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CREATIVITÀ CONTRO MATERNITÀ

... seduto al tavolo, pensando al libro che ho scritto, un bambino
che ho portato per anni e anni nel grembo
dell’immaginazione come tu hai portato nel grembo
i nostri figli che ami.
..

James Joyce a Nora Joyce

Solo un uomo (o una donna che non sia mai stata incinta) può paragonare la creatività alla maternità, la gravidanza alla creazione di un romanzo. Il paragone tra gestazione e creatività è diventato una metafora convenzionale, che si dice senza nemmeno riflettere, come tutte le vecchie metafore che si usano nel linguaggio quotidiano (tipo “il braccio della legge”, “la gamba del tavolo” ecc.), ma è assolutamente inesatta.

Anche se spesso l’idea per una poesia o per un romanzo arriva come non richiesta, come un dono della musa, e anche se in alcuni rari momenti si può arrivare a scrivere quasi automaticamente, come dominati da un angelo che fa scorrere la penna sulla pagina, più spesso la creazione letteraria è solo pura fatica, assai diversa dallo sviluppo di un bambino nel grembo, che va avanti a dispetto della volontà consapevole della donna ed è un vero miracolo di Dio. Non sembra quasi appartenere alla singola donna, che offre il luogo per farlo accadere. Lo sviluppo del feto nel grembo materno è il trionfo del DNA, il trionfo dei geni, il trionfo della specie. La donna il cui corpo è il luogo in cui avviene questo miracolo risulta solo temporaneamente usata dalla specie, nella comune volontà di sopravvivenza.

La scrittura di un libro può essere vista come se la musa stesse operando attraverso la voce, la mano e la volontà del singolo scrittore, ma quel singolo scrittore deve faticare molto duramente per essere il degno veicolo della musa. La musa è una padrona esigente, e toglierà i suoi favori all’artista pigro, sciatto o incline all’autocommiserazione. La natura, al contrario, è indulgente. Ogni grembo, ogni donna può essere il veicolo per la continuazione della specie. Non è nemmeno necessario il consenso: bastano un grembo sano e la volontà di non distruggere deliberatamente il feto.

Quanto è più passiva la gravidanza della creatività! La creazione abbisogna di una volontà attiva e consapevole; la gravidanza richiede solo la mancanza di cattiva volontà. Forse la tendenza a paragonare le due cose nasce dall’antico desiderio dell’artista che la creatività fosse naturale, facile e inconsapevole come la creazione del feto. O forse il desiderio di paragonare le due cose da parte dell’artista maschio nasce dalla sua invidia per la capacità femminile di creare la vita. Ma come molte forme di invidia, anche questa è inutile. Sarebbe come invidiare il colibrì perché sa stare immobile nell’aria, o la sogliola per avere due occhi dalla stessa parte della testa. Quali che siano le gioie della gravidanza (e sono molte), non sono le gioie della consapevolezza. La gravidanza forse piace tanto alle donne intellettuali proprio per questo.

Per me, almeno, è stato così. Per tutta la vita, finché non sono rimasta incinta, avevo diffidato del mio corpo e avevo sopravvalutato la mia mente. Avevo cercato il massimo controllo sul mio corpo. Non sono mai rimasta incinta, nemmeno “accidentalmente”, se non dopo il mio trentacinquesimo compleanno, dopo aver passato un anno o più a desiderare la gravidanza e a cercare di restare incinta. Prima di allora, temevo la gravidanza come una perdita di controllo sul mio destino. Immaginavo la morte durante il parto, la morte della mia creatività durante la gravidanza, temevo l’alterazione del mio corpo in qualcosa di mostruoso, la perdita dell’intelligenza attraverso qualche misterioso sabotaggio ormonale, la perdita dell’energia, della creatività, e dell’avvenenza.

Ma avrei dovuto sapere che il Signore del creato non è certo uno stupido – ed è successo esattamente il contrario. Per la prima volta nella mia vita, riuscivo a controllare il mio peso senza fatica; il viso mi si era assottigliato, la pelle era diventata più chiara e gli occhi erano più luminosi. Non mi sono mai sentita male o priva di energia. Durante la gravidanza, ho lavorato sodo ai miei libri, come mai in vita mia. Anzi, lavoravo con maggiore costanza. Ho scritto un libro intero di poesie; ho continuato a lavorare a un romanzo che avevo cominciato un anno prima di restare incinta, e ho perfino fatto un estenuante tour di promozione per un libro al quinto e sesto mese di gravidanza. Certo lavoravo tanto anche per sfatare il mito che le donne incinte sono in qualche modo inabili (o anche “troppo appagate” dallo sboccio della vita dentro di loro per aver bisogno del lavoro creativo), ma si trattava soprattutto del fatto che mi sentivo meravigliosamente bene e completamente me stessa (ora che non ero più rosa dall’ansia di non poter avere figli). Qualunque cosa la gravidanza “appagasse” dentro di me (e non sottovaluto affatto l’appagamento) era comunque di tipo completamente diverso dall’appagamento che cerco attraverso il lavoro creativo.

La gravidanza è stata particolarmente bella per me, credo, perché era un’affermazione della vita per una romantica che, come molti romantici, aveva un tempo adorato la morte. A venticinque anni, volevo “farla finita a mezzanotte senza dolore” con Keats e Sylvia Plath, ma a trentacinque avevo smesso di adorare i poeti morti di tubercolosi o suicidi, e volevo dimostrare a me stessa che anche donne e poeti potevano sopravvivere. Era il passaggio dall’infatuazione per i martiri al rispetto per i sopravvissuti, dall’adorazione della malattia all’affermazione della salute. E avere una gravidanza facile e perfetta era un modo di dire a me stessa che il nucleo segreto del mio corpo era sano e poteva dare la vita non solo a me stessa ma anche agli altri.

Dall’Ottocento in poi, artisti e intellettuali della nostra società hanno adorato la malattia, come se fosse la malattia a propiziare l’arte e non l’arte a dare un momentaneo sollievo alla malattia. Si tratta di un’infelice eredità del secolo del romanticismo. E implica anche che la mente può essere nutrita solo a scapito del corpo; il contrario della ricerca classica di “mente sana in corpo sano”. I critici a volte accusano gli artisti di essere troppo prolifici, come se la creatività fosse una sostanza concreta, una specie di riserva naturale che può esaurirsi se sfruttata in modo sconsiderato. In realtà, è vero il contrario. Tanto la creatività quanto la salute si auto-ricaricano: più vengono usate, più si rigenerano e fioriscono.

La salute fisica e la creatività artistica erano considerate caratteristiche complementari e non antitetiche dai greci e dai romani, ed è stato solo quando il flagello della carne ha cominciato a essere ritenuto un bene spirituale dalla chiesa cattolica medioevale che abbiamo cominciato a spostarci verso l’atteggiamento moderno secondo il quale la mortificazione della carne favorisce in qualche modo i poteri creativi della mente. La venerazione ottocentesca per i poeti suicidi o morti di consunzione, per gli scrittori alcolizzati e pazzi, è il risultato distorto dell’idea medioevale che la mente può prosperare solo a scapito del corpo.

Le donne ricevono una duplice eredità di sfiducia nei confronti del corpo. Primo, condividono il retaggio storico cristiano occidentale che impone la castità e la mortificazione della carne come requisiti indispensabili per la vita spirituale. Ma ereditano anche l’atteggiamento primitivo della chiesa medioevale verso la femminilità, la procreazione e il corpo femminile. Per un’artista donna, la scelta di robustezza fisica unita alla fertilità creativa è stata particolarmente oberata di difficoltà pratiche di ogni genere. Tendiamo a dimenticare che, fino all’avvento di un affidabile controllo delle nascite (risalente meno di un secolo fa), la gravidanza non era facoltativa per la donna. A parte la deliberata astinenza o la sterilità accidentale, la gravidanza era troppo coercitiva per essere vissuta come una scelta. Ma anche dopo l’avvento del controllo delle nascite, complesse forze sociali e psicologiche cospiravano per indurre tutte le donne, a parte le più inflessibilmente individualiste, a sposarsi e avere figli per la maggior parte della loro vita adulta. La gravidanza difficilmente poteva essere considerata un’affermazione di vita e di salute, quando era così coercitiva, così irta di pericoli per la madre e per il bambino, e così regolare. Spesso la gravidanza annunciava la fine di altri tipi di creatività. Il fatto che molte donne artiste evitassero come la peste la gravidanza e poi parlassero dei propri libri o dei propri quadri come dei loro “figli” non deve quindi stupirci gran che.

Io appartengo a una delle prime generazioni di donne artiste per le quali la gravidanza non è coercitiva. A dispetto delle pressioni psicologiche verso la maternità che ancora esistono, per non parlare delle diffuse minacce alla libertà di riproduzione, io e le mie coetanee siamo libere di guardare alla maternità in modo completamente nuovo.

Jane Austen e George Eliot non hanno avuto possibilità di scelta. E anche Edith Wharton e Virginia Woolf non potevano realmente considerare la gravidanza come una scelta. Il mandato della femminilità vittoriana era troppo vicino e troppo spaventoso. Ai tempi della Wharton e della Woolf, l’unico modo per la donna artista di combattere lo stereotipo femminile vittoriano di “angelo del focolare domestico” era fare il diavolo a quattro, oppure dire che i libri erano i loro figli.

Per anni sono stata fermamente decisa a non avere figli, perché le scrittrici che più ammiravo avevano evitato la maternità. Se la mancanza di figli era andata bene per Jane Austen, Emily Dickinson e Virginia Woolf, doveva andare bene anche per me. Eppure il desiderio di un figlio mi rodeva. Nelle mie poesie ricorrevano spesso immagini di parti, di nascite. E proprio perché avevo tanta paura della gravidanza, ne ero attratta. Nella mia vita, ero andata avanti solo cercando sempre di fare la cosa di cui avevo più paura. Avere un figlio mi pareva un rito di passaggio che sarei stata una codarda a evitare. Che senso aveva aver superato l’intera incarnazione in un corpo femminile senza mettere alla prova tutte le sue potenzialità? Sarebbe stato come essere incarnata in un uccello senza mai volare. Eppure continuavo a esitare. La gravidanza aveva sempre chiesto un prezzo troppo alto alle donne. Aveva sempre significato mettere a rischio le cose di cui una scrittrice ha più bisogno: pace, silenzio, mancanza di interruzioni. Aveva significato diluire passioni che dovevano essere forti e intatte per il proprio lavoro. La minaccia non sembrava venire solo dalla fatica della gravidanza, ma anche dalle sue gioie. Quanto più sono belli e deliziosi, tanto più i bambini ti distraggono. E poi mi ci erano voluti anni per liberarmi del senso di colpa che provavo verso gli uomini della mia vita quando mi chiudevo nella mia stanza a scrivere. Come avrei potuto affrontare il senso di colpa suscitato da una creatura che avrebbe avuto veramente bisogno di me per la sua sopravvivenza fisica?

Naturalmente non era possibile risolvere in anticipo tutti questi problemi. Dovevo buttarmi e trovare le risposte dopo. Dovevo rinunciare al mio eterno bisogno di illusione, di controllo. Il controllo del futuro è comunque illusorio, dato che il futuro frustra sempre i nostri piani più accurati. Arrivai quindi alla conclusione che qualunque cosa andasse perduta introducendo questo elemento di incertezza nella mia vita sarebbe stata più che ripagata dalle nuove esperienze e dalle nuove intuizioni che avrebbe portato. A trentacinque anni sapevo che l’arte non può esistere senza la vita. Tanti artisti che hanno cercato di limitare la propria vita (nella speranza di escludere gli ostacoli e le interruzioni) hanno finito per non avere niente di cui scrivere.

Ho cercato di gestirmi i pro e i contro come meglio potevo. Non sono rimasta incinta finché non ho trovato un uomo che credevo volesse realmente dividere con me la crescita di un bambino e ho aspettato il periodo della mia vita in cui avessi abbastanza denaro per farlo. Se sia stato per vigliaccheria o per prudenza, non saprei davvero dire. So solo che ho fatto l’unica cosa che potevo fare in quel momento. Nei primi trentacinque anni della mia vita scrivere era stato più importante di ogni altra cosa, e non volevo rischiare nessun tiro del fato che potesse mettere in pericolo la mia traballante fiducia in me stessa come scrittrice. Mi ci erano voluti anni per formarmi l’abitudine di scrivere, e non intendevo rinunciare a quella necessaria meditazione quotidiana. Le donne che mettono al mondo figli prima di avere stabilito una seria consuetudine di lavoro rischiano di non riuscire a crearsela mai, per quanto agiate possano essere le loro condizioni economiche. Essendo state definite primariamente come madri, possono non essere più in grado di vedersi in un’altra luce e le esigenze dei loro figli possono annullare le necessità dei loro libri.

So soltanto che sono grata di essere nata in un momento in cui era possibile per la donna rimandare la gravidanza fino a quando gli altri suoi schemi di vita non erano saldamente stabiliti. Dobbiamo riconoscere che per molti versi questo per le donne è il momento migliore nella storia del mondo. La discriminazione contro di noi è sempre rampante e virulenta. Considerando gli ostacoli concreti che impediscono a molte di noi di svolgere un lavoro creativo, la cattiveria con cui sovente esso viene accolto è come minimo criminale. Ma il fatto che possiamo scegliere quando e come avere figli ha migliorato la nostra vita a un livello impensabile per migliaia e migliaia di generazioni silenziose, operose e laboriose di donne. Il solo fatto che nessuna generazione prima della nostra sia mai stata veramente nella posizione di sfidare la menzogna che creatività e maternità siano una sola identica cosa ci rende estremamente privilegiate. E questo privilegio si basa quasi unicamente sul fatto che la maternità resti una scelta. “Scelta” è la parola chiave di ogni libertà – anche della libertà di riflettere seriamente sul significato della gravidanza e del parto. Finché la maternità è stata regolare e coercitiva, le donne non potevano considerare la maternità onestamente, e gli uomini non potevano fare a meno di idealizzarla.

Credo che non abbiamo mai veramente considerato le implicazioni del fatto che quasi tutta la letteratura sulla gravidanza e la nascita sia stata scritta o da uomini o da donne che avevano rinnegato la maternità per dedicarsi al lavoro creativo. Anche dopo che le donne hanno cominciato a essere madri e scrittrici allo stesso tempo, si sono spesso rifiutate di scrivere direttamente di queste esperienze, per timore della critica chauvinista maschile (“Non mettetevi le ovaie all’occhiello”) o per paura di sembrare banali. Gravidanza e parto venivano spesso considerati argomenti minori, sciocchi e “femminili”. Le donne scrittrici che aspiravano alle vette del Parnaso spesso sdegnavano questi argomenti, come i mentori maschili avevano insegnato loro a fare. Così la menzogna che creatività e maternità fossero in qualche modo intercambiabili continuò indisturbata per generazioni. Anche ai giorni nostri, non la si è studiata abbastanza.

Né le donne che hanno rifiutato la maternità per scrivere libri, né gli uomini che avevano una moglie che metteva al mondo i figli per loro erano in grado di esplorare la terra incognita della gravidanza e del parto. Gli uni e le altre erano parti in causa prevenute, partigiani del partito della sterilità. Anche le donne che avevano figli perché era un fatto inevitabile non possedevano la forza di esaminare il loro destino. Intrappolate prima dal loro stesso corpo, poi dalla società, come potevano non sentirsi furiose per la propria impotenza, per quanto amassero i figli che procreavano?

Ora ci troviamo a un bivio anche letterario, reso possibile solo dal fatto che la gravidanza è diventata una scelta. Tutti gli sforzi per revocare questa possibilità di scelta devono essere considerati sforzi per riportare le donne alla rabbia silenziosa dalla quale sono appena emerse. Quali incredibili meraviglie conterrebbe il mondo della letteratura se raccontasse storie di gravidanza, parto e gestazione anziché storie di sterilità e mancanza di figli! E quali racconti meravigliosi sentiremmo se tanto le madri quanto i padri potessero riferire le loro storie? La storia della letteratura mondiale è stata spesso la storia della letteratura dell’uomo bianco e della donna bianca senza figli. Com’è diverso adesso che ci sono anche madri scrittrici! Le esigenze creative di un libro per il suo autore terminano nel momento in cui il libro è finito – mentre un bambino comincia a esigere vera creatività solo dopo essere emerso dall’inconscio Eden del grembo.