Mi piacciono gli alberi perché sembrano più rassegnati
di altre cose al modo in cui devono vivere.
Willa Cather
Casa è il luogo dove ti senti al sicuro, dove – a dispetto delle inquietanti notizie che ti arrivano via cavo o attraverso le fibre ottiche – puoi lasciare la porta chiusa solo col chiavistello e gironzolare fuori con addosso un vecchio accappatoio di spugna e un paio di zoccoli infangati a vedere se i crocus stanno cominciando a spuntare dalla neve.
Da bambini, non sapendo che esiste un’alternativa, non si apprezza mai realmente la casa. Da ragazzi, la casa è il luogo dal quale ce ne vogliamo andare il più presto possibile, esibendo una patente di guida e un boy-friend.
Solo verso “gli anni d’argento” – nuova espressione sexy per la paventata mezza età d’una volta – la casa ricomincia a farci richiami seducenti, invitandoci a piaceri che la fuga non può mai dare. Casa è dove sono i tuoi libri. Casa è dove conservi quei pantaloni a zampa d’elefante di moda negli anni Sessanta che potrebbero venire buoni per tua figlia. Casa è dove conosci tutti i piccoli problemi dell’impianto idraulico, che però più che irritarti ti sono di conforto. Casa è dove salti giù dal letto alle tre di mattina, dai una sbirciatina alla luna dalla finestra del bagno, e poi torni a dormire perfettamente tranquilla, sapendo che nessun demone ti può raggiungere lì. Casa è dove gli alberi fanno parte della tua storia: il ciliegio piantato per la nascita di tua figlia, il pino silvestre che una volta ha fatto da albero di Natale, la betulla che è stata colpita dal fulmine e la primavera scorsa si è ripresa, la quercia che pareva morta l’inverno che hai divorziato ed è tornata fronduta tre anni dopo, a furia di pazienza e di potature.
Casa è dove il nido d’uccello sopra l’architrave della porta d’ingresso ospita uova di pettirosso ogni anno. Casa è “qualcosa che non ci si deve meritare”, dice Robert Frost ne “La morte dell’uomo a nolo”. Amen.
Sono talmente spesso in viaggio che a volte mi sveglio di soprassalto, chiedendomi se sono a Roma o a Hong Kong o a Auckland, ma quando sono nella mia casa in mezzo agli abeti del Connecticut, so sempre di stare a casa, per quanto annebbiata dal jet-lag.
L’ho comperata vent’anni fa: la mia prima casa coi miei primi veri soldi guadagnati scrivendo. In questa casa ho portato mia figlia di soli tre giorni, tenendola tra le braccia. Costruita su una sporgenza di roccia sopra un fiume, è fatta di vecchie travi da granaio del Vermont, di pietra grezza e vetro. Non è mai stata “arredata”. Contiene invece le collezioni della mia vita: la tavolozza sporca di colore di mio nonno, il vecchio pianoforte verticale di mio padre, antiche trapunte comperate girando per il Vermont, piatti di maiolica mandati da Faenza, bicchieri da vino che ho visto soffiare in una vetreria di Murano, un eterogeneo assortimento di ritratti di parenti dipinti dalla mia famiglia di pittori.
Ho una stanza da lavoro costruita su palafitte – una casa sull’albero unita al corpo principale della casa da un ponte sospeso. La veranda è rivestita di scaffali, sui quali stanno tutte le edizioni straniere dei miei libri. Il mio tavolo mi si avvolge intorno a forma di U. È sempre ingombro di pile di libri che riguardano il progetto in corso. (Solo tra un romanzo e l’altro pulisco la scrivania.) Su una pedana sollevata dinanzi a un’enorme finestra, c’è il mio tavolo di quercia polita della larghezza di una vecchia pianta; alla mia sinistra, una parete di libri di poesia; i miei archivi di fotografie e manoscritti stanno negli armadi. Niente mi rende più felice che stare seduta al mio tavolo nel Connecticut. Lì mi ritempro e sogno.
In autunno, gli scoiattoli giocano a football con le ghiande sopra il tetto del mio studio. In primavera gli uccelli fanno il nido nella grondaia e si svegliano alla prima luce rosea dell’alba. In campagna mi piace perfino soffrire d’insonnia, così posso essere in piedi prima degli uccelli e aspettare che cominci la loro serenata.
Dal ponte della mia casa sull’albero vedo i cerbiatti con la coda bianca entrare di soppiatto nel giardino per mangiare le rose. Aspettano che spuntino i teneri boccioli, poi li divorano selvaggiamente, lasciando i rami nudi. Non sparo. Ogni anno mi riprometto di mettere una siepe anticerbiatti, ma non lo faccio mai. Quegli animali per lo meno mi lasciano il lauro di montagna e i rovi delle more.
Arriverà l’estate, e ci saranno le more luccicanti lungo il mio ripido viottolo e nei miei boschi. Come i cerbiatti tra le mie rose, mi farò scoppiare la polpa rossa delle more sulla lingua, dopo aver raccolto i frutti tra le spine.
So di essere a casa perché Poochini, il mio bichon frise, s’è accoccolato sul pianerottolo tra il primo e il secondo piano. So di essere a casa perché Basil, il gatto, si arrampica sul vecchio ficus del soggiorno, in cerca di un appiglio sulla cima ondeggiante. So di essere a casa perché il mio tavolo è ingombro di bloc-notes nuovi e di mucchi di libri pieni di annotazioni. So di essere a casa perché il mio cuore è calmo e la penna scorre sul foglio al ritmo tranquillo del suo battito.
L’estate scorsa ho piantato una siepe di bosso per ingannare i cerbiatti. (Detestano l’odore di fiori di bosso quanto io lo amo). Ho sostituito le rose che mi avevano decimato e ho pregato che andasse bene. Ho piantato le rose della pace, di un giallo chiaro coi bordi rossastri. La primavera scorsa, ho fatto rifare il tetto. Le schegge delle assicelle di cedro sono piovute per mesi su tutte le terrazze, sovrapponendo il loro acuto aroma all’odore di resina degli abeti.
Da vent’anni ho in progetto di fare una piscina. Ma il ciclo della vita finanziaria di uno scrittore è fatto in modo che quando ho pagato le tasse sull’ultimo libro e i conti che si sono accumulati mentre scrivevo, non mi resta mai abbastanza denaro. Io vivo in quell’altalena continua (ben nota a tutti gli scrittori free-lance) tra ricchezza e indigenza – perciò sono ben contenta di avere la casa, con o senza piscina. Fare la piscina non è cosa da poco perché la casa è costruita su una cengia di roccia, per cui si dovrebbe utilizzare la dinamite per scavare la vasca nella roccia. Ogni anno diventa più costoso.
“La farò l’anno venturo,” mi dico, prima di dedicarmi al lavoro di scrittura successivo. Se solo potessi scrivere una piscina! Me l’immagino come un bagno romano all’aperto, circondato di pilastri che reggono le statue delle donne più ispiratrici del mondo. Saffo, Boadicea, Elisabetta I d’Inghilterra, Mary Wollstonecraft, Colette, Emma Goldman e Golda Meir mi guarderebbero dall’alto mentre io faccio la sirena nell’acqua. D’estate sarebbe un tepidarium e d’inverno un calidarium. E io nuoterei, ovviamente nuda, assistita da uno stuolo di giovani massaggiatori nerboruti con asciugamano.
Che c’è di sbagliato in questo quadro? La piscina non si adatta alla casa – che è rustica e calda, per non dire umile. È un bozzolo per scrivere, sognare, dormire, fare lunghe conversazioni con mia figlia, ricevere gli amici e fare l’amore. La vasca d’acqua calda sul terrazzo può sdoppiarsi in calderone per le pozioni delle streghe. Ha subito un sacco di trasformazioni nel corso di questi venti e passa anni: da cassa di vino di legno di sandalo a contenitore in vetroresina isolante che mantiene l’acqua calda tutto l’inverno.
Dentro quella vasca ho progettato la mia vita e i miei libri da che io ricordi, ho chiamato (e licenziato) amanti e inventato avventure. Non cambierei questa magica casa nei boschi per The Mount, la Villa di Adriano o San Simeon. La sua spaziosa semplicità è adatta a me. La casa mi ha fatto da madre, come io ho fatto da madre a Molly e ai miei libri.
Sospetto che ci sia un’altra casa in serbo per me nel futuro, ma dove sarà non ho idea. Vicino al mare, ma se sia l’Adriatico o l’Egeo, l’Atlantico o il Pacifico, non lo so ancora. In teoria, è una casa rigorosamente moderna, una scatola Bauhaus di vetro con futon al posto dei letti, tatami invece dei tappeti e un giardino a gradoni di sabbia che imita l’eternità.
La verità è che ammiro queste case, ma non ci potrei mai vivere. Che ne farei del mio mucchio di manoscritti, quadri, collezioni? Che ne farei delle mie pareti ricoperte di libri? Che ne farei dei parenti e degli amici, che arrivano per dipingere sui terrazzi o per comporre concerti sul vecchio piano verticale di mio padre nella stanza degli ospiti? Le parole possono costruire molte case. Sono grata che questa sia la mia.