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AMARE E LASCIARE ANDARE

Questa sono io, sono una donna, ho un nome, mi chiamo Isabel,
non mi sto trasformando in fumo, non sono scomparsa.
Mi osservo nello specchio d’argento di mia nonna: questa
persona dagli occhi desolati sono io, ho vissuto quasi
mezzo secolo, mia figlia sta morendo, eppure voglio ancora
fare l’amore.

Isabel Allende, Paula

“Non so se sto vivendo la mia vita o quella di mia figlia,” mi ha detto una volta un’amica. La mia amica era sulla cinquantina, la figlia sulla trentina – e stava attraversando una di quelle lunghe crisi amorose che tanto stressano una madre.

“È la mia vita!” non faceva che ripetere la figlia. “Restane fuori!” Ma la madre non poteva smettere di preoccuparsi. Benché avesse una ricca carriera teatrale, era ossessionata dalla vita della figlia al punto da non riuscire quasi più a concentrarsi sul lavoro. Si calmò solo quando la figlia si sposò ed ebbe un figlio.

Io non sarò mai così, pensavo. Non sarò mai tanto invadente e preoccupata, non mi chiederò mai se sto vivendo la mia vita o quella di mia figlia. Ma quando mia figlia ha incontrato qualche ostacolo lungo il cammino – disturbi alimentari e dipendenze, soprattutto – mi sono ritrovata anch’io nello stesso stato di confusione a proposito di che vita stessi vivendo. La mia vita personale scompariva, in confronto con quella di mia figlia. Di colpo, la mia vita personale non aveva più nessuna importanza.

Le madri riusciranno mai a riportare, senza sensi di colpa, l’attenzione su se stesse? Che ci vuole a una madre per farlo? Com’è? E a me, succederà mai?

“Figli piccoli, problemi piccoli, figli grandi, problemi grandi,” dice un vecchio proverbio yiddish. Ed è verissimo: quando tua figlia è cresciuta e ha problemi da adulta, spesso ti scopri a rimpiangere i semplici problemi dei bambini piccoli. È assai più facile curare la varicella di una bambina di sei anni che la storia d’amore di una diciannovenne con un uomo sposato.

I figli piccoli si possono consolare, quando hanno degli incubi; ai figli grandi invece bisogna insegnare a consolarsi da soli. Ed è dura, perché i figli grandi non vogliono i tuoi consigli su niente.

Predicozzo!” strilla mia figlia quando comincio a propinarle verità filosofiche imparate a caro prezzo – nell’accademia di polizia della vita. Lei non vuole imparare dai miei errori. Vuole sbagliare da sola. Come ho fatto io.

E il processo di separazione è infinito. I figli se ne vanno, tornano, se ne vanno di nuovo. Mia figlia per due volte se ne è andata da casa e per due volte è ritornata. Dopo aver cercato disperatamente di non assillarla con telefonate quotidiane la prima volta che è andata a vivere al college, mi sono ritrovata di colpo a vivere di nuovo con lei e a cercare di creare fra noi un rapporto con nuove regole, quando è tornata a frequentare una scuola di New York. Poi si è presa un appartamentino al Greenwich Village. Quindi si è trasferita di nuovo a casa – ma in modo talmente ambiguo, che non ha mai disfatto i suoi bagagli. Per un anno, quegli scatoloni hanno costituito la parte preponderante dell’arredamento di casa mia. Dopo di che, ha traslocato di nuovo, in un appartamento nel mio stesso palazzo.

La mia vita naturalmente non è stata speculare a quella di mia figlia. Noi eravamo tre sorelle e io ero la figlia di mezzo. Lei è figlia unica. E io sono cresciuta in un periodo molto diverso – anni Cinquanta e Sessanta. Ma mi sembra di ricordare una danza molto simile di avvicinamento-distacco con mia madre. Anch’io me ne sono andata di casa, sono tornata, me ne sono andata e sono tornata di nuovo.

Facevo il secondo anno alla Barnard quando finalmente trovai il coraggio di trasferirmi in un pensionato studentesco. (A quei tempi quasi tutti gli studenti della Barnard facevano i pendolari e il college non aveva alloggio per gli studenti.) Dopo due anni da pendolare tra Manhattan, dove abitavo, e il quartiere della Columbia University, trovai uno dei pochi posti disponibili al dormitorio degli insegnanti e mi trasferii nella mia celletta. Era una stanza deprimente, buia e con una strana puzza. Stava tra la Centoventesima Strada e la Amsterdam Avenue, e a quei tempi la sicurezza per le strade era un grosso problema. Non conoscevo nessuno al dormitorio e non ero particolarmente esperta nel farmi il bucato. L’appartamento dei miei in Central Park West era certamente più spazioso, più sicuro e aveva un odore migliore. Per di più c’era anche la cameriera. Ma ero ostinata. Non potevo ammettere di essere una viziata “principessa ebrea” americana.

Una sera mia madre mi telefonò e mi fornì l’alibi perfetto.

“La tua sorellina sente la tua mancanza,” mi disse. “Senza di te è a terra.” Mia madre era abbastanza furba da non parlare della propria tristezza. Abboccai subito all’amo, feci la valigia e mi trasferii di nuovo a casa dove il cibo era migliore, il servizio domestico impeccabile e io potevo crogiolarmi in un crescente senso di sconfitta per abitare ancora a casa dei miei a diciannove anni.

La storia andò avanti fino all’inizio dei vent’anni. Mi sposai perfino, vidi mio marito crollare per un esaurimento nervoso tanto da dover essere ricoverato in ospedale, poi tornai di nuovo a casa. Completamente traumatizzata da questa esperienza, avevo bisogno di stare un po’ a casa mentre il mio primo matrimonio veniva annullato. Me ne andai di nuovo nella mia veste di neo single, ma mi trasferii in un appartamento a solo tre isolati dalla casa dei miei. (Avevo ventitré anni e frequentavo la scuola di perfezionamento.) La separazione, lo so, non è un fatto ma un processo. E allora, perché mi aspetto che per mia figlia sia diverso?

Mia madre pare si sia adattata alla vita delle sue figlie spegnendo incendi, intervenendo nelle emergenze. Se c’era una crisi, una malattia o una nascita, lei era sempre presente. Nei momenti di sereno, reclamava la sua vita personale – la sua pittura, il lavoro e i viaggi con mio padre; disegnare bambole e ceramiche per il business di mio padre, modellare prototipi nelle fabbriche giapponesi. I viaggi in Estremo Oriente erano molto lunghi prima che i jet facessero rimpicciolire il mondo, o per lo meno la percezione che ne abbiamo. Le linee telefoniche funzionavano male. L’e-mail era ancora roba da fantascienza. I miei genitori viaggiavano e ci lasciavano coi nonni – che ci adoravano, ma erano antiquati e iper-prudenti. (Mia nonna aveva un attacco d’ansia ogni volta che andavo in bici in Central Park.) Avevo l’impressione che mia madre stesse via per mesi. Più tardi lei mi disse che non voleva che mio padre si prendesse una seconda “moglie” giapponese, come facevano molti importatori americani. Perciò si concentrava sul suo matrimonio e supponeva che le sue figlie stessero benone con sua madre e suo padre – a meno che non ci fosse qualche crisi.

Mia madre aveva talmente la fissa delle crisi che a volte sentivo di doverne creare una per attirare la sua attenzione. L’ho fatto molte volte da ragazzina e poi sui vent’anni: da un attacco di anoressia a quattordici anni, al matrimonio con un tale che si credeva Gesù Cristo a ventuno. Per essere sinceri, quando lo sposai né lui né io sapevamo che avrebbe avuto un esaurimento. Ma dopo, molti mi dissero che ritenevano il mio primo marito un tipo piuttosto carico e che non si stupivano affatto che fosse finito in un ospedale psichiatrico. Mi ero innamorata di lui proprio per questo, perché era così carico. Non avevo saputo distinguere tra intensità e follia. O anche se avevo capito la differenza, la follia era talmente affascinante per il poeta che c’era in me, che me ne sentivo più attratta che respinta. La poesia della follia mi ha sempre affascinato.

Quindi ho fatto anch’io i miei errori, e ne ho fatti parecchi. Perché mi aspetto che mia figlia impari dai miei sbagli? Nessuno impara mai niente dagli errori, a meno che non siano i propri. E alla madre tocca stare ad aspettare, rodendosi le unghie. E cercando di non chiamare due volte al giorno. Ma come diavolo si fa a spegnere l’interruttore dell’ansia materna quando una figlia se ne va di casa? Alle tre del mattino cominci a chiederti: Sarà a casa al sicuro? Ma visto che non è la tua la casa dove tua figlia ritorna, come fai a saperlo? Puoi chiamare la sua segreteria telefonica – ma allora come fai a sapere se per caso non sta a letto col suo innamorato (magari!) e nessuno risponde, oppure è morta per la strada e non tornerà mai più a casa? La tua mente salta allo scenario peggiore e devi costringerti a dominarla.

“Molly sta bene, vero?” chiedo dubbiosa a mio marito prima di addormentarmi.

“Certo, sta bene,” mi rassicura lui. (Che ne sa un patrigno?, penso io.) Sprofondo in un sonno agitato. Tutti i miei cari non stanno sotto lo stesso tetto e Mamma Orsa si agita nella caverna. Al momento dell’ibernazione, dovremmo essere tutti insieme, a dormire in un’amorosa catasta. Eppure, appena spunta il giorno voglio essere solo mamma Erica e non Mamma Orsa. Non è un’ironia della sorte?

Durante gli ultimi due anni ho desiderato intensamente riprendermi la mia vita, anche se adoravo stare vicina a mia figlia e averla per casa. Lei mi fa ridere. Mi fa pensare. Ha una mente meravigliosa, stimolante, bizzarra. La adoro, non ho difficoltà ad ammetterlo. Adesso sta scrivendo un romanzo, per cui facciamo lo stesso lavoro sotto lo stesso tetto. Facciamo ginnastica insieme tutti i giorni, verso le quattro, con un istruttore. Lei va nel mio ufficio a farsi stampare i capitoli del suo libro, a spedire fax e buste per Federal Express e a tiranneggiare la mia segretaria. La amo sempre, ma certe volte me la prendo con lei perché si impadronisce della mia vita. Mi domando come sarebbe se reclamassi la mia vita personale.

Cerco di ricordare com’era la mia vita prima che ci entrasse una persona che amo più di me stessa – e onestamente non me ne ricordo. La maternità cambia talmente le condizioni del proprio narcisismo che quasi non riesci più a ricordare com’era essere completamente assorta in te stessa. Sospetto che dovrò ricominciare a imparare a vivere solo per il mio lavoro. Dovrò imparare a lasciarmi andare alla corrente, senza stare con l’orecchio teso per sentire se squilla il telefono. Dovrò dimenticare che là fuori c’è una parte di me, che sta facendo errori diversi dai miei. Certe volte riesco veramente a staccare. Lei ha il suo Potere Superiore, penso, e i suoi angeli custodi. Afferro il telefono per chiamarla, poi riattacco precipitosamente. Voglio chiederle se è felice, ma mi mordo la lingua.

La verità è che non dimenticherò mai il legame con mia figlia. Potrò diventare un po’ più calma a proposito di Molly quando si sarà lanciata nella sua vita, ma le cose non saranno mai più come erano prima che lei nascesse. Ci sarà sempre una parte vulnerabile di me, che gira con addosso la pelle di mia figlia. Forse riuscirò a imparare a staccare la spina a poco a poco. Perché la verità è che prima o poi dobbiamo imparare a staccarci. Dobbiamo lasciare libere le nostre figlie e riprenderci la nostra libertà. Dobbiamo fingere una benevola indifferenza, anche se non riusciamo a provarla veramente. Altrimenti le nostre figlie non impareranno mai a risolvere da sole i loro problemi. E c’è una differenza tra amare qualcuno e vivere la sua vita per lei. Cercare di vivere la vita di tua figlia, non è un dono. È una specie di morte.

Una volta ho conosciuto una ragazza ebrea, figlia unica di due genitori sopravvissuti all’Olocausto, che erano talmente coinvolti nella sua vita, che la poverina finì per convertirsi al cattolicesimo e farsi suora. Il che sarebbe andato benissimo se lei fosse stata veramente appagata dalla vita contemplativa, ma so che è entrata in un Ordine molto severo che le impedisce anche di vedere i genitori. Questo mi fa supporre che i motivi della sua vocazione non siano stati solo spirituali. Ecco dove può condurre l’eccessiva ingerenza dei genitori. Io non voglio arrivare a tanto. Prego di riuscire a lasciarla andare, prima che mia figlia mi debba tagliare la mano!

Uno dei più bei libri che abbia mai letto è Paula, di Isabel Allende, una specie di meditazione rivolta a una figlia che sta morendo di una rarissima malattia. In questo contesto tragico, gli stadi di amare e lasciare andare sono ben evocati da una madre che siede al capezzale della figlia morente. Noi dobbiamo imparare il distacco mentre le nostre figlie sono ancora vive. Anche se possiamo ringraziare ogni giorno Dio che ci sia stata risparmiata la tragedia della Allende, non per questo il distacco per noi è più facile. È l’estremo compito spirituale di tutti i genitori, di tutta la gente. Lo impariamo a fatica, ammesso che lo impariamo.

Per me questa è la prossima sfida della vita: imparare ad amare Molly, ma imparare anche a lasciarla andare. L’interazione tra madre e figlia è così delicata, che molte di noi non sono pronte a lasciare andare finché non sono certe che le figlie siano in qualche modo al sicuro, salve. Ora capisco la mia amica che pensava di stare vivendo la vita di sua figlia. Che siamo pronte o no, dobbiamo lasciarle andare, queste figlie.

Già mi vedo un giorno lontano diventare serena a proposito di Molly e riuscire a occuparmi prima di tutto delle mie esigenze personali. Già ci sto provando. Per amore suo e mio. Spero che non mi ci voglia tutto il resto della vita.

Mia madre, per parte sua, ha cominciato a chiedermi: “Sei felice?” Non me l’aveva mai chiesto prima. Non me l’ha mai chiesto quando avevo poco più di vent’anni e mi sono sposata con un pazzo. Non me l’ha mai chiesto quando ne avevo ventotto, mi sono sposata con uno psichiatra e ho scritto Paura di volare. Non me l’ha mai chiesto quando a trentatré anni ho divorziato e mi sono risposata. Nemmeno quando è nata Molly, non me l’ha mai chiesto. E quando ho fatto il genitore single per dieci anni, neanche. E invece adesso, che mi vede produttiva e felice al mio quarto matrimonio, adesso che sto cercando di staccarmi con amore da una figlia che ha quasi vent’anni, mia madre mi fa la domanda più intima che ci sia.

Credo che me lo chieda perché sa che la risposta è “sì”.