azioni assolutamente contrarie al suo ufficio, e che non solo disonorano e macchiano la milizia, ma anche distruggono la sua caratteristica e la sua natura. Dal momento che questa milizia, come noi vogliamo, è permanente, e in essa non c’è, come avveniva in quella di Romolo, ritorno per così dire, ad altra attività, la professione di chi si è consacrato a tale milizia richiede che il soldato abbia abbastanza ricchezze e non voglia mai fare guadagni in più, ma tutto il suo impegno rivolga allo Stato, e a lui lo dedichi in avvenire. A questa professione è assolutamente contraria ogni brama di guadagno. Perciò il mercanteggiare, sebbene per altri sia decoroso, per il soldato sarà ignobile e disonorevole: è contro la sua professione. E chi, calpestato un vincolo sacro, si mescola di nuovo con la massa e si rivolge ad accumulare denari e guadagni, in un certo modo pare un transfuga e un disertore. Or dunque, io che così decisamente vieterei ad un soldato la mercatura, nella quale talvolta può esserci un onesto guadagno, che cosa pensi che farei a proposito di guadagni più sporchi? A mio parere, colui che, ricevendo una carica onorifica, ha voluto innalzarsi sopra il volgo e, grazie alla carriera militare, divenire grande e illustre, conviene che guardi a scopi più nobili e si elevi ad obiettivi più alti. Ad altri si addicono strade diverse. Alla donna – dice Omero35 – arreca decoro il tacere, ma non ugualmente all’uomo. Così è per il soldato. In altre persone sono convenienti, o almeno tollerabili una volta, certi modi di comportarsi, che invece sono del tutto incompatibili con la dignità del soldato.

Conosca, dunque, ciascuno se stesso, e osservi bene le sue possibilità e la sua natura. Questo è un precetto così saggio, che si attribuisce a Dio come autore, e si è creduto che sia disceso dal cielo. Conosca, dunque, se stesso il soldato e valuti che cosa richiedano il suo dovere e la sua professione; e non viva superficialmente come i più, ma proceda nella vita con un criterio sicuro e stabile. Così, a mio parere, terrà il suo posto con più decoro. Il soldato perbene, e che conoscerà se stesso, spesso dirà così fra di sé: «Sono un soldato; porto su di me il grande onere del giuramento e quello della professione. Innalzato alla dignità e allo splendore della cavalleria, in grazia di questa ottengo grandissimi onori. Tutto ciò che è giusto che sia tributato alle persone più elevate, per questa dignità viene tributato a me dai miei concittadini, tanto nella vita pubblica quanto in quella privata. Che cosa, dunque, mi conviene fare? Forse accettare gli onori, senza dare di me alcuna prova di virtù e di merito? Forse, dal momento che la dignità con i suoi onori mi ha fatto diverso da quello che ero prima, io per indolenza e viltà persevererò negli stessi comportamenti di un tempo, e, dopo essere stato innalzato ad un grado altissimo ed insignito di un’elevata onorificenza, non mi vergognerò di ricadere in basso e di insozzare lo splendore dell’oro con ignobili guadagni? Lontana da me questa sconcezza, lontana da me questa vergogna. Delle ricchezze basti quello che si ha, e sia rivolto a procurare decoro e onore. Per conto mio, io mi sono proposto la ricerca non della ricchezza ma della gloria, della dignità, della liberalità, le quali sono di gran lunga da preferirsi a tutte le ricchezze. Perciò si diano da fare altri, se così vuole la bramosia di accrescere il patrimonio. Io, di certo, conserverò la mia dignità in guerra e in pace, e all’onore non solo non anteporrò il guadagno ma neppure la vita». Queste e simili cose dirà fra sé il soldato perbene e generoso, e sicuramente le farà.

Invece, il soldato degenere e immemore del proprio dovere tralignerà incontrando così non soltanto la disapprovazione degli uomini, ma anche lo sdegno della patria. E la patria se, per Ercole, potesse parlare, così, a mio parere, gli direbbe: «Che cosa o uomo, di grazia, stai facendo? O in quali faccende si applica il tuo impegno? Io, di tutti genitrice, avendo disposto la mia situazione in modo che niente mi mancasse eccetto la protezione e la difesa contro le offese dei nemici, stabilii che alla mia difesa si scegliessero uomini forti e protesi ad alti ideali; a questo compito di amore invitai animi elevati e generosi, con la promessa di gloria e di onore; indicai i pericoli che erano da affrontare; mostrai i compiti di questa professione; dichiarai che bisogna esporre a pericoli la propria salvezza per la salvezza dei concittadini: e che per queste azioni essi avrebbero ottenuto di precedere tutti gli altri nella gloria e nell’onore. Quindi, se stimavano la dignità e la gloria più dei beni che avevano prima, si iscrivessero nella milizia. Se, invece, riputavano gravi quei doveri, non cercassero di elevarsi, si nascondessero fra la gente oscura. Tu, dunque, dato che sapevi tutto ciò, o non ti era affatto permesso ignorarlo, hai dato il tuo nome in questo illustre e glorioso servizio della milizia. Dando tu il tuo nome e impegnandoti, spontaneamente ti ho ammesso, ti ho ricevuto, ti ho concesso onori, ti ho collocato in un grado elevato e insigne. Perché, dunque, tu ora tergiversi? Perché abbandoni il tuo posto? Perché macchi le decorazioni che da me ti sono state date? Ai miei soldati volli che fosse prospettata la forza non l’ignavia, l’ambizione della gloria non quella di accumulare ricchezza. Se sei forte e generoso, guarda in alto, desidera la gloria e un nome celebre, disprezza le cose più basse, così come richiede la tua professione. Se, invece, sei un degenere e un vile, perché mi inganni portando le decorazioni con ipocrisia? Non si può sopportare che uno che è pari e simile agli altri si procuri onori sopra agli altri. Perciò, o compi per me il tuo dovere di soldato, o spogliati della fittizia maschera di soldato». Se dunque la patria potesse parlare, certamente direbbe tutto questo, a ragione e a buon diritto.

Ma ormai basta, a mio parere. Tutti gli argomenti su cui all’inizio abbiamo premesso che si sarebbe dovuto parlare, si sono trattati. Stando così le cose, poniamo finalmente termine al nostro discorso.

1. Rinaldo di Maso degli Albizi nacque a Firenze nel 1370. Ebbe un notevole ruolo diplomatico al servizio della Repubblica, testimoniato dalle sue Commissioni (pubblicate a cura di C. Guasti, Firenze, 1867-1873). Sul versante militare fu impegnato, fra l’altro, nella guerra contro Lucca nel 1430-1431, della quale fu tra i più accesi fautori; ma venne accusato di eccesso di potere e dovette rinunciare all’ufficio di commissario che gli era stato assegnato. Fu il capo della fazione oligarchica che si riconosceva in Niccolò da Uzzano; nel 1433 vinse temporaneamente la lotta contro gli avversari guidati da Cosimo dei Medici, il quale venne mandato in esilio. Appena undici mesi dopo, in seguito al ribaltamento delle alleanze e all’appoggio esplicito di papa Eugenio IV ai Medici, Rinaldo e la sua parte vennero sconfitti; fu esiliato ad Ancona dove morì nel 1448. Un suo fratello, Luca (1382-1458), fu, invece, uno degli esponenti più autorevoli della parte medicea.

2. Oltre a Liv. 8,8,1-2 può essere indicato, come fonte generale, GIOVANNIDI SALISBURY, Policraticus 2,34 (ed. C.C.J. Webb, Oxford, 1909).

3. Il riferimento è, forse, al De re militari di Vegezio, riproposto, dopo la traduzione dugentesca di Bono Giamboni, dalla nuova versione, apparsa nel 1417, del cancelliere di Perugia Venanzio da Camerino.

4. Le idee qui esposte derivano da ARIST., polit. 1252a-1253a, al quale risale anche la distinzione delle città poco sotto esposta dal Bruni (cfr. polit. 1260b).

5. L’espressione bruniana «propulsatores belli», letter. «respingitori della guerra», è la traduzione delle parole con cui Aristotele riferendo, in polit. 1267b -1268b, la suddivisione, progettata da Ippodamo, dei cittadini di una città perfetta in tre classi, designa, dopo quelle degli artigiani e dei contadini, quella dei soldati: μέρος […]τρίτον δὲ τò προπoλεoῦν ϰαὶ τὰ ὅπλα ἔχoν: «la parte terza quella che fa la guerra di difesa e ha le armi», cioè i «difensori armati». - Anche Platone, in rep. 414b-415d, distingue i cittadini in tre classi: quella aurea dei governanti, quella argentea dei guerrieri (che chiama ὲπιϰονροι, «soccorritori») e quella bronzea degli artigiani, agricoltori ecc. Riguardo a Ippodamo di Mileto, nato sul finire del sec. VI a.C. e famoso architetto costruttore del Pireo, ricordiamo che oltre alla tripartizione dei cittadini teorizzava anche quelle del territorio e delle leggi.

6. In PLAT., rep. 375b: ϕύλαϰες ; per altre indicazioni cfr. CIC., off. 1,18.

7. La fonte complessiva è qui CIC., off. 1,18.

8. Le immagini ora indicate derivano da SALL., Cattil. 51.

9. Accanto alla provenienza classica – CIC., off 1,18 – va notato il ritorno di questi concetti nell’Isagogicon moralis discipline (cfr. p. 220), e nell’Orazione per Niccolò da Tolentino (cfr. p. 818).

10. La fonte è ancora ARIST., polit. 1266a-1267b (dove però, anziché «Filea di Cartagine» si ha «Falea di Calcedonia»). Ma da queste tesi il Bruni dissente per il ruolo attribuito agli artigiani. Nelle raffigurazioni del governo di Firenze fatte dal Bruni – dalla Laudatio fiorentine urbis all’Oratio in funere Iohannis Strozze, dalle Historiae florentini populi alla Costituzione fiorentina e altrove – mai compare l’idea di un’esclusione degli artigiani dalle forze vive della città; anzi, come in particolare testimonia l’impegno epistolare del Bruni cancelliere, c’è sempre stata da parte sua una specifica attenzione per il ceto degli artigiani e quindi dei mercanti.

11. Cfr. CIC., off. 1,7; 1,2.

12. Cfr. PLATO apud POMP. FEST., De significatione verborum, p. 109 (ed. W.M. LINDSAY, Leipzig 1923).

13. Cfr. VERG., Aen. 9, 603-604.

14. Cfr. VERG., Aen. 8, 515-516.

15. Le fonti sono VARRO, ling. 5,89 e ISID., orig. 9,3,32.

16. Cfr. LIV., 1,43.

17. Cfr. CIC., off. 1,11, anche per il successivo riferimento alla lettera di Catone al figlio.

18. Cfr. CAES., Gall. 6,13,1.

19. Cfr. LIV., 1,16,7.

20. Cfr. MATTH., 27,35. La successiva immagine della catena che lega insieme soldati e rei deriva da SEN., epist. 1,22.

21. Cfr. PLIN., nat. 33,1,9-12; 33,1,30.

22. VERG., Aen. 8,658-661.

23. Cfr. CURT., 9,3.

24. Su Luigi Marsili cfr. p. 86, n. 6.

25. Cfr. PLIN., nat. 15,5,19; VAL. MAX., 2,2,9.

26. Il riferimento polemico è rivolto ai Catari, cioè ai seguaci dell’eresia popolare dualistica diffusasi in Europa fra il XII e il XIV secolo, e che si proponeva il raggiungimento della fede vissuta in stretta adesione alle Sacre Scritture e soprattutto al Vangelo, ma interpretandole in forme profondamente diverse da quelle della Chiesa. Il merito di aver liberata la Chiesa dalla minaccia dei Catari va alla diffusione degli Ordini mendicanti dei domenicani e dei francescani, i quali con la predicazione e con l’evangelizzazione seppero proporre nuovi ed efficaci modelli di vita.

27. Il riferimento alla legge di L. Roscio Ottone, autore della «Lex Roscia theatralis» del 67 a.C, deriva da CIC., Phil. 2,44; Mur. 40.

28. Cfr. CIC., Q. Rosc, con cui difende il suo cliente dalla «Lex Pompeiana de parricidis», contro Crisogono e Siila.

29. Cfr. BOETH., cons. 1,4.

30. Cfr. LUCAN., 3,114-140.

31. Tutti questi richiami derivano da CIC., Catti. 1,1; 1,2; per quello a Servilio Ahala si aggiunge anche LIV., 4,14,1-7.

32. Questi richiami derivano da LIV., 2,16,1-7 (Valerio Publicola); 9,46,14-15 (Fabio Massimo); 5,49-54 (Furio Camillo); per Furio Camillo anche da PLUT., Cam.; per Attilio Regolo da CIC., off. 3,99; VAL. MAX., 4,4,40; SEN., dial. 1,3,4.

33. Si tratta sicuramente di Filippo Corsini (Firenze 1334-1421), imparentato per parte di madre con la famiglia di Rinaldo degli Albizi, e figura fra le più significative della classe dirigente e della cultura giuridica fiorentina della seconda metà del Trecento e dei primi del Quattrocento. Compì numerosissime e talvolta delicate missioni diplomatiche (come quelle presso l’imperatore Carlo IV, il duca di Milano Gian Galeazzo Visconti, il re di Francia Carlo VI, i signori di Rimini e di Lucca Carlo Malatesta e Paolo Guinigi, i papi Urbano V e Clemente VI); fu professore di diritto civile nello Studio fiorentino e ricoprì le più alte magistrature della Repubblica: fu, ad esempio, cinque volte Gonfaloniere di giustizia. Suo fratello Pietro fu eletto cardinale da Urbano V. Il Corsini fu, inoltre, fra i più convinti sostenitori della politica portata avanti da Maso degli Albizi, di cui era cugino, e fra gli ispiratori del tumulto del 1382 col quale gli ex banditi dai Ciompi ottennero risarcimenti economici e politici.

34. Cfr. HOM., Od., 19,332-334; ma il testo omerico è più complesso rispetto a quanto riportato dal Bruni: ὅς δ’ ἂν ἀμύμων αὐτòς ἔῃ ϰαὶ ἀμύμoνα εἰδῇ, / τoῦ μέν τε ϰλές εὐρὺ διὰ ξεῖνoι Φoρέoυoι / πάντας ἐπ᾿ ἀνϑρώπoυς, πoλλoί τέ μιν ἐσϑλòν ἔειπoν: «ma chi è incensurabile ed ha sentimenti incensurabili, la sua fama i forestieri la spandono largamente fra gli uomini e lo dicono virtuoso».

35. Questo stesso concetto è espresso anche nell’Oratio per lo Strozzi (p. 728).

36. Cfr. HOM. Od., 1,355-58; ma la fonte non sembra essere qui Omero, bensì SOF., Aiax 293 (e anche ARIST., polit. 1260a). Su quanto detto dal Bruni circa il distacco del soldato dalle brame di guadagni cfr. ARIST., polii. 1323b-1324a; sul decoro di cui il soldato deve dimostrarsi cosciente cfr. CIC., Tusc. 1,22; off. 1,33.