Scrivere un’autobiografia e fare un testamento
spirituale sono quasi la stessa cosa.
Sholem Aleichem
Tutto quel che sappiamo dell’amore viene da nostra madre. Eppure abbiamo sepolto quell’amore così profondamente, che forse non sappiamo nemmeno più da dove venga. Se siamo state ferite e sul cuore si è formata una cicatrice, confondiamo la cicatrice col cuore stesso, dimenticando la ferita che l’ha prodotta.
I primi ricordi che ho di mia madre risalgono all’anno in cui nacque la mia sorellina. Non ricordo di essere mai stata il centro dell’universo, perché quando sono arrivata io, in famiglia c’era già mia sorella, da quattro anni e mezzo.
Quando nasce la mia sorellina io ho a mia volta quattro anni e mezzo, mia madre è a letto come una regina che riceve gli ospiti, le figlie, i genitori e gli amici. È bella, ha gli occhi scuri e i capelli castano ramati e indossa una giacchina da letto di seta rosa imbottita su una camicia da notte di seta. Nella mia famiglia le donne portano la liseuse solo nelle grandi occasioni – nascita, malattia, morte – e difficilmente stanno a letto durante il giorno. Siamo tutte così energiche che riordiniamo appresso alla cameriera, battiamo a macchina per la nostra segretaria e insegniamo a cucinare al personale del catering – anche se cucinare non è esattamente un dono di famiglia. Quindi, se mia madre sta a letto con addosso la liseuse di seta rosa, vuol dire che deve essere davvero un’occasione importante. E lo è: è appena nata la figlia numero tre.
La bambina ha preso il raffreddore in ospedale, e la piccola Erica di quattro anni e mezzo ha una forma di micosi presa dal gatto della sua migliore amica. Le è stato proibito di toccare la piccola – sorvegliata da una bambinaia che pare un cerbero. Erica si sente contagiosa neanche avesse la lebbra e tanto inutile che pensa che se scappasse di casa, nessuno nemmeno se ne accorgerebbe. A quattro anni e mezzo riesce a concepire solo di scappare a casa della sua migliore amica, al piano di sotto, ma è proprio lì, in quella casa, che ha preso la micosi. (Anni dopo sarebbe arrivata oltre l’angolo della strada, fino al negozio di dolciumi – anche se tutte le volte che l’ha fatto, ha finito per usare una delle sue sudate monetine per chiamare casa dall’ammuffita cabina telefonica puzzolente di fumo di sigarette. Invariabilmente gli adulti riuscivano a farle dire dov’era. E lei desiderava così ardentemente essere ritrovata che finiva sempre per dirlo. Si lasciava convincere a tornare a casa, anche se questo significava attraversare la strada come una ragazza grande.)
Perciò resta in casa, in uno di quei grandi e vecchi palazzoni del West Side, con finestroni doppi che fanno entrare la luce del nord – molti in famiglia sono pittori.
La madre di Erica non resterà per molto tempo a letto con la sua bella liseuse imbottita. Ben presto si alzerà e comincerà a girare per casa, a fare un “rapido schizzo” della piccola nella culla, a dire alla bambinaia cosa deve fare, a fare il ripieno del pollo da arrostire, a mescolare il burro e la farina per la crostata di mele che ha detto alla governante di preparare. Poi correrà a scuola di danza o al parco o alla pista di pattinaggio del Rockefeller Center con le sue due “bambine grandi”.
Ma tutto il tempo – un giorno? due giorni? una settimana? – che sua madre resta a letto sembra eterno alla piccola Erica di quattro anni e mezzo. Specie dato che il cerbero le urla: “Non osare toccare la bambina con quelle mani!!!”
La piccola Erica non ha mai perdonato sua madre per quell’abbandono. Inutile spiegare che se la bambinaia ignorava gli insegnamenti di Freud non era certo colpa di sua madre. Inutile dire che probabilmente la bambinaia era solo una povera donna che si guadagnava un magro stipendio passando da una casa all’altra, da un bambino all’altro, senza la speranza di potere avere un giorno un bambino e una casa tutti per sé. Era un abbandono e tutti gli abbandoni sono per definizione colpa della madre. Nella mia mente adulta, sono forte e sicura. Nella mia mente infantile, sono una bambina abbandonata.
Questi sono semplicemente alcuni dei miei ricordi di quando mia sorella minore è venuta al mondo. Sicuramente i ricordi di mia madre sono totalmente diversi. E anche quelli della mia sorella maggiore devono essere diversi. E lei, la piccola, cosa ricorda di quei giorni, se non quello che noi le raccontiamo? Ma da qualche parte nella zona più primitiva del mio cervello c’è la feroce sensazione di tradimento che la nascita della mia sorellina deve aver prodotto. Non ho mai perdonato mia madre, per questo. Anche dopo anni di analisi stesa sul lettino e di terapia seduta in poltrona, a volte mi sento ancora come quella bambina di quattro anni e mezzo abbandonata, con la micosi sulle braccia e sul torso.
Da molto tempo mia madre e io abbiamo raggiunto una tregua. Quest’anno lei ha compiuto ottantasei anni e io ho patito e superato la paura dei cinquanta, perciò adesso siamo molto tenere l’una con l’altra, come due unicorni di vetro che temono di spezzarsi reciprocamente le corna baciandosi con troppo impeto.
Ora che io stessa ho una figlia di diciannove anni, capisco tutte le difficoltà di mia madre ad allevarci. Ho avuto perfino l’impulso di inginocchiarmi davanti a mia madre e dirle: “Sei un’eroina per il solo fatto di essere sopravvissuta a tre figlie femmine!”
Mia figlia oggi impreca contro di me, come una volta io imprecavo contro mia madre. Quando Molly fa uno dei suoi soliti monologhi, non risparmiando a nessuno frecciate del suo spirito caustico, mia madre e io ci guardiamo con un sorriso.
“Dille che ti dispiace di essere stata una madre così spaventosa,” dice mia madre, con la voce intrisa d’ironia. “E chiedile scusa.” Adesso do perfino retta a mia madre.
“Molly,” dico, “ho fatto del mio meglio. Di certo devo aver fatto un sacco di errori. Ti chiedo scusa.”
“Sì, sì, sì,” fa Molly impaziente. E mi guarda con quell’aria di assoluto disprezzo che nasce dal troppo amore. Per me stessa a volte posso anche essere ancora la bambina di quattro anni e mezzo con la micosi, ma per lei io sono sempre la dea Calì con una collana di teschi, o la statua gigantesca di Athena che una volta si ergeva nel Partenone, o la Medusa con la testa brulicante di serpenti che monta la guardia al Vello d’Oro. Aspetta di avere una figlia anche tu, penso. Ma non sono tanto sciocca da dirglielo. E mia madre e io ci scambiamo un sorrisetto da cospiratrici. Allevare una figlia richiede una pazienza sovrumana. Allevare una figlia è un lavoro infinitamente più duro che scrivere.
Ho pubblicato recentemente un libro su madri e figlie. In Ricorderò domani ho percorso la ghirlanda madre-figlia attraverso quattro generazioni, dimostrando che siamo forgiate tanto dai nostri struggimenti materni quanto dal disperato bisogno di liberarcene. La dinamica tra queste due grandi forze plasma in gran parte la nostra vita di donne. Sì, anche padri e nonni contano, sono importanti, ma quel che impari dalla mamma e dalla nonna ti resta dentro il midollo. E viene a galla appena diventi madre tu stessa. Quel che semini da figlia, inevitabilmente mieterai da madre.
Mia madre era bravissima nel lasciarmi libera. O forse ero io che testardamente chiedevo la libertà. Con madri e figlie, non si sa mai bene di chi sia l’iniziativa. Siamo così intrecciate, così simbiotiche che non sempre si distingue la madre dalla figlia, la danzatrice dalla danza.
Naturalmente, non capivo niente di tutto questo su mia madre e me quando avevo dodici, venti o anche trent’anni. Ero chiusa nella mia mortale lotta con lei, biasimandola apertamente o dietro le spalle, mettendola alla gogna nei miei romanzi – anche quando tradivano il mio appassionato amore per lei. E credevo naturalmente di essere la prima figlia della storia a provare quei tumultuosi sentimenti nei confronti della propria madre. Naturalmente ero convinta che mia madre ignorasse le mie esigenze, che fosse ipocrita nella vita e nell’arte, e che avesse disperatamente bisogno dei miei lumi. Dovevo essere insopportabile. Eppure lei accoglieva i miei eccessi con amore. Ed è stato il suo amore a farmi libera.
Infatti da cos’altro può essere concesso il dono della libertà, se non dall’amore? Non facendomi mai dubitare del suo amore per me, mia madre alimentava i miei libri, la mia vita, persino la mia stessa esperienza di madre. Anche se ero fieramente indipendente e ho rifiutato il sostegno economico dei miei dopo il college, sapevo che comunque sarei sempre potuta tornare a casa. Quando nei miei romanzi scrivevo cose terribili su mia madre, lei diceva semplicemente: “Non leggo mai i tuoi romanzi, perché ritengo che tu sia prima di tutto un poeta.” Sapevo che potevo scrivere qualsiasi cosa avessi deciso di scrivere, e continuare comunque a poter contare sul suo amore.
Mia madre aveva un buon rapporto con la propria madre, e invece un tormentoso rapporto col padre. Suo padre era un brillante artista, un severo e implacabile maestro per le due figlie pittrici. E siccome riteneva mia madre la più dotata di talento, la spronava spietatamente. La spingeva con tale insistenza che lei, dopo aver sposato mio padre, si rifugiò nel piacere primordiale di fare figli. Quando verso la mezza età riaffiorò la sua arte, aveva in casa tre amazzoni – noi tre – che la distraevano. Non deve essere stato facile continuare a dipingere e farci da madre. Ma lei l’ha fatto. Ancora oggi dipinge quasi ogni giorno.
In casa nostra, l’arte del disegno era tenuta al livello degli inflessibili standard di mio nonno. Bisognava disegnare dal vero prima di avventurarsi nel mondo della fantasia. Dovevi padroneggiare carboncino e conté crayon, prima di indulgere al colore. Dovevi fare centinaia di nature morte, prima di disegnare “il modello”. E dovevi saper disegnare un nudo decente, credibile, prima di osare dipingere persone con i vestiti addosso. Io trovavo tutta questa regolamentazione così scoraggiante che ho finito per rinunciare alla pittura. Dall’età di undici anni, passavo tutti i sabati alla Art Students League di New York, a disegnare accanto ad artisti professionisti, cercando di stare all’altezza di standard talmente impossibili che mi sentivo sempre un infimo fallimento. Anche se ho continuato a dipingere per tutto il tempo del liceo e gran parte del college, ho abbandonato la pittura con grande sollievo quando, da adolescente, ho scoperto l’ossessione di scrivere. Essere un’artista per me era troppo carico di sentimenti conflittuali.
Avevo bisogno di qualcosa che fosse solo mio. Scrivere apparteneva a me sola, come mai la pittura avrebbe potuto.
Perciò capisco la fatica di mia madre per entrare nella professione di suo padre. Non ha mai smesso di dipingere, ma ha espresso la sua profonda ambivalenza non esponendo mai in pubblico. Aveva paura di competere, paura di poter avere veramente successo e di “uccidere” il padre. E come tante donne, corteggiava la sconfitta con uno scopo: compiacere un uomo.
Mia figlia Molly è forse la più coraggiosa del nostro clan di amazzoni. A diciannove anni, sta già scrivendo il suo primo romanzo. La sera, ogni tanto, me ne legge qualche capitolo e nel suo libro da novellina il mio ruolo è chiaro: sono la madre mostro.
“Mammina, spero non ti dispiaccia,” dice maliziosamente mia figlia, “ma ti ho (descritto come un’assoluta narcisista e una alcolista irrecuperabile nel mio libro...” Ride con aria provocatoria, sperando di farmi arrabbiare. Rifletto un minuto, ricordando quel che la mia amica Fay Weldon, una scrittrice inglese, dice a proposito degli adolescenti: non reagire mai a quel che ti dicono se non con un neutrale “vedo” oppure “hmmm.” Gli adolescenti esistono per provocare i loro genitori. La tua unica difesa sta nel non lasciarti provocare.
È vero che non mi riconosco nel personaggio che Molly chiama “mia madre” nel suo primo romanzo causticamente divertente. Ma chi sono io per censurarla? Se io non capisco che un romanzo non è la realtà, chi diavolo lo potrà mai capire? Io stessa ho usato la mia famiglia come materiale di spunti comici per venticinque anni – come posso negare questo fondamentale diritto a mia figlia?
“Sei sicura di non esserti offesa, mamma?” chiede Molly, sperando tanto che sia accaduto.
“Riderò con te dall’inizio alla fine,” le dico, abbracciandola.
In una famiglia di artisti, arrivi presto a capire che tutto quel che hai in casa, è roba da dipingere. Quella zucca servirà forse per fare una torta – ma prima è destinata a fare da modello per un quadro. La bambina nella culla è semplicemente l’ultimissimo modello della famiglia. Mia madre e mio nonno stanno tutt’e due chini sulla culla e disegnano, disegnano, disegnano. Mia sorella è nata con una cornice dorata intorno al viso. Per la verità, è stata la stessa cosa per tutti quanti noi. E se la tua famiglia non è disponibile a posare? Be’, allora dipingi te stesso. Mio nonno teneva uno specchio di fronte al cavalletto, così quando non aveva altri modelli, poteva sempre farsi un autoritratto. Si è ritratto a tutti gli stadi della vita, e lo stesso ha fatto con noi. Ci sono dozzine di miei ritratti a tutte le età, con vari costumi. In un quadro ho cinque anni e indosso un abitino di velluto nero col colletto di pizzo color avorio e un berretto floscio di velluto nero, con in cima un pon-pon di marabù. Sembra che stia posando per Rembrandt – il pittore preferito da mio nonno. In un altro ritratto – fatto da mia madre – ho diciassette anni e indosso un kimono da sposa giapponese con un obi antico. Ho i capelli fermati in due rigidi rotoli trattenuti da pettini di lacca come se fossi una geisha bionda. Ho il viso bianco di polvere di riso. Una macchia scarlatta di rossetto rende il mio labbro inferiore simile a un occhio di bue. Quando riguardo quel ritratto, ricordo l’estate dei miei diciassette anni, che passammo in Giappone.
Tutti questi ritratti mi hanno infuso forza in vari modi. Alcuni possono non essere di mio gusto e altri sono tutt’altro che lusinghieri, ma sono comunque felice che esistano. Mi sento più ricca per la loro esistenza. I miei ricordi sono conservati su una parete di ritratti nella sala da pranzo di mia madre.
Durante tutta la mia infanzia sono stata quindi un soggetto di opere d’arte. Sono arrivata a credere che fare arte fosse naturale come respirare.
Ma il processo dell’arte è anche il processo della metamorfosi. Posso essere un orco nel primo romanzo di Molly, ma probabilmente sarò un angelo nell’ultimo. Mia madre in Paura di volare può avere spigoli taglienti, ma in Paura dei Cinquanta quegli spigoli sono diventati morbidi come una sciarpa di seta e cachemire. Ho più madri, non una sola. E ciascuna di queste madri corrisponde a un’epoca della mia vita. Ciascuna rappresenta un cambiamento in me, più che un cambiamento in mia madre. Man mano che acquisto sicurezza della mia identità, me la prendo sempre meno con mia madre. Man mano che invecchio, mia madre diventa più dolce e tenera, insieme con me.
Non c’è fine a questa storia. Finché vivrò, continuerò a ridefinire il mio essere figlia alla luce del mio essere madre. Siccome sono una scrittrice, trasformerò questi cambiamenti in parole. Dato che scrivere è il mio modo essenziale di restare sana di mente, ho bisogno di scrivere per sapere cosa penso. Ma non ci sarà mai un’incarnazione definitiva di mia madre, di mia figlia o di me. Siamo tutte e tre dei lavori in corso.
L’unico elemento costante è la metamorfosi stessa. Kurt Vonnegut ha detto in un suo romanzo che le persone sono come dei millepiedi che portano facce diverse nel tragitto dall’infanzia alla vecchiaia. Mi è sempre piaciuta questa immagine: ognuno di noi è un millepiedi che marcia attraverso il tempo.
Mia madre è un millepiedi, e così pure mia figlia. A volte le nostre strade si incrociano, e noi inciampiamo nei nostri trecento piedi. Ma ci siamo già segnate l’un l’altra in milioni di modi. Condividiamo lo stesso DNA, gli stessi sogni, lo stesso coraggio. Se Molly è destinata a essere la più audace di tutte, da lei non mi aspettavo di meno. Tante generazioni di donne l’hanno rinvigorita. Tante madri e nonne hanno contribuito a crearla. Che possa davvero avere il coraggio di inseguire i suoi sogni, ovunque la conducano! Senza coraggio, a che servono i sogni? Senza coraggio, a che servono tutti gli sforzi di tua madre, di tua nonna e di tua bisnonna? Sta’ certa che le antenate ti tengono d’occhio. Se le deludi, deludi te stessa.
“Pensiamo a ritroso attraverso le nostre madri, se siamo donne,” ha detto Virginia Woolf. E attraverso di noi, le nostre madri possono guardare avanti, al futuro.