Credo sia stato Hazlitt a dire che l’unica cosa che potrebbe
battere questa città d’acqua, sarebbe una città costruita nell’aria.
Joseph Brodskij
È diversa da qualsiasi altro posto al mondo. Puoi arrivarci da Tokio, New York, Parigi, Delhi, Rio, Roma e, sempre, la prima cosa che noti scendendo da qualsiasi veicolo ti ci abbia portato – treno, auto, aereo – è che il tuo equilibrio oscilla leggermente appena metti piede sulla sua scintillante e tremula superficie liquida. Perché questa è la città sulla laguna (o meglio, sono due città: una, sopra, apparentemente solida, e l’altra, sotto, riflessa nell’acqua), e quel lieve dondolio ti dice tutto della sua essenza. È la città degli specchi, la città dei miraggi, insieme solida e liquida, insieme aria e pietra. Le pietre stesse sono cariche di storia, e quei gatti che sfrecciano nei vicoli devono essere i fantasmi di famosi personaggi morti, tornati sotto spoglie feline. Molti artisti famosi sono morti qui: Wagner, Browning, Diaghilev – anche se alcuni, come Dante, sono morti di malattia contratta durante la loro ultima visita. Morti illustri che hanno dato alla città una patina misteriosa e una fama un po’ macabra – un po’ come New Orleans, o anche di più. O forse è quella sua aria come fermata nel tempo, il fatto che tanti scorci ancora oggi appaiano esattamente come in certi quadri del Carpaccio o del Bellini (a parte le antenne della TV, ovviamente), a dare l’impressione di poter girare un angolo ed entrare di colpo nel passato.
La prima volta che sono andata a Venezia, arrivavo da Firenze, dove seguivo un corso di italiano, la bella lingua. Ricordo che ci andai da sola, in treno. Viaggiavo in seconda classe; in una mano stringevo un blocchetto d’appunti e nell’altra una penna biro, perché già sapevo che Venezia in parte esiste proprio perché gli scrittori inglesi ne scrivano. Shakespeare, Byron, Browning, Ruskin, James, tutti hanno ceduto al suo fascino.
Scesi i gradini della stazione, e subito mi sentii inebriata dalla scintillante striscia d’acqua che vedevo dinanzi a me. (Ancora non avevo visto i gatti morti che galleggiano, le fogne a cielo aperto, la schiuma dei detersivi e le bottiglie di plastica.) Ero infatuata dell’idea e della realtà di Venezia, e l’infatuazione in pratica non mi è mai passata – anche se adesso conosco troppo bene la Serenissima per fare il rapsode solo delle sue bellezze. Eppure, ogni volta che ci torno, riprovo sempre quella specie di estasi iniziale, quell’“ah!” di riconoscimento, in parte fisico e in parte letterario.
Del mio primo viaggio a Venezia, ricordo un giorno che stavo seduta nella Piazzetta a leggere Byron, stupita di essere solo a un tiro di schioppo dal posto che aveva ispirato questi versi:
Ero a Venezia, sul Ponte dei Sospiri,
Un palazzo da un lato e dall’altro una prigione;
Vidi dalle onde sorgere le sue strutture
Come per un colpo di bacchetta magica:
Le offuscate ali allargano mille anni
Attorno a me e una Gloria morente sorride
Ai tempi lontani, quando tante terre soggette
Guardavano alle colonne di marmo del Leone alato
Dove Venezia stava solennemente
in trono sulle sue cento isole.
E a quel punto accadde una cosa molto veneziana. Un giovanotto attirato dalla mia espressione sognante, dalla poesia che stavo leggendo, dal bloc-notes, o da qualcosa di sensuale nelle antiche pietre, mi si avvicinò e mi porse un mazzolino di viole.
Anche lui era un turista, un dottore cinese venuto dall’Australia, un ragazzo timido, non il tipo di persona che abborda le studentesse americane con delle violette. Quel giorno girammo insieme ad ammirare palazzi e opere d’arte, e io mi resi conto che solo Venezia aveva potuto scioglierlo dalla sua timidezza. Venezia fa questo effetto. Libera i desideri e fa accadere cose imprevedibili.
Una sera d’estate di qualche anno fa, ero a cena con amici in un piccolo ristorante all’aperto su un canale di Dorsoduro. Un nostro conoscente arrivò con la sua barca, un peschereccio di Torcello dai vivaci colori, si fermò a bere un caffè con noi, poi ci invitò a fare un giro dei canali a mezzanotte. Nel nostro gruppo c’era un violinista del teatro La Fenice, che estrasse il violino dalla custodia, si sedette a prua con le gambe incrociate e suonò Mozart per noi. Mentre giravamo per il dedalo di piccoli canali, coi remi che si immergevano con un tonfo nell’acqua nera come l’inchiostro, la musica riempiva l’aria e i veneziani si affacciavano alle finestre e gridavano: “Bravo!”
Può essere difficile cogliere la mitica Venezia in una giornata calda e umida di mezza estate, quando la popolazione di oltre 300.000 abitanti pare raddoppiata, mentre i turisti girano per piazza San Marco, nutrendo diligentemente i piccioni, facendosi alleggerire del portafogli da qualche borsaiolo e ascoltando sfiatate orchestre che suonano New York, New York (per ragioni che nessuno riuscirà mai a spiegare). Ma provate a tornarci in novembre o dicembre, in febbraio o marzo, quando la nebbia si stende sulla città come un grande mostro informe, e non farete fatica a credere che le cose possono apparire e scomparire in questa labirintica città, e che il tempo può scivolare nei suoi meccanismi dentati e riportarvi, volenti o nolenti, indietro nei secoli.
Per lo più i turisti estivi compiono un prevedibile pellegrinaggio di quarantotto ore dalla stazione ferroviaria a piazza San Marco, sciamano sulla piazza tra le due colonne (senza sapere che era proprio lì che un tempo i criminali venivano appesi e che i veneziani credono che porti sfortuna passare in mezzo a esse), vedono la basilica di San Marco e il Palazzo Ducale sopra la testa di migliaia di altri come loro, fanno un giro in gondola, per il quale pagano circa un dollaro al minuto e durante il quale hanno il curioso piacere di vedere gli onnipresenti turisti giapponesi passare a sei per volta sul Canal Grande al suono di una canzone napoletana (Turna a Surriento viene suonata credo per la stessa insondabile ragione per cui suonano New York, New York).
Ho un amico a Venezia, discendente di un’antica e nobile famiglia, che possiede un palazzo che guarda proprio su uno dei principali itinerari da serenata delle gondole. L’estate scorsa un’allegra famiglia americana con quattro figli maschi aveva affittato il piano nobile di questo palazzo e uno dei maggiori divertimenti del figlio minore (e per la verità anche di mia figlia), era aspettare che arrivassero le gondole e, quando passavano, tirare qualcosa: non secchi d’acqua, come fanno a volte i veneziani, ma ninnoli, caramelle, aeroplanini di carta. Tanta munificenza suggerisce un’altra delle maliziose realtà di Venezia: l’eterna gerarchia dei turisti.
Ci sono gli yacht che attraccano per una o due settimane, sbarcando misteriosi miliardari e mettendo in moto tutte le chiacchiere veneziane su chi è stato invitato al cocktail, chi a cena e chi a salpare per la Iugoslavia o la Grecia. Ci sono le star del cinema, che vanno all’Hotel Cipriani per un brindisi e un incontro, o per rimettersi dopo un brindisi e un incontro. Ci sono i ricchi americani, che si trascinano dalla piscina del Cipriani all’Harry’s Bar e viceversa, comperando lungo la strada qualche gioiello a prezzi stratosferici.
Chi affitta un palazzo sul Canal Grande guarda dall’alto in basso quelli che stanno al Cipriani o al Gritti solo per una settimana, i quali a loro volta guardano dall’alto quelli che arrivano dalla stazione ferroviaria, restano per un paio di giorni in qualche alberghetto di infimo ordine vicino a piazza San Marco e se ne vanno con la certezza di aver visto Venezia, una città, dicono, terribilmente cara, pericolosa, piena di turisti e di borseggiatori.
Tutto questo può accadere in qualsiasi stagione dell’anno, ma è anche vero che ci sono zone di Venezia – come la Giudecca o Dorsoduro – dove si può vivere in piena estate senza mai incontrare un americano, e che molti tra i più affezionati ospiti recidivi di Venezia non vanno mai dalle parti di piazza San Marco durante l’alta stagione e, se anche ci si trovassero a passare per sbaglio, non si sognerebbero mai di comperare un gelato in quei paraggi. Non solo in San Marco il gelato costa almeno quattro volte tanto che in un vero quartiere veneziano, ma non c’è neanche lo spazio per passeggiare e mangiarselo in santa pace.
Venezia ha sempre attirato gli artisti dall’estero. Alcuni, come Turner, vi hanno trovato il loro vero soggetto; altri, come Corot, hanno ammesso di essere stati sconfitti da Venezia. Ancora oggi Venezia attira gli artisti. Arbit Blatas, l’artista lituano che ha visitato Venezia per la prima volta nel 1934, quando le camicie nere fasciste marciavano sulla Riva degli Schiavoni, oggi vive e lavora alla Giudecca (una delle più grandi isole di Venezia) con la moglie, Regina Resnik, ex cantante d’opera.
Arbit Blatas spiega che Venezia lo attrae come pittore perché la sua superficie “è in continua metamorfosi. Dipingere Venezia è un po’ come fare il restauratore, che toglie i vari strati per trovare un dipinto sotto un altro. Venezia è inesauribile perché la luce mutevole e la nebbia fluttuante continuano a cambiarle faccia. In inverno, Venezia sembra un teatro abbandonato. La commedia è finita, ma resta l’eco delle battute. Quando si cammina nella nebbia invernale, sembra non ci sia divisione tra l’acqua e l’argine. Ti sembra di poter passare attraverso i muri, attraverso il cielo, attraverso il tempo”.
Regina Resnik mi ha ricordato che “i giudecchini dicono che i veneziani vedono solo la Giudecca, mentre la gente sulla Giudecca guarda sempre Venezia”. È vero. Dalla finestra della sua cucina, Regina Resnik vede la Dogana, il Palazzo del Doge, il campanile di piazza San Marco. “A volte la nebbia è talmente fitta, che non si vede niente fuori,” mi dice. “Ma appena la nebbia si alza, la Serenissima è di nuovo lì. È l’àncora della mia vita.”
Quando gli austriaci costruirono il ponte che unisce Venezia alla terraferma, nel 1846, misero di fatto fine allo stato di isola della città. Eppure ancora oggi è difficile arrivarci, come se fosse un’isola. (Venezia, costruita su centodiciotto piccole isole, è attraversata da circa centocinquanta canali e collegata da quattrocento ponti.) Anche il più aristocratico veneziano, col più sontuoso palazzo di famiglia, deve portarsi le valigie dal treno al vaporetto o attraverso il dedalo di viuzze che circondano la grande area di parcheggio di piazzale Roma e percorrere a piedi il labirinto veneziano per tornare a casa. Naturalmente ci sono i motoscafi, i taxi d’acqua, ma sono spaventosamente costosi e spesso i piloti fanno un sacco di storie se devono passare per i canali più stretti quando c’è bassa marea. Come dice un amico, “Venezia pare prenderci gusto a umiliarci tutti, a ridurci come tanti pellegrini che devono fare affidamento solo su gambe forti e scarpe comode”. Se sei tanto fortunato da avere un amico che ti viene a prendere in barca, allora entri a Venezia veleggiando gloriosamente e ti senti una specie di Marco Polo che torna a casa. Altrimenti tutti vanno a piedi.
Ma cosa cercavo in tutti i viaggi che ho fatto a Venezia? Sulle prime, credevo che fosse l’arte veneziana: dipinti, architettura, musica, tutte cose che Venezia possiede in grande abbondanza. Naturalmente amavo il Palladio, Longhi, Vivaldi, Albinoni, Bellini, Carpaccio, il Veronese, il Tintoretto, ma come scrittrice mi sentivo attratta anche dal tranquillo stile di vita che la creazione richiede, uno stile certo più facile da ritrovare a Venezia che in una città come New York.
Ho cominciato ad andare a passare l’estate a Venezia con la mia famiglia, affittando un appartamento o una casa. E mi sono abituata ad amare il tranquillo ritmo delle giornate, il modo tutto veneziano in cui un’attività fluisce nell’altra, il silenzio, la luce che splende dentro e fuori le case. Venezia è forse l’unica città al mondo in cui si può vedere il baluginio dell’acqua del canale sul soffitto. È così unico questo fenomeno che c’è perfino un’espressione in dialetto veneziano per indicarlo: far la vecia, che letteralmente vorrebbe dire “fare la vecchia”, cioè guardare in tralice. Se la tua stanza da letto dà su un canale, al mattino ti svegli vedendo questo meraviglioso tremolio di luce sul soffitto, ammesso che tu dorma “all’americana”, cioè con le persiane spalancate. E ti svegli anche al dolce sciabordio dell’acqua contro gli argini di pietra, mentre le campane suonano a distesa da tutti i campanili della città. Anche i rumori di Venezia sono gentili alle orecchie – in confronto, diciamo, con i rumori di New York.
Eppure anche Firenze ha le campane, benché non abbia lo sciabordio dell’acqua; Roma, invece, ha grandi fontane. Ma non tutte le stanze da letto a Venezia si affacciano su un canale. Cos’è allora che rende Venezia così speciale? Credo che in definitiva abbia a che vedere col fatto che è una città isolata, tagliata fuori dal tempo. Non solo molti luoghi a Venezia sono rimasti identici a com’erano quattro o cinquecento anni fa, ma i fantasmi dei decenni e dei secoli passati sembrano intrappolati dall’acqua che racchiude la città. Per certe anime sensibili è come se Venezia gettasse un incantesimo, costringendole a tornare ancora e ancora, finché non scioglieranno in qualche modo la magia o si arrenderanno a essa. “Voglio morire a Venezia,” diceva una bella signora brasiliana che ho conosciuto una sera a un garden party. “Perciò so che voglio vivere a Venezia.”
Morire a Venezia può sembrare un’idea romantica, ma purtroppo il luogo dell’eterno riposo in questa città pare stranamente poco duraturo. Gli ebrei riposano in pace nell’antico cimitero israelitico al Lido, in una terra consacrata ceduta loro dalla repubblica veneziana nel 1386, ma i cristiani che vengono sepolti sull’isola di San Michele hanno un permesso di residenza solo per venticinque anni, dopo di che le loro ossa vengono riesumate e gettate in quella che i veneziani chiamano sinistramente “l’Isola delle Ossa”. Solo ai morti famosi sepolti a San Michele viene risparmiata questa sorte. Ezra Pound, Diaghilev, Stravinskij non verranno spodestati finché la loro fama durerà. Questa è un’altra ironia veneziana. La fama conta non solo prima ma anche dopo la morte. In un certo senso, Venezia è come Hollywood. Anche da morti, si vale solo se l’ultima recensione è buona.
Dopo tanti viaggi a Venezia, dalle pietre della città cominciò a nascere per me un romanzo. È cominciato con un senso del luogo, come il mio romanzo storico Fanny. Se Fanny era una specie di omaggio alla letteratura del Settecento e al paesaggio inglesi, così il mio romanzo veneziano è nato dal mio amore per Venezia e dalla sensazione che le pietre avessero una storia da raccontarmi.
La storia ha preso forma a poco a poco, come un mosaico. Sulle prime, il quadro generale non mi era ben chiaro. Ma continuando a tornare anno dopo anno, scrivendo unicamente per il mio diletto su quei bei blocchi d’appunti veneziani dalla copertina marmorizzata, ho scoperto un’eroina che era un’attrice shakespeariana, venuta a Venezia per girare un film tratto dal Mercante di Venezia e che, attraverso una serie di strani incidenti e coincidenze, si ritrovava nel passato (con un’avventura cinquecentesca da vivere prima di poter tornare nel suo tempo). Mentre scrivevo il mio romanzo a Venezia e dintorni, e leggevo tutti i libri sulla città che mi capitavano tra le mani, avevo la sensazione che Venezia mi stesse usando come un’amanuense, allo stesso modo in cui s’era servita di molti scrittori prima di me – e come si servirà di molti altri dopo di me.
Dato che i veneziani sono felici di poter condividere l’amore per la loro città, i miei amici veneziani erano ben contenti di aiutarmi nelle ricerche. Marino Zorzi, direttore della Biblioteca Marciana, mi ha permesso di consultare i volumi dei diari manoscritti di Marin Sanudo, un grande viaggiatore veneziano del Rinascimento. Il conte Girolamo Marcello mi ha dato accesso agli archivi di stato della Serenissima, che sono conservati in una biblioteca del suo palazzo fin dai tempi della caduta della repubblica veneziana nel 1797, e stanno lì a coprirsi di polvere in attesa della resurrezione della repubblica (momento in cui la famiglia Marcello dovrà restituirli allo stato). E infine Maurizio Crovato, esperto di barche veneziane, mi ha portato a fare il giro dell’Arsenale. Prima di poterci entrare, ho dovuto subire un controllo di sicurezza più adatto a un centro spaziale della NASA che a un arsenale diventato ormai da secoli praticamente un museo. Venezia non sarà forse più il terrore dei mari, ma sembra poco disposta, per non dire affatto, a rinunciare alla propria immagine di grande potenza imperialista.
In un gelido pomeriggio dell’anno scorso ho girato per l’Arsenale cercando di immaginarmelo ai tempi del suo splendore, quando un galeone poteva essere costruito ed equipaggiato in un solo giorno. Questo continuo viaggiare avanti e indietro nel tempo risulta più facile a Venezia che altrove. Anzi, è proprio una delle ragioni per cui gli scrittori amano lavorare a Venezia, che stiano o meno scrivendo qualcosa sulla città.
Certi scrittori vengono a Venezia per potersi tuffare nel proprio passato. “È da una ventina d’anni che veniamo a Venezia,” mi ha detto una volta Leo Lerman (che ora purtroppo non c’è più), “e in questi ultimi anni ho lavorato a un libro di memorie.” Poi, quasi stesse citando da un lavoro in corso, ha aggiunto: “Venezia, apparentemente così lontana dalla Manhattan della mia lontanissima infanzia, in realtà è più vicina alla mia infanzia di quanto non lo sia la Manhattan in cui vivo oggi. Qui sento i rumori tipici di un’isola, l’odore del mare e dell’aria salmastra, e mi immergo nel mio passato remoto. Sopra di me, vedo il cielo di quando ero ragazzo. Mi sento trasportato. E a Venezia c’è anche quella stabile e intricata struttura sociale proustiana che immaginavo quando giravo sull’imperiale dell’autobus per la Quinta Avenue, passando davanti alle ricche magioni dei grandi e dei potenti... Quelle magioni derivavano dai palazzi veneziani che vedo ogni giorno quando mi affaccio dalle mie finestre sul Canal Grande.”
Quando ho cominciato il mio romanzo ambientato a Venezia, sapevo di stare continuando una nobile tradizione, ma sulle prime non sapevo quanto nobile fosse. La studiosa italiana Marilla Battilana sostiene che “per gli scrittori inglesi Venezia è diventata quasi un archetipo”. Rappresenta la città del Lontano Oriente, una Xanadu raggiunta mediante un periglioso viaggio per mare, un labirinto, dove ci si reca in cerca d’amore, ma dove invece si trova sotterfugio, tradimento e travestimento. Secondo la Battilana, gli scrittori nel corso dei secoli hanno creato quello che può essere considerato “un mito composito di Venezia”. E hanno immortalato Venezia come una città di giustizia, una città in cui un saggio sovrano dispensa una giustizia più alta di quella che si può trovare in qualsiasi altro luogo di questo mondo.
Pare che Venezia sia stata nominata per la prima volta nella letteratura inglese nel Trecento, in un libro intitolato Mandeville’s Travels. Già a quel tempo era considerata una città esotica, una specie di Catai europeo che si toccava viaggiando verso la Terra Santa. Ma la sua fama di città peccaminosa e depravata cominciò con l’elisabettiano Roger Ascham, che nel suo Schoolmaster (1570) inveiva talmente contro la depravazione e la lussuria di Venezia, da far venir voglia a tutti gli inglesi di andarci. “Quando stavo a Venezia,” scrive Ascham, “ho imparato che lì viene considerata buona politica, quando in una famiglia ci sono quattro o cinque fratelli, che uno solo si sposi e gli altri si rotolino senza vergogna nella lussuria, come fanno i porci nel fango.” Se questo non era fatto per attirare a Venezia i giovanotti inglesi da Londra, cosa altro poteva esserlo?
E infatti ci andavano a frotte. Thomas Nashe, contemporaneo di Shakespeare, non solo venne attirato dal fascino di Venezia, ma dopo essersene andato scrisse un libro intolato The Unfortunate Traveller (1594) in cui portava ancora oltre il mito veneziano. Fornicazione e inganni abbondano nella Venezia di Nashe, che nel suo libro introduce un altro elemento importante del variegato mito di questa città: lo scambio di identità tra servo e padrone per assaporare i misteri veneziani. E inevitabilmente incontreranno la giustizia veneziana e la troveranno insieme severa e salomonica.
È stato Shakespeare tuttavia a stabilire una volta per tutte il rapporto veneziano tra amore e giustizia (Il mercante di Venezia) e il rapporto – anch’esso tutto veneziano – tra amore e morte (Otello). Infatti l’innamorata e il giudice si fondono in un solo personaggio nel Mercante di Venezia – e travestimento e identità segrete hanno un ruolo importante nell’azione. Con Shakespeare il mito della città lagunare è completo, e ne vengono stabiliti i due poli. Nelle commedie l’amore si accompagna alla giustizia (“La clemenza ha natura non forzata”); nelle tragedie, l’amore si associa alla morte (“Ti baciai prima di ucciderti,” dice Otello).
Dopo Shakespeare, Ben Jonson, Thomas Coryat, Henry Wotton, Thomas Otway, Daniel Defoe, Joseph Addison, Mary Wortley, Montague, Oliver Goldsmith, Chesterfield, tutti hanno aggiunto qualcosa al mito di Venezia. Ma è stato con gli scrittori dei romanzi gotici, i cosiddetti “preromantici”, che Venezia ha ricevuto il giusto riconoscimento per gli scrittori anglosassoni. Ann Radcliffe ha ambientato I misteri di Udolfo in una Venezia che non aveva mai visto. Era chiaro che se Venezia non fosse esistita, sarebbe stata di certo inventata per i racconti gotici di fanciulle vergini in pericolo, genere letterario del resto in voga ancora oggi.
Per i poeti romantici come Byron, Shelley e Wordsworth (Keats non è mai stato a Venezia), Venezia significava qualcosa di più: un luogo in cui riflettere sulle trascorse glorie di antiche civiltà, in cui meditare tristemente sul fatto che tutte le cose mortali passano e finiscono, e contemplare l’eternità dello spirito poetico. La decadenza di Venezia era il punto focale, e Venezia stessa divenne una lezione morale per gli inglesi, in quanto mostrava come anche il loro paese avrebbe potuto ridursi, se non fossero stati attenti.
Per gli scrittori moderni da Henry James a Thomas Mann, Venezia è stata la città di amore e morte, associazione poi ripresa dai cineasti di oggi. Venezia è il luogo dove gli artisti vanno per rinascere (ma dove spesso muoiono), il luogo dove l’amore cede alla morte e le acque si chiudono, pietosamente o con indifferenza, sopra tutte le cose. Dei due poli della mitica Venezia creata per noi da Shakespeare, abbiamo scelto il polo tragico. È difficile immaginare un romanzo moderno o un film ambientato a Venezia che non sia gotico, macabro, infarcito di fantasmi e di miraggi.
Ed è anche difficile dire quanta parte di questo incantesimo della città sia vita e quanta sia letteratura. Vita e letteratura sono così intrecciate che è impossibile distinguerle. Girando per le calli di Venezia nella nebbia, d’inverno, ci si può immaginare Shakespeare che viene al ghetto a fare ricerche per Il mercante di Venezia; Byron che torna a casa a nuoto nel Canal Grande dopo una festa, con il fido servitore che lo segue su una barca a remi, portandogli gli abiti; Browning solo, in piedi, in mezzo a Ca’ Rezzonico, dopo la morte di Elizabeth Barrett; Henry James intento a scrivere nei saloni di Palazzo Barbaro, per poi scendere a fare quattro passi in Campo Santo Stefano. Che Venezia abbia così spesso posato per il proprio ritratto letterario fa parte della sua essenza. È come una decrepita primadonna circondata dai propri ritratti che invecchiano, o una vecchia star del cinema che mostra i suoi ritagli di giornale ingialliti dal tempo. È la città vedova del mondo.
Anche gli scrittori contemporanei trovano Venezia estremamente avvincente. Joseph Brodskij, Gore Vidal, Mary McCarthy e Jan Morris hanno scritto libri di viaggi su Venezia splendidamente evocativi.
Quello che turba lo scrittore a Venezia è la stessa cosa che lo delizia: tutto ciò che si può dire su Venezia è già stato detto da qualcuno. Henry James se ne beava addirittura. “Sarebbe un giorno davvero triste, quello in cui ci fosse qualcosa di nuovo da dire,” scriveva. E Gore Vidal cita questa frase con evidente soddisfazione in Vidal in Venice.
Nella società “usa e getta” del ventesimo secolo, Venezia è più che mai importante. In confronto con New York che ossessivamente ricostruisce interi quartieri ogni trenta o quaranta anni, Venezia sembra restare sempre identica. Ma anche lei è in pericolo – e questo è sempre stato parte del suo fascino. L’acqua sale in continuazione (o la città sprofonda, a seconda di quale esperto si interpella). L’inquinamento che viene da Mestre, il quartiere industriale di Venezia, ha intaccato le pietre al di là di ogni possibilità di recupero. I canali, i cui fondali non vengono più puliti come una volta, sono pieni di schifezze fino a un’altezza di alcuni metri.
Ogni volta che arrivano le pericolose alte maree, riprendono le annose discussioni sulla necessità di salvare la città dalle devastazioni dell’industria moderna. Molti veneziani sono convinti che il canale scavato in laguna per fare spazio alle grandi petroliere abbia esposto Venezia alla furia delle maree. La mitica Venezia è immortale, ma la Venezia reale, fisica è un’altra storia. La sua sopravvivenza può dipendere dalla decisione di bandire le grandi petroliere, permettendo così alla laguna di riacquistare il suo normale equilibrio. Una decisione del genere non è stata ancora presa e la cronica tecnica dilatoria delle autorità veneziane può veramente condannare la città al destino di Atlantide.
La mia Venezia è la Venezia d’inverno, la Venezia di Dorsoduro, la Venezia alla nebbia. Passeggiando per le Zattere nella nebbia, indossando stivaloni di gomma per l’acqua alta, è difficile dire dove finisca la terra ferma e dove comincino il cielo e l’acqua. La città sembra sospesa nell’aria come un miraggio. I rumori rimbalzano sull’acqua e ti ingannano con la loro vicinanza o lontananza. Le figure appaiono e scompaiono agli angoli delle strade. Il passato ti chiama. È assolutamente possibile credere che ti possa inghiottire e non restituirti mai più.