La poesia non deve essere necessariamente bella per restarci
impressa nelle profondità della memoria.
Colette
La gente pensa di poter fare a meno della poesia. E infatti si può. Almeno fino al momento in cui ci si innamora, si perde un amico, un figlio o un genitore, oppure si perde la via nella foresta oscura della vita. La gente pensa di poter vivere senza poesia. E si può. Almeno finché non ci si ammala gravemente, si mette al mondo un figlio oppure ci si innamora perdutamente e follemente.
Non mi curo del cielo, non temo l’inferno
Se ho i baci della sua giovane, orgogliosa bocca...
Così scrive Moireen Fox in una poesia intitolata “L’amante fatato”. Ed è difficile immaginare un’evocazione più efficace del vecchio cliché “follemente innamorata”. Al posto di una vecchia metafora, abbiamo un’immagine viva – un’immagine colorata, rapida e audace. Abbiamo l’amore, il folle desiderio per l’amante, e abbiamo anche le sensazioni che evoca l’amore: tutto in due versi. Sappiamo che è un amore per cui si può non solo morire, ma anche andare all’inferno. E sappiamo che chi parla – chiunque sia – è una donna ardente, appassionata, una donna che getta la prudenza alle ortiche. Sappiamo più di lei da questi due soli versi che di tanta gente con cui abbiamo parlato per ore, perché conosciamo i suoi pensieri e i suoi sentimenti. Conosciamo il tono della sua voce: incauto, appassionato, fiero. Sappiamo che è una persona libera e pronta a pagare il prezzo della libertà. Conosciamo il carattere di questa donna in due soli versi.
Solo la poesia può riuscirci. Solo la poesia ci dà un linguaggio carico di sentimento e di personalità. Ecco perché ci sono momenti nella vita in cui solo la poesia può servirci. E stranamente, sono proprio i momenti in cui ci sentiamo più vulnerabili, più umani.
“Il getto di sangue è poesia,” ha detto Sylvia Plath. “Non c’è modo di fermarlo.” Ecco un altro esempio del perché solo la poesia serve in certi momenti. “Sangue” ci dice: essenziale, necessario alla vita, zampillante. “Getto” ci dice: si muove in fretta, sotto la spinta della pressione, una volta aperto non è così facile chiuderlo. La lingua della poesia è elevata, emozionale, imagistica, condensata. Concentra il significato come un profumo concentra i fiori.
Ho detto che abbiamo bisogno di poesia soprattutto nei momenti in cui la vita ci colpisce con lutti, guadagni o celebrazioni. Ne abbiamo bisogno soprattutto quando siamo più addolorati, più felici, più depressi e più allegri. La poesia è la lingua che parliamo nei momenti di maggior bisogno. E il fatto che la poesia sia una “specie a rischio” della nostra cultura ci dice che siamo veramente nei guai. Trattiamo i nostri poeti come reietti, pazzi, morti di fame. Portiamo meno rispetto proprio a chi ci dà di più.
Il nostro atteggiamento pubblico nei confronti della poesia e dei poeti dimostra che in America i bisogni spirituali contano poco. Sappiamo prenderci cura dell’essere esteriore, ma lasciamo che quello interiore languisca. La pelle, non l’anima, riceve tutte le nostre cure – anche se a parole diciamo il contrario. E molti di noi muoiono per mancanza di cure all’anima. Il poeta è colui che si prende cura dell’anima; in molte civiltà, la funzione del poeta è fondamentale.
La poesia non deve consistere solo di immagini. Può anche essere un’espressione dichiarativa carica di significati. Quando Yeats ordina che vengano scolpite sulla sua torre queste parole (“Da incidere su una pietra a Thoor Ballylee”):
E queste lettere possano restare,
quando tutto sarà nuovamente in rovina,
ci dà l’immagine dell’incuria del tempo. Allude alla mutevolezza. Anche Shakespeare è ossessionato dal tempo. Il trascorrere inesorabile del tempo determina le sue espressioni più appassionate.
“Tempo divoratore, rendi meno affilati gli artigli del leone” è un’immagine perfettamente inserita in un ordine. È come se il poeta avesse assunto per un momento la prospettiva di Dio, invece di quella umana.
E perché il poeta non potrebbe avere la prospettiva di Dio – sia pure solo momentaneamente? Come mi ha detto una volta Anne Sexton, “scriviamo tutti il poema di Dio”. Poco importa l’identità del poeta. Quel che importa è che il getto di sangue della poesia continui a sgorgare.
Il getto di sangue è in pericolo nella nostra cultura non solo perché non rispettiamo i nostri poeti (i poeti possono sopravvivere all’indifferenza, se sono veri poeti: pensate a Emily Dickinson), ma anche perché stiamo distruggendo la solitudine e la capacità di apprezzare la solitudine. Provate a scovare un posto senza media, senza rumori di traffico, musica assordante, pubblicità fastidiose. Bisogna essere miliardari per sottrarsi alla rumorosa iperstimolazione a vendere che è onnipresente nelle nostre città, nelle periferie, sugli aerei, negli aeroporti e sui treni. La solitudine ha cominciato a sembrarci strana. Appena entriamo in casa, subito accendiamo il televisore per farci compagnia. Il silenzio ci sembra strano. Ma la poesia, come ogni lavoro creativo, scaturisce dalla solitudine. Quando Yeats dice: “E vivere da solo nella radura dove ronza l’ape nell’“Isola sul lago di Innisfree”, capisci che il poeta ha ascoltato le api, non il rumore del traffico. Quanto forte fosse il ronzio delle api nella radura lo sa soltanto chi resiste alla tentazione di attraversare il prato con una di quelle grosse radio-mangianastri sulla spalla o con un walkman. Il continuo input video e audio sommerge il nostro output. La “mente selvaggia”, come Natalie Goldberg chiama la parte del nostro cervello che produce poesia, ha bisogno di spazio per sognare e richiamare le immagini. Questo spazio, lo abbiamo quasi perduto. Forse lo abbiamo abolito a bella posta. Ma il frenetico consumo di beni materiali non può fare per noi quello che può fare la poesia.
Dove può andare allora il poeta per trovare la necessaria solitudine? E il lettore di poesia, dove trova lo spazio per leggerla o ascoltarla? La verità è che sono a rischio sia lo scrivere che il leggere poesia. Ma il bisogno di poesia è un’esigenza umana così assoluta, da riuscire ad adattarsi alle nuove circostanze. Quando i cosiddetti “grandi editori” smettono di pubblicare poesia e ignorano il bisogno dei ragazzi di leggere poeti della loro generazione, i giovani si rivolgono agli slam di poesia o scontri poetici, alle letture nei caffè. O alla musica rap. Quando il mondo dei libri le gira le spalle, la poesia spunta nel mondo della musica. Un mezzo di comunicazione orale che torna alla sua radice: la lingua.
Il che ci conduce alla lettura dei poeti e alla poesia come mezzo sia per l’occhio che per l’orecchio. Mi sono innamorata della poesia da ragazzina, in parte ascoltando i poeti leggere i loro versi. Andavo alle letture del Centro di Poesia sulla Novantaduesima Strada a New York. E ascoltavo le splendide registrazioni di Dylan Thomas. La poesia prende vita grazie alla voce, perché è essenzialmente una trascrizione di voce e fiato – e di silenzi fra una e l’altro. Quando un poeta legge, il processo creativo viene in qualche modo ripercorso. Ci par quasi di sentire la musa che sussurra all’orecchio del poeta.
Nella nostra epoca sono state fatte molte registrazioni di letture di poesia, quindi può darsi che l’impulso poetico sopravviva alla nostra indifferenza. Una cosa è certa: la poesia non può essere uccisa. La scriviamo per amore, non per denaro. Le arti praticate per nessun altro motivo che l’amore, sono le arti più durevoli. Nessun “mercato” o assenza di mercato le può zittire. Il loro mezzo di scambio è l’amore – e la sua impotenza contro il tempo.
La poesia preserva il momento presente e la nostra brama di viverlo appieno. Come dice Basho, poeta giapponese del Seicento:
Dopo aver succhiato
a fondo il nettere d’una peonia
l’ape esce strisciando
da questo peloso recesso.
La poesia è tutta sulla passione? A volte sembra di sì. La passione è il contrario della morte. E siccome sappiamo che alla fine la morte ci inghiottirà, bramiamo la passione. Suggiamo le parole come l’ape di Basho sugge il miele. La dolce peonia desta la nostra fame, quanto più ci soddisfa.