L’ideale di felicità ha sempre preso forma concreta nella casa.
Simone de Beauvoir
“Sono eccitatissima... Mi sento come se mi dovessi sposare – con l’uomo giusto, finalmente!” Così Edith Wharton scriveva a un’amica per esprimere la gioia di ristrutturare un’antica fortezza sul Mediterraneo, a Hyères, in Francia. La Wharton avrebbe avuto infatti il suo periodo più prolifico negli anni Venti, mentre divideva il suo tempo tra quel ritiro sul Mediterraneo e una grande casa, Pavillon Colombe, fuori Parigi. Evidentemente le due case non erano solo luoghi d’abitazione. Erano edifici che rispecchiavano un’intima geografia e avevano il potere di liberare la sua creatività.
La casa di uno scrittore è un’abitazione con molti abbaini. I mattoni non sono fatti d’argilla ma di fantasia. Le finestre sono gli occhi dello scrittore. Dai camini esce il fumo dei nostri desideri, e nei caminetti ardono ceppi tagliati nei nostri giardini segreti.
Osservando la ricerca di Edith Wharton d’una casa perfetta – dal cottage dei genitori a Newport alla sua casa di Lenox, “The Mount”, alle due case in Francia dove trascorse il periodo più prolifico dei suoi cinquanta, sessant’anni – ci rendiamo conto che le case degli artisti non sono semplicemente un tetto contro le intemperie. Provocano quel genere di estasi che noi scrittori associamo all’innamoramento. Fanno da Cupido, ostetrica, Giuda e anche tristo mietitore. Il lettore comune può pensare che lo scrittore copi le case, ma la verità è che le inventa, proprio come fa un architetto. Noi scrittori, nei nostri sogni, mettiamo varie case insieme, le alchemizziamo nella trance della fiction e costruiamo una casa che incarna la madre, il sogno a occhi aperti, l’incubo e l’aspirazione.
La splendida casa elisabettiana dell’Orlando di Virginia Woolf è un esempio perfetto di questo genere di alchimia. Si basa in parte sul Sissinghurst Castle di Vita Sackville-West (un rudere elisabettiano comperato negli anni Trenta e restaurato con amore insieme col marito, Harold Nicolson), Knole (dove era cresciuta e che con sua grande amarezza passò poi in eredità a un lontano parente maschio) e Long Barn (dove abitava prima di far restaurare Sissinghurst).
La Woolf viveva in relative ristrettezze. Dopo tutto era una scrittrice e veniva da una famiglia colta ma non ricca. Vita Sackville-West viveva come un’ereditiera del passato elisabettiano, ma in quanto donna non potè ereditare la sua casa avita, Knole. Così, bandita dal suo splendore da una vestigia feudale, Vita si ricreò un’eredità tutta sua a Sissinghurst. E intanto diventò l’ispirazione per l’eroe/eroina maschio/femmina di Virginia Woolf.
Ma che rapporto c’è tra la casa e l’ispirazione? In una sua poesia, “Donna Casa”, Anne Sexton paragona la casa a una donna. Descrive la donna di casa “in ginocchio tutto il giorno/ a lavare meticolosamente”. La sua meditazione sulle case diventa una meditazione sulle madri: “Una donna è sua madre./ Questa è la cosa principale.”
Nel romanzo futurista di Marge Piercy, He, She and It la casa della protagonista è una madre/robot che accoglie gli ospiti, educa i giovani e sa tutto sulla storia della tribù. O è Dio o è programmata da Dio. È educatrice e arbitro morale, fonte di calore e fonte di educazione. È insomma una divinità materna, un potere superiore donna.
La Sexton e la Piercy mostrano chiaramente che nell’inconscio la casa è la madre. Probabilmente molti psicanalisti lo potrebbero confermare. (Raramente poeti e psicanalisti sono molto distanti nelle loro percezioni.) Siamo esclusivi nei confronti della nostra casa, perché inconsciamente ne capiamo il significato. “Grembo con vista,” diciamo scherzando. Le case ci fanno nascere – o almeno fanno nascere la parte migliore di noi.
Perciò non ci stupisce molto sentirci a nostro agio in una stanza rossa: calda, appassionata e sicura, una stanza rossa ci chiama con un cenno. Diamo per scontato il legame ombelicale tra la casa e chi la abita. Non possiamo dire di conoscere una persona senza aver visto la sua casa.
Inoltre siamo affascinati dalle case abitate dai fantasmi. Gli spiriti dettano racconti? Naturalmente si presume di sì. Amityville Horror, record di durata come best-seller e come film (per non parlare dei vari seguiti), è la prova del fascino esercitato dalla casa infestata dai demoni. La storia originale racconta di una coppia costretta ad abbandonare la casa per via di strani fenomeni (causati, pare, dallo sterminio di un’intera famiglia da parte di un fratello prima che i due acquistassero la casa). E quasi tutti hanno una storia da raccontare su una casa degli spiriti. Forse la casa aveva dovuto essere venduta perché i fantasmi bisbigliavano troppo forte; forse c’erano strane correnti d’aria, rumori e apparizioni notturne; forse c’era la figura d’una donna decapitata in piedi sul davanzale di notte.
Quasi tutti gli scrittori che conosco sostengono di aver vissuto in una casa abitata da fantasmi. C’è un’affinità speciale tra case stregate e scrittori, oppure è solo che noi scrittori abbiamo orecchie più fini nel sentire le storie degli spettri? Traslochiamo in case stregate perché siamo attirati dalle storie? La casa stregata è forse un’ennesima versione della madre – che ci parla anche molto tempo dopo essere morta?
Una volta dissi di aver posseduto una casa stregata a New York. Gli amici erano affascinati. “E come ti apparivano i fantasmi?” mi chiesero.
“Be’, in quella casa avevo sempre un terribile mal di testa. Non riuscivo a scrivere, e scappavo continuamente in campagna.”
“Ma dai,” mi dissero gli amici, “questo non vuol dire che era stregata!”
“Ma facevo dei brutti sogni,” protestai.
“Davvero, facevi dei brutti sogni?”
“Erano sogni pieni di gente che non conoscevo e di situazioni mai viste.”
“Forza, racconta!” esclamarono loro. “Dicci la storia!”
Ma era davvero colpa dei fantasmi? Suonava bene, ma non volevo stare troppo a pensarci. La casa prima era appartenuta a uno psicanalista, che sopra il letto coniugale aveva appeso un cartello con la scritta: “La salute mentale è la più grande ricchezza.” Mi dissi che probabilmente sognavo i sogni dei suoi pazienti – non tutti i sogni, ma solo quelli repressi, non interpretati. Forse a popolare i miei sogni erano veramente dei fantasmi. In segreto, lo spero proprio.
Noi scrittori abbiamo la tendenza a essere dei patiti della casa – stregata o meno che sia. Lavoriamo a casa, indulgendo all’agorafobia tipica dello scrittore. Siamo immersi nel nostro ambiente in modo quasi morboso. Non solo vediamo terrificanti apparizioni che il resto della famiglia ignora, ma a volte sentiamo sospiri e proviamo brividi strani lungo la schiena. A volte si ode una musica d’organo o lo sciacquio di una fontana anche al ventisettesimo piano. Nei libri, mescoliamo case vere e case sognate; le rinnoviamo con gli arnesi della nostra fantasia.
Madre, grembo, albergo di fantasmi – non stupisce che ci voglia una casa interessante per fare un buon romanzo. Una casa ci ama e ci sostenta. Odia lasciarci andare via.
Quando Vladimir Nabokov insegnava letteratura in America, enfatizzava sempre il disegno della casa in cui aveva luogo l’azione di un libro. Lui pensava che se si cominciava con una casa, ci si mettevano dentro i personaggi, li si faceva muovere, alla fine si aveva un romanzo. Sia che fosse la casa di Gregor Samsa nelle Metamorfosi di Kafka o la casa del dottor Jekyll nello Strano caso del dottor Jekyll e Mister Hyde di Robert Louis Stevenson, Nabokov sapeva che solo certi personaggi vivevano in certe case, e solo quelle case permettevano che avvenissero determinate cose.
D’istinto sappiamo che Nabokov aveva ragione. Quando entriamo nella casa di Edith Wharton a Lenox, Massachusetts, o a Villa Seurat 18, a Parigi, dove Miller terminò di scrivere Tropico del Cancro e Primavera nera, oppure nella casa dei sette abbaini che ispirò a Nathaniel Hawthorne il romanzo che porta lo stesso titolo, sentiamo che non si tratta solo di abitazioni: sentiamo che stiamo entrando nella fonte d’ispirazione dello scrittore.
Molti scrittori mi vengono a trovare a casa mia, nel Connecticut. La mia casa sorge su una sporgenza di roccia e si affaccia su un burrone. Sotto scorre l’Aspetuck River. Anche se da quando ci sono andata a vivere la zona è in parte caduta sotto la scure degli imprenditori edili, la mia cengia è ancora abbastanza remota da isolarmi dal mondo.
Quando qualche mio ospite scrittore riesce a lavorare in casa mia, io ne sono felice. Recentemente Fay Weldon è stata da me per un week-end. La domenica mattina, dopo una tazza di tè, Fay si è ritirata nella sua stanza senza dire una parola. Poco dopo è emerso il suo amico, per prepararle un’altra tazza di tè, poi è tornato nella stanza di Fay portandole anche un muffin.
“Sssst!” dissi a mio marito. “Credo che Fay stia scrivendo.”
“Sssst!” mi disse l’amico di Fay. “Sta scrivendo.”
Mi misi a girellare in cucina, con un delizioso senso di aspettativa. Era bello, quasi come se stessi scrivendo io! Era come se la casa stesse scrivendo. Sentivamo tutti il frisson della creatività. Avrei voluto scrivere anch’io – anche se di solito avere ospiti mi blocca. Ma rimasi in cucina, a fare la padrona di casa (o la musa) di un’altra creatrice.
Alla fine ci riunimmo tutti per il pranzo.
“Ho scritto un racconto!” annunciò Fay, con buona pace di tutti. “Questo è un posto fantastico per scrivere!”
Naturalmente nessuno di noi fu tanto sciocco da chiederle: “Di cosa parla?” E ci sedemmo a mangiare, ciascuno assorto nei propri pensieri. Sapevo che non mi dovevo preoccupare se la mia casa sarebbe comparsa o meno nel racconto di Fay. Se ci fosse stata, non sarebbe stata più la mia casa, ma la sua, costruita dalla sua immaginazione. La casa è mia solo a titolo di proprietà, e a titolo dei libri che ci ho scritto.
“Sono felice di essere il custode di una casa che ispira poesia,” mi ha scritto l’avvocato Michael Kennedy quando ho mandato a lui e a sua moglie Eleanore due poesie che avevo scritto a Kilkare, nella loro casa sulla spiaggia di fronte all’Atlantico. Kilkare è come uno schooner dell’Ottocento davanti al mare. I venti dell’oceano non riescono a strapparlo ai suoi ormeggi, anche se a ogni uragano la spiaggia arretra. Per me quella casa e quella spiaggia sono una lezione oggettiva sulla stabilità e l’instabilità. I miliardari possono anche costruire qui le loro case, ma non possono controllare l’oceano.
Ma dopo tutto una casa esiste per custodire i nostri sogni e la praticità conta sempre meno. Se ci dormi bene, puoi svegliarti e scrivere. Se poi qualcuno che ami ti porta un tè, tanto meglio. E il rumore del mare non dà nessun fastidio.
Come ha detto Edna St.Vincent Millay:
Sicure sulla solida roccia si ergono le brutte case.
Vieni a vedere il mio palazzo scintillante
costruito sulla sabbia!