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UNA FACCIA NUOVA PER IL 2000

I chirurghi devono stare molto attenti
quando usano il bisturi!
Sotto le loro sottili incisioni
si agita il colpevole: la vita!

Emily Dickinson

“La gioventù è sprecata con i giovani,” pare abbia detto George Bernard Shaw. Effettivamente quando abbiamo un visetto fresco e tenero, abbiamo la tendenza a essere orribilmente duri con noi stessi. A cinquant’anni, siamo più disposti a perdonare. Proprio quando la carne non perdona.

Mi guardo allo specchio e vedo la mascella di mio nonno cominciare ad affiorare dove un tempo c’erano le mie guance tonde e rosee. Colgo di sfuggita la mia sagoma nel riflesso della vetrina di un negozio e vedo mia nonna. Che insulto, questa metamorfosi, che arriva proprio quando mi sento più libera di quanto mi sia mai sentita. Proprio adesso che mi sento ogni giorno più giovane, perché devo apparire più vecchia?

“Faremo solo un ritocchino qui e un altro qui,” mi dice il primo chirurgo plastico che consulto. E mi sfiora delicatamente la pelle floscia del collo. “E poi le assottigliamo un po’ il naso,” dice il secondo. “E le rialziamo la fronte,” dice il terzo. Per cinque anni corro da un consulto all’altro. Non voglio sapere quello che può fare il bisturi. Mi adatterò alla mia faccia, la accetterò come Dio ha deciso che sia. C’è qualcosa di strano e di macabro nel ritoccarsi la faccia come fosse un abito vecchio. Sono affezionata alle mie rughe e ai miei solchi. Me li sono guadagnati. Perché rinunciare alle insegne di una vita vissuta intensamente?

Non credo che le donne vadano definite in base al loro aspetto, che vecchiaia sia uguale a bruttezza e che gioventù e bellezza siano sinonimi – e allora perché dovrei cambiarmi la faccia? Lei continua a invecchiare, e io continuo a cercare di adattarmici.

Ma poi arriva un’amica dalla California con un viso nuovo. Niente più rughe sulla fronte, niente più pieghe amare intorno alla bocca, e anche l’umore ha subito un lifting. Prendo appuntamento con questo mago di San Francisco.

Ancora mi risulta difficile credere di aver preso un aereo e fatto un volo di 3000 miglia, di essermi sdraiata sul lettino nello studio di uno sconosciuto e di essermi lasciata tagliuzzare come un agnellino pasquale. L’ho fatto d’impulso – anche se appena sveglia dall’anestesia, ero sicura di aver fatto un terribile sbaglio. Mi sentivo la faccia come una maschera incollata addosso da un genio cattivo. Avevo dei segni bluastri sotto gli occhi. Dubitavo di tutto. Ero convinta che insieme alle rughe mi fosse stata asportata anche la capacità di scrivere – anzi, perfino quella di pensare.

Per tutta la vita mi sono distinta per la mia iperattività, e adesso ero costretta a stare immobile. Mi sentivo come morta. Mi sentivo come se fossi entrata in un bardo tra un’esistenza e l’altra. Me ne stavo seduta ad aspettare che mi guarisse la faccia, ad aspettare di ridiventare me stessa, di spezzare l’incantesimo che mi soggiogava.

Altre donne passate attraverso lo stesso intervento non si sentivano in questo modo. Erano raggianti, felici di essersi liberate delle rughe – cos’avevo io che non andava? Avevo la sensazione di avere trasgredito una legge morale e che per questo sarei stata orribilmente punita.

Avevo sempre sentito uno scarto tra il fatto di essere un’intellettuale e voler essere carina. Avevo la sensazione che non fosse permesso avere tutt’e due le cose. Da adolescente carina avevo cercato di nascondere la mia grazia sotto la ciccia, poi sotto una furiosa anoressia che mi fece fiorire la pelle in una serie di foruncoli e mi procurò occhi infossati e cerchiati di rosso. Odiavo il mio corpo – lo odiavo grasso e lo odiavo magro. Anzi, non riuscivo a distinguere tra i due. Mi sentivo debordante di ciccia quando ero tutt’ossa. Il mio cervello confondeva la percezione del mio corpo. Non avrei saputo dire che aspetto avevo. Magro era virginale e grasso era puttanesco, e io oscillavo tra questi due poli, incerta su cosa sembrassi o chi fossi.

Il lifting facciale ridiede vita a queste sensazioni adolescenziali, e la cosa mi atterriva. Continuavo ad aspettarmi di guardare nello specchio e di trovarci un’altra persona. Per quante volte mi guardassi, non riuscivo a credere a quel che vedevo. Era come se mi aspettassi di vedermi spuntare sulla fronte il marchio “V” per vanità.

Il fatto che migliaia di uomini e donne facciano normalmente il lifting non mi consolava. Dovevo trovare la mia giustificazione personale per aver sfidato il destino, e non ci riuscivo. Mi sentivo come la principessa Langwidere di Oz che si toglie una delle sue trenta teste e se ne mette un’altra per evitare la responsabilità delle atrocità che la testa appena smessa ha compiuto. Avevo la sensazione di essere in qualche modo sfuggita al mio destino, che mi avrebbe comunque riacciuffata.

Da alcuni anni faccio collezione di maschere veneziane: soli, leoni, clown, dei del vento, lune, fiori adornano le pareti del mio studio. So che mi piacerebbe nascondermi dietro varie maschere – proprio io che volontariamente mi denudo per i miei lettori. Mi rendo conto che questa nudità è costata un prezzo terribile, e che a volte mi sento come se non avessi un luogo in cui nascondermi e che la mia vita è diventata un libro talmente aperto che spesso vorrei poter rinunciare a scrivere e trovarmi un altro mestiere. Ma siamo come stregati dalla nostra vocazione – se viene dal cuore. Uno scrive non per volontà, ma per rassegnazione.

Quindi devo rassegnarmi anche alla mia nuova faccia. Non è poi tanto diversa dalla vecchia, ma ha le sue esigenze. La fronte è più morbida e meno segnata. Non c’è grasso sotto il mento e non ci sono borse sotto gli occhi. Non è una faccia giovane, ma una faccia nuova. È una luna su cui non è stato ancora scavato nessun cratere.

Adesso che è finita, mi torturo immaginando l’intervento. Non l’ho fatto prima. Mi hanno fatto un taglio sulla cima della testa. Mi hanno scalzato lo scalpo dal cranio. Mi hanno sollevato gli occhi col filo nero. Assaporo tutti i particolari macabri.

Il medico è molto soddisfatto della sua opera. Si compiace per la mia rapida guarigione e per la mancanza di cicatrici visibili. È auto-compiacimento.

Certo fuori non ci sono cicatrici, sono tutte dentro. Il mio viso sembra impeccabile, la mia anima è un rappezzo solo.

Cosa provava Dorian Gray davanti al suo ritratto segreto? Quel che provo io davanti all’altra mia faccia. Mi aspetta inesorabilmente, anche se non la si vede. È il mio destino. Nessun chirurgo potrà mai farci niente.

Che codice morale ho trasgredito, per sentirmi così in colpa? Vorrei allontanarmi dalle mie coetanee e avere di nuovo ventinove anni, sapendo quello che so oggi. Mi piacerebbe avere questo vantaggio sulle altre ventinovenni. Io so dove porta la strada, e loro no: sapere dove porta la strada elimina in parte la sventatezza, l’incoscienza. Posso avere la faccia della gioventù, ma ho la prudenza della mia età. Prima di saltare, guardo. Mi chiedo se mi cascherà la faccia.