Piangi e piangerai solo! Che bugia! Piangi e troverai mille
coccodrilli pronti a piangere con te. Il mondo è un piagnisteo unico.
Il mondo è zuppo di lacrime... Ma la gioia, la gioia è una specie
di emorragia estatica, una disgraziata specie di contentezza
che trasuda da tutti i pori del tuo essere. Non puoi rendere felice
la gente semplicemente essendo felice. La gioia deve essere generata
da noi stessi. La gioia si basa su qualcosa di troppo profondo
per essere compreso o comunicato. Essere felici è essere pazzi
in un mondo di malinconici spettri.
Henry Miller, Sexus
Noi tutti, se siamo onesti, sappiamo che l’arte è un peto in faccia a Dio. Solo l’artista dell’establishment, la cui opera esiste principalmente per giustificare le ingiustizie dello statu quo, si illude di essere simile a Dio. Il rinnegato, l’eccentrico, il ribelle, l’Henry Miller, il Petronio, il Rabelais, il Blake, il Neruda, il Whitman, sa che quel che rende valida la sua opera è in parte la sua criminalità. Se a un certo punto non è stato messo al bando, bruciato, privato del suo sostentamento, maledetto dagli accademici, denigrato da autoeletti custodi dell’arte, allora sa di avere fatto qualcosa di sbagliato.
Henry Miller era un criminale di questo genere.
In fondo alla sua carta da lettera c’era stampata questa frase: “Quando la merda diventerà preziosa, i poveri nasceranno senza buco del culo.” Su altri fogli c’era la seguente citazione di un suo amico. “Henry, a volte mi capita di dover dormire in macchina... ma quando devo cagare, vado al Beverly Hills Hotel.”
Se Henry usava tanto spesso la parola “merda” è perché nessun altro termine esprimeva altrettanto bene quel che lui pensava del mondo. Ma la parola diventava pulita nella sua bocca. Lui purificava l’escremento della vita e lo tramutava in petali di rosa. “Voglio una purezza classica,” disse una volta, “dove il letame sia letame e gli angeli siano angeli.” Lui sapeva che gli angeli non possono essere angeli senza letame, che un mondo di angeli sarebbe un mondo privo di letteratura.
Quelli che lo criticavano – coloro che alla fine gli hanno negato un posto nel pantheon dei poeti – in parte reagivano senza saperlo ai timori che la sua onestà destava in loro. Come Swift, frustava il mondo per ricondurlo alla ragione. Come Swift, amava con tutto il cuore il genere umano, un ingenuo che fingeva di essere cinico. “Un semplice ragazzo di Brooklyn...” diceva spesso di se stesso.
A volte ho pensato che i critici che odiavano Henry soffrissero di invidia scopatoria. Pareva che lui passasse tanto tempo a fottere, e a fottere senza il minimo senso di colpa! Come poteva non essere invidioso chi era eternamente in preda ai sensi di colpa? Ma anche nelle sue scopate, Henry era un letterato. Il mio ex marito Jonathan Fast una volta gli chiese se avesse mai veramente chiavato una donna con una carota, e lui si mise a ridere fragorosamente e disse di no – anche se ha sempre sostenuto che i suoi libri erano autobiografici, non romanzi.
Qui non sono d’accordo con lui. L’Henry Miller dei romanzi è sicuramente un personaggio da commedia, un picaro, un avventuriero, un eroe alla ricerca del Santo Graal.
“Cos’è un eroe?” scrisse Henry una volta. “Essenzialmente uno che ha vinto le sue paure.” E nel personaggio Henry Miller, il vero Henry Miller, ha creato un alter ego senza paure, impavido, uno che non ha mai fatto cilecca davanti a una fica, non s’è mai afflosciato, non è mai venuto meno, non ha mai deluso. Come l’eroe antico era impavido in battaglia, l’eroe moderno deve esserlo a letto. Perciò la nostra sfera d’azione eroica si è ridotta da un prato a un materasso!
L’impavido eroe che Henry Miller impersonava era spesso il suo opposto. Anaïs Nin ci ha descritto la paura di Henry di viaggiare, il suo fastidio per gli spostamenti e la sua estrema dipendenza da lei... e dalle altre donne della sua vita. Ho sempre pensato che la sua incarnazione di Braveheart (o Bravecazzo) derivasse dalla sua grande insicurezza. Ingannava il mondo così bene che quasi riusciva a ingannare anche se stesso.
Henry Miller ammirava i guru e i saggi ancora più di quanto ammirasse i poeti e i pittori. E inoltre sapeva che la caratteristica fondamentale di un saggio è l’allegria. Sarebbe stato d’accordo col verso di Yeats che dice: “I loro antichi occhi sprizzavano allegria.” E così furono anche gli occhi di Henry – anche quello cieco -, fino alla fine.
Me lo immagino cantare osanna sul suo letto di morte e borbottare col creatore del cosmo. La sua morte fu sicuramente un sollievo auspicato, di cui amici e famigliari si sono rallegrati. So che anche lui se ne è rallegrato. Intrappolato dentro un corpo sofferente e malato, era peggiorato di anno in anno. Avrebbe meritato di meglio d’una carne tanto fragile, ma anche nella sua morte Henry non ci ha lasciato.
L’ho conosciuto quando era già vecchio – conosciuto attraverso la letteratura, non nella vita. Benché non leggesse mai i suoi contemporanei (eccetto Singer), benché i suoi detrattori dicessero che era sessista e antisemita, benché fosse cieco da un occhio e si stancasse in fretta, venne convinto da un amico a leggere Paura di volare, e la sua reazione fu un diluvio di applausi, di entusiasmo e di pubblicità gratuita. Molti miei editori esteri sono stati un dono del suo entusiasmo.
Era uno degli scrittori più generosi che abbia mai conosciuto (e ne ho conosciuti un paio che, nella loro generosità, hanno smentito la regola generale che gli scrittori odiano i colleghi a meno che non siano morti e quindi inoffensivi). Henry scriveva instancabilmente a editori tedeschi, francesi, giapponesi, olandesi per conto mio. Senza che nessuno gli avesse chiesto di fare niente, lui faceva tutto – da scrivere una prefazione all’edizione francese del mio libro a scrivere un saggio sul mio romanzo sulla pagina degli editoriali del New York Times (un saggio in cui la parola “arrapato” aveva dovuto essere cancellata come “inaccettabile” per un “giornale per la famiglia”).
Ero confusa da tanta cortesia. Ogni giorno arrivavano lettere – scritte a pennarello nero su fogli gialli di bloc-notes, oppure sulla sua carta da lettera, con quel curioso aforisma stampato in basso. Le mie risposte sulle prime erano un po’ rigide, impacciate. Non riuscivo a contenere l’eccitazione che una leggenda vivente scrivesse proprio a me! Mi sentivo intimidita. Ma le lettere di Henry erano così sciolte e spontanee che si doveva rispondere a tono. Avendo liberato se stesso, Henry riusciva a liberare tutti quelli che toccava: era il suo grande dono. E quando mi recai in California, dovetti assolutamente andare a trovarlo.
Ci andai in uno dei periodi più belli e terribili della mia vita. Un matrimonio precoce che finiva, una promessa riduzione cinematografica del mio primo romanzo che si trasformava in un crepacuore, la fama improvvisa che mi spaventava e mi affascinava. La casa di Henry a Pacific Palisades divenne per me un rifugio in questo vortice. A tavola, a cena a casa sua, sentendolo parlare di Cendrars, Picasso, Brassaït, John Cowper Powys, Marie Corelli, Gurdjieff, Knut Hamsun, Lawrence Durrell e Anaïs Nin (e Isaac Singer, che lui – come me – ammirava più di qualsiasi altro scrittore vivente) mi sentivo al sicuro, protetta anche nella Città degli Angeli Perduti.
Quando lo conobbi, nel 1974, Henry era un uomo fragile. Solo raramente permetteva a me e ai suoi amici di portarlo fuori a cena – di solito agli Imperial Gardens, un decrepito ristorante giapponese sulla Sunset Strip, che era il suo preferito a Los Angeles. Ma quasi sempre era Twinka Thiebaud, la persona che cucinava e si prendeva devotamente cura di lui, a prepararci la cena a casa, e Henry teneva banco davanti al gruppo dei suoi ospiti. La sua casa era sempre piena di giovani, spesso c’erano anche i suoi ragazzi, Valentine e Tony, e Henry nutriva tutti quanti – come un tempo, a Parigi, qualcuno aveva nutrito lui. Negli ultimi mesi (quando io mi ero già trasferita nel Connecticut) circolava la voce che un paio di quei ragazzi potesse averlo sfruttato. Ma quando lo conobbi, all’inizio dell’autunno, Henry stava ancora abbastanza bene da poter scrivere a letto, da presentarsi alle nostre garrule cene; quando poi si stancava, veniva riportato in camera sulla sedia a rotelle, a brancicare le sue visitatrici nubili, anche se non (sosteneva sempre lui) a scoparle. Ha vissuto i suoi ultimi anni (come mi ha scritto in una lettera) immerso nelle più deliziose fantasie erotiche. Di tanto in tanto allungava una toccatina – non ai miei seni. Non ero il suo tipo fisico (lui adorava le donne asiatiche e piccole) o forse pensava che fossi troppo libresca, visto che faceva sempre notare quanto letterata fossi.
Henry amava veramente le donne, ma le amava più per le creature immaginarie che plasmava attraverso di loro che per quello che erano realmente. Era un vero romantico anche nella sua ribellione al romanticismo. Come molti romantici, spesso non vedeva le persone con assoluta chiarezza. Amava o odiava. Quando il suo amore veniva meno, ripudiava spesso l’oggetto dell’amore in modo totale. Quando moriva un amico, smetteva di pensare a lui. Sosteneva di non aver mai pianto la morte di nessuno. Viveva nel presente più pienamente di chiunque altro abbia mai conosciuto. Per questo solo, splendeva sugli altri come un’anima illuminata.
Ma odiava la sua fama di pornografo e, suo malgrado, bramava la rispettabilità letteraria. Accettò la Legione d’Onore con prevedibile ironia, ma con imprevista gratitudine e ogni anno concupiva il Premio Nobel. Tutti gli anni, dietro sua pressione, amici e discepoli lo raccomandavano alla giuria del premio. E ogni anno la fabbrica di dinamite del signor Nobel lo ignorava.
Quando un editore ebbe la temerarietà di proporre che Henry ed io collaborassimo a un libro che si sarebbe dovuto intitolare, poco spiritosamente, A Rap on Sex, “Rapporto sul sesso” (una specie di pendant al libro di Margaret Mead e James Baldwin, intitolato A Rap on Race, “Rapporto sulla razza”), Henry gli scrisse: “In primo luogo io non sono un esperto, come lei mi definisce, e in secondo luogo, per quanto redditizia possa essere, questa idea ha qualcosa che mi puzza.”
Anch’io pensavo che l’idea puzzasse, ma non avevo ancora il coraggio di scrivere una lettera così decisa a un editore. Già, A Rap on Sex. Il titolo di questo libro mai scritto, compreso l’inconsapevole gioco di parole, oggi sembra più datato del titolo di un libro di Marie Corelli – che fra l’altro era la scrittrice preferita della regina Vittoria, oltre che di Henry Miller.
Le sue contraddizioni erano molte. Vittoriano e bohémien, schnorrer, cioè “scroccone”, e benefattore, guru sessuale e inguaribile romantico, creava donne con penna e inchiostro (e spesso acquerello). Ha forse inventato anche le sue autobiografie? In un certo senso, sì. In un certo senso, noi tutti inventiamo la nostra autobiografia. Era più “affabulatore” di quanto non volesse ammettere – anche se la parola lo avrebbe fatto vomitare. Era “un semplice ragazzo di Brooklyn, non lo sapete?”, e se è stato la grande forza che ha liberato la letteratura (stavo per scrivere liberatura) nella nostra era, lo sapeva con le viscere ma non con la mente. Cercava disperatamente il pubblico riconoscimento del suo genio, e nella ricerca di questo riconoscimento ha dato troppe interviste e ha intrattenuto troppi imbroglioni. Così sono anche le anime illuminate quando vengono sedotte dal desiderio di riconoscimento! Che gli sia stata negata questa gioia finale ci dà la misura non solo della malignità dei soloni della cultura ufficiale, ma anche della grandezza di Henry. Fino alla morte Henry ha avuto la forza di scioccare gli ipocriti, i deboli di cuore e le mezze cartucce del mondo letterario.
Spero che tu abbia il Premio Nobel in cielo, Henry, e che ti arrivi fin lassù con un bello scoppio di dinamite.