Una scoperta inaspettata (e inquietante)
Appena li ebbe toccati, si addormentarono tutti, per risvegliarsi soltanto quando si sarebbe risvegliata la loro padrona, onde trovarsi pronti a servirla in tutto e per tutto. Gli stessi spiedi, che giravano sul fuoco, pieni di pernici e di fagiani si addormentarono: e si addormentò anche il fuoco.
Charles Perrault, La bella addormentata
Capita spesso, in un reparto di medicina d’urgenza, in un pronto soccorso in qualsiasi parte del mondo, di ricevere pazienti con perturbazioni della coscienza simili a un sonno profondo. La terminologia anglosassone ha coniato per questo fenomeno il termine stupor, che indica una condizione di alterazione della coscienza che precede come gravità il coma. Il termine si riferisce a uno stato d’importante sonnolenza, talvolta un sonno molto profondo, dal quale è molto difficile risvegliare il paziente. Utilizzando stimoli energici, anche dolorosi, si ottiene un breve risveglio, detto arousal. Lasciato a se stesso, il soggetto affetto scivola nuovamente nella condizione di non responsività, in stupor.
Comprendere quali siano le cause di queste perturbazioni è spesso impresa non semplice, e non di rado acquisizioni che si ritengono precorritrici di svolte epocali si inabissano nel fallimento di un abbaglio colossale. Anche in questi casi però – come gli errori scientifici ci dimostrano sempre –, perfino una cantonata può condurre, attraverso altre e misteriose strade, a una scoperta inaspettata.
Nel 1992 il gruppo di ricercatori del sonno di Bologna, in collaborazione con un giovane professore della Johns Hopkins University di Baltimora, Jeff Rothstein, annunciò sulla rivista scientifica The Lancet di aver identificato la causa di una nuova e rara sindrome, fino ad allora denominata «stupor idiopatico ricorrente». Le persone affette da questa condizione soffrivano di episodi ricorrenti di stupor, addormentamenti profondi e improvvisi del tutto simili a quanto si può osservare nelle intossicazioni da farmaci – soprattutto benzodiazepine ai nostri giorni – ma tutti gli esami tossicologici risultavano negativi (da qui l’utilizzo del termine «idiopatico», un aggettivo normalmente utilizzato in medicina per indicare una causa ignota).
La domanda cui tutti volevano dare una risposta era questa: se lo stato di stupor non era dovuto a un’intossicazione da farmaci, che cos’era a provocarlo?
Secondo Jeff Rothstein e i bolognesi, la causa di questo disturbo, estremamente invalidante e pericoloso per la rapidità e l’imprevedibilità degli episodi, era un accumulo di endozepina-4, una sostanza di struttura sconosciuta la cui presenza era sospettabile grazie all’attività che in vitro – ossia su un preparato di tessuto cerebrale – i campioni di plasma raccolti dai soggetti durante l’attacco di stupor mostravano verso i recettori cui si legano le benzodiazepine. Questa attività era assente nei campioni biologici raccolti dagli stessi soggetti duranti le fasi di benessere. Rothstein, utilizzando una metodica di «gas-cromatografia» abbinata alla «spettrometria di massa», considerata allora la metodica più sensibile per rilevare la presenza di sostanze organiche nei liquidi biologici, identificò nel sangue dei pazienti un segnale, un picco presente durante l’attacco di stupor e assente durante le fasi di benessere. Questo picco correlava con l’attività recettoriale misurata in vitro, ma non corrispondeva ad alcuna sostanza esogena conosciuta. Eravamo quindi in presenza di una sostanza endogena in grado legarsi ai recettori per le benzodiazepine: Rothstein la chiamò endozepina-4. Si trattava di un’affermazione straordinaria, che apriva scenari importantissimi su uno dei temi allora in primo piano nelle neuroscienze: la ricerca di neuromediatori naturali in grado di modificare e controllare il sonno.
Negli anni a seguire, le ricerche andarono avanti e io, quale giovane ricercatore e coautore del lavoro uscito su The Lancet, mi occupai dei rapporti con Rothstein, raccogliendo i dati clinici dei casi segnalati da numerosi colleghi italiani. Spesso recandomi sul posto prelevavo i campioni biologici e li spedivo a Jeff. Contemporaneamente, avevamo attivato collaborazioni con chimici italiani e con ricercatori della multinazionale svizzera Roche: tutti i nostri sforzi erano concentrati su questa ricerca, e risalire alla struttura della sostanza sconosciuta era diventata la nostra missione. Occorreva cercare senza tregua altri casi, altri campioni biologici per raccogliere una quantità sufficiente di endozepina-4 a completare le analisi necessarie per svelarne la struttura chimica.
Il grande momento non si fece attendere troppo. Nell’estate del 1998 i giornali riportarono un fatto straordinario: un’epidemia di letargia aveva colto gli abitanti di un piccolo borgo nel comune di Capannori, in provincia di Lucca, in Toscana. Leggendo l’articolo sul Corriere della Sera era chiaro come con il termine letargia i giornalisti descrivessero episodi di sonno profondo, improvviso, di lunga durata, da cui le persone potevano essere risvegliate solo per pochi istanti e con stimoli molto intensi. Lasciati a loro stessi, immediatamente si riaddormentavano. Il termine letargia veniva allora utilizzato come un sinonimo di stupor.
Tutte le indagini tossicologiche di routine avevano dato esito negativo: lo stupor non era provocato da sostanze identificabili, ed era dunque possibile ipotizzare che gli abitanti del piccolo borgo soffrissero proprio dello stupor da endozepina-4 che stavamo studiando. Il nostro nuovo lavoro scientifico sull’argomento, che si occupava stavolta della casistica italiana, era in via di pubblicazione su Brain, e un’epidemia di «stupor endozepinico» rappresentava un’opportunità unica per comprendere maggiormente, e addirittura forse per risolvere, il mistero di questa malattia enigmatica.
Mentre stavo ancora leggendo la pagina del giornale ricevetti una telefonata da Lugaresi. Mi sentii immediatamente liberato dalla sensazione di disagio e insofferenza che sempre ho nei primi giorni di vacanza, quando ancora non riesco ad alzare gli occhi dalle pagine di libri e giornali e respirare l’odore del mare, spinto tra gli ombrelloni dalla docile e rinfrescante brezza estiva. Anche Lugaresi era al mare, come me intento a spulciare i quotidiani. La telefonata fu brevissima: «Dobbiamo muoverci, prepara subito la spedizione in Toscana». Non aspettavo altro, avevo un entusiastico via libera per addentrarmi nel Paese Incantato, come già molti avevano iniziato a chiamare quel misterioso borgo colpito da un incomprensibile incantesimo addormentatore.
Il mare, per quanto bramato, poteva attendere.
Contattai i colleghi del pronto soccorso menzionati nell’articolo: conoscevano i nostri lavori sullo stupor endozepinico, ed erano pronti a offrirci i campioni di sangue che avevano raccolto dai soggetti durante lo stupor per farceli analizzare. Prima di raggiungere Lucca, però, una tappa al Paese Incantato era obbligatoria. Partii immediatamente in direzione del borgo con Roberto Riva, il farmacologo del mio dipartimento esperto nell’analisi di farmaci nei liquidi biologici che era stato da poco cooptato nel «Progetto endozepina». Indipendentemente da Rothstein, che nel frattempo aveva spostato il suo interesse di ricerca sulla sclerosi laterale amiotrofica – grazie anche a nuove tecnologie disponibili in Italia e alle collaborazioni di Riva –, la ricerca della molecola responsabile del segnale endozepinico aveva fatto progressi importanti, ed eravamo certi che stavolta saremmo giunti a una soluzione soddisfacente.
Raggiungemmo il piccolo borgo toscano prima di pranzo; appena scesi dalla macchina, lo scenario che ci si parò davanti era quello di una scena del crimine: sei case, sotto l’argine di un corso d’acqua, si affacciavano sullo stesso cortile ghiaioso cui si accedeva da una strada bianca, affiancata da alti tralicci. Dietro le case, una staccionata divideva il borgo da una proprietà agricola, ed erano visibili i grandi serbatoi di resina che, come avevo appreso dall’articolo del giornale, contenevano i liquami di una vicina conceria. Sul confine si ergeva un grande fico, dal quale, nei giorni precedenti, una parente in visita aveva raccolto un frutto succoso prima di cadere addormentata in una condizione di stupor mentre era in auto sulla via di casa. Avevo letto e riletto l’articolo del giornale molte volte, la descrizione era stata così accurata che riuscii a orientarmi immediatamente. Pur non avendo mai visto quel paese prima di allora, nella mia mente già esisteva in ogni suo minimo dettaglio, tanto da produrre un effetto di déjà vu. È la stessa sensazione che abbiamo quando ci svegliamo da un sogno nitido, estremamente realistico: si fa fatica a convincersi che non sia accaduto davvero.
Oltre agli abitanti del borgo c’erano tecnici dell’azienda sanitaria locale – intenti nel rilevare le onde elettromagnetiche sotto i tralicci su cui erano collocati i ripetitori –, un giornalista avvertito del nostro arrivo e un collega dell’ospedale di Lucca. I residenti si dimostrarono fin da subito cordiali e ospitali. Le porte di tutte le case erano aperte, chiunque era libero di entrare nell’abitazione del vicino. Si conoscevano tutti da anni e la comunità, molto ristretta e saldamente ancorata alla terra natia, abitava il piccolo borgo come un’unica, grande famiglia. Solo una coppia vi si era trasferita più recentemente per accudire l’anziano parente che vi viveva e, alla sua morte, aveva deciso di restare. La maggior parte degli abitanti durante il giorno era fuori per lavoro, gli altri si prendevano cura delle piccole commissioni anche per i vicini assenti. C’era stata molta solidarietà fra le famiglie allo scoppio dell’epidemia di letargia; chi restava a casa e non aveva impegni di lavoro si prendeva cura anche dei convalescenti dopo gli episodi di stupor. Un uomo aveva avuto un addormentamento il giorno precedente al nostro arrivo, e quando giungemmo nel paese era ancora ricoverato in ospedale, sotto osservazione per possibili complicanze respiratorie.
Iniziammo dunque il lavoro di indagine sul campo, intervistando gli abitanti del borgo – sia chi era già stato colpito dall’episodio di stupor improvviso, sia chi sino a quel momento ne era stato fortunatamente risparmiato. Mentre avanzavamo tra le case tutti ci lanciavano timidi ma speranzosi cenni di benvenuto, e avevamo continuamente l’impressione di essere seguiti a distanza da molti occhi indiscreti. Due stranieri che come in una fiaba dei fratelli Grimm arrivano in paese per tentare di scacciare un maleficio difficilmente passano inosservati.
Dai primi racconti emerse che una famiglia aveva deciso di allontanarsi dal paese, tempo prima, per farsi ospitare da parenti, e una volta lontana dal borgo nessuno di loro aveva più avuto episodi di stupor. Un indizio importante che teneva aperta la strada di una possibile causa esogena, probabilmente presente nel microambiente del borgo. Altri indizi interessanti: lo stupor aveva colpito solo adulti, prevalentemente al mattino, dopo pranzo, qualche raro caso nel pomeriggio. Gli episodi avevano avuto durata variabile, da qualche ora fino a oltre 30 ore! In alcuni casi era stato necessario il ricovero in rianimazione, poiché la profondità del disturbo di coscienza, seppur transitorio, comprometteva la respirazione, ed era stato indispensabile intubare i pazienti. Un caso aveva avuto anche complicanze polmonari per una polmonite ab ingestis: il sonno era sopraggiunto durante il pasto e alcune particelle di cibo erano penetrate nelle vie aeree.
Fortunatamente non vi erano stati decessi ma in alcuni casi si era veramente temuto per la vita.
Mentre intervistavo gli abitanti, Riva effettuò un sopralluogo ambientale, raccogliendo campioni nei quali ricercare una contaminazione da endozepina-4. A fianco di una casa c’era un allevamento di uccelli da richiamo per l’uccellagione. Anche se regolarmente denunciato, la vicinanza alle abitazioni rappresentava un rischio per la trasmissione di possibili infezioni e contaminazioni alimentari, e neanche le condizioni igieniche generali erano ottimali: la rete fognaria era all’aperto, scaricava i liquami sulfurei e maleodoranti direttamente nei fossati circostanti.
Improvvisamente il nostro lavoro fu interrotto da un urlo: «Si è addormentata! Si è addormentata!». Una donna paonazza in viso gesticolava animatamente facendoci cenno di entrare dalla porta aperta di una delle case.
«Stia calma, ci racconti. Che cosa è successo?»
«Venite dentro, dovete vedere.»
La donna aveva trovato la sua vicina di casa in uno stato di addormentamento innaturale. Giaceva sul divano, persa in un sogno vuoto, inanimata. Appariva completamente immobile, come se il suo sguardo avesse incrociato gli occhi di Medusa, la gorgone immortale.
Entrammo nella casa. Nella prima stanza, la cucina, le pietanze sobbollivano sul fuoco acceso, la pentola sbuffava vapori odorosi di verdure e di spezie in cottura per la cena. Le due donne avevano da poco preso il caffè, la padrona di casa stringeva ancora la tazzina nella mano destra, ben salda tra il pollice e l’indice, ma non rispondeva a nessuna sollecitazione. Respirava con regolarità ma superficialmente, russando. Le funzioni vitali erano normali, la pressione bassa. Sollevai le palpebre e vidi che le pupille erano due punte di spillo, miotiche. Continuammo a chiamarla per nome, ma non reagiva neppure scuotendola energicamente. Spingendo con forza il dito sull’arcata sopraccigliare, nel punto di emergenza del nervo sopraccigliare, riuscivo però a provocare una risposta: si lamentava e allontanava la mia mano, quasi infastidita, ma senza svegliarsi. Era in una condizione di sonno profondo, di stupor. Le pupille, piccolissime, lasciavano presagire una possibile causa tossica.
Sentimmo una porta sbattere sul retro della casa, un rumore affrettato di passi sull’erba secca, come di legna vecchia che si spezza.
«Cos’è stato?»
«Deve essere il cane del vicino, ogni tanto sgattaiola dentro casa» rispose la donna che ci aveva fatto entrare.
«Può farmi una cortesia?» le chiesi.
«Certo dottore.»
«Bene, deve chiamare subito l’ambulanza.»
L’ambulanza arrivò in pochissimi minuti e partimmo per l’ospedale. In viaggio controllammo nuovamente i parametri vitali – erano grossolanamente normali, la pressione arteriosa sistemica era lievemente bassa e l’ossigenazione del sangue misurata con un sensore posizionato intorno al dito indice rilevava una saturazione d’ossigeno periferica del 94 per cento, normale in una persona un po’ in sovrappeso che dorme profondamente. Dopo una tac cerebrale di controllo, necessaria anche se era già il secondo episodio per la paziente, la donna fu trasportata direttamente nel laboratorio di elettroencefalografia.
Tutti sapevano quello che stavamo cercando. Un piccolo gruppo di medici incuriositi dal nostro arrivo riempì il laboratorio mentre la paziente veniva preparata per la visita. Dava solo rari segni di insofferenza e talvolta apriva leggermente gli occhi, socchiudendoli appena. Contemporaneamente, venivano monitorati i parametri vitali – l’ecg era visibile sul monitor, poche extrasistoli e null’altro – e le venivano prelevati campioni di sangue arterioso e venoso. Un catetere introdotto nella vescica raccoglieva l’urina per completare la ricerca di metaboliti di sostanze esogene. Le fu calcata sulla testa una rete di elastici che si adattava alle sue dimensioni, dilatandosi in modo omogeneo. Era così possibile posizionare, in punti prestabiliti della rete elastica, i tamponi imbevuti di pasta salina conduttrice. Ai tamponi appoggiati sul cuoio capelluto vennero collegati i fili che connettevano la paziente all’eeg, una macchina attraverso la quale è possibile raccogliere l’attività elettrica spontaneamente prodotta dal nostro cervello, amplificarla passando attraverso i galvanometri, filtrarla da artefatti dovuti alla contrazione muscolare, e trasformarla infine in una traccia scritta da decine di penne oscillanti sincronicamente su un grande foglio di carta che scorreva lentamente davanti ai nostri occhi. Il rumore delle penne che scrivevano, scomparso oggi negli eeg digitali, poteva guidare l’esperto elettroencefalografista alla diagnosi ancor prima di vedere il tracciato. Questa volta il rumore era senza dubbio quello dello stato di sonno: somigliava allo sciabordio dell’acqua, un tenue sciacquio di risacca. Ritmi fra i 3 e i 6 Hertz si alternavano, interrotti da brusii di qualche secondo. Il sonno non-rem, oltre al generalizzato rallentamento dell’attività di fondo cerebrale, presenta fisiologicamente brevi scoppi di attività rapida, non più lunghi di un centimetro e mezzo, un secondo e mezzo di durata, più evidenti sulle regioni anteriori dello scalpo, le regioni frontali. Si tratta dei «fusi del sonno» o sleep spindles, cosiddetti per il loro aspetto fusato, un crescendo-decrescendo dell’ampiezza delle onde a 12-16 Hertz che li costituiscono. Guardai l’eeg: le attività rapide avevano frequenze molto alte, superiori ai 15 Hertz, il brusio disegnava un’attività rigida, nessuna immagine fusiforme, e l’ampiezza era bassissima. Erano ritmi rapidi di origine farmacologica che ben riconoscevo. Era l’impronta digitale delle intossicazioni da farmaci barbiturici e benzodiazepine, ma anche dello stupor endozepinico che stavamo studiando.
Allora preparammo la paziente per la prova successiva: occorreva risvegliarla con l’antidoto per le benzodiazepine: il Flumazenil. L’antidoto era pronto e il collega lo iniettò in vena lentamente. Il tracciato eeg si modificò subito, «ripulendosi» dai ritmi rapidi; divenne più rumoroso, le attività lente del sonno scomparvero, l’ecg aumentò di frequenza e il respiro divenne più rapido e profondo.
In pochi secondi la paziente si risvegliò, si guardò intorno in preda all’ansia, madida di sudore.
«Che succede, dove mi trovo?»
«Va tutto bene signora, come si sente?»
«Mi sento… bene, ma sono molto stanca. Molto stanca.»
«Può dirmi se avverte qualcosa di particolare?»
«Mi sento le braccia e le gambe pesanti. Avrei tanto bisogno di dorm…»
L’efficacia del Flumazenil era transitoria, dipendeva soprattutto dalla quantità di sostanze in grado di legare i recettori delle benzodiazepine ancora disponibile nell’organismo: la paziente, infatti, riprese subito a dormire.
Il caso era identico alle decine che avevo raccolto negli ultimi anni, e la diagnosi era sempre stata stupor endozepinico. Se i risultati raccolti avessero dimostrato l’assenza di benzodiazepine commerciali, ancor prima della conferma della presenza di endozepina-4 la paziente avrebbe potuto accedere a uno studio sperimentale con assunzione quotidiana di Flumazenil fornito dalla Roche. In altri casi in cui avevamo proceduto con questo trattamento il risultato era stato molto buono.
Il congelatore a bassa temperatura dell’ospedale conteneva preziosi campioni di sangue e urina raccolti dai casi precedenti. In tutti la ricerca tossicologica di farmaci commerciali e sostanze d’abuso aveva dato esito negativo. Caricammo in auto il contenitore con il ghiaccio secco e le provette ordinate con cura. Eravamo certi di tornare a casa con tutto quello che serviva per un’importante segnalazione, forse addirittura per una grande scoperta. Una telefonata di Lugaresi aumentò l’entusiasmo in macchina: aveva deciso di completare lo studio in autonomia utilizzando una nuova strumentazione disponibile nella nostra rete di collaborazioni, la «cromatografia liquida ad alta pressione con spettrometria di massa a singolo quadrupolo». L’informammo dell’episodio di stupor cui avevamo assistito: l’opportunità di osservare direttamente un caso era stata una coincidenza fortunata e inaspettata. Durante il viaggio di ritorno avevamo inoltre ricevuto la comunicazione telefonica che anche nell’ultimo caso la tossicologia era risultata negativa: la spedizione era stata un successo, si trattava senza dubbio di stupor endozepinico!
Avevamo materiale sufficiente per lavorare con la nuova spettroscopia di massa; tuttavia, era necessario aspettare che la metodica di analisi sulla nuova apparecchiatura fosse messa a punto. Rientrati al nostro laboratorio, l’analisi dei campioni con le metodiche recettoriali in vitro e con la cromatografia liquida ad alta pressione con spettrometria di massa a singolo quadrupolo confermò l’attività recettoriale di tipo endozepinico e un picco corrispondente all’endozepina-4 descritto da Rothstein con la gas cromatografia e la spettrometria di massa. Come nei precedenti campioni della nostra casistica, i valori erano estremamente elevati: più di 300 volte rispetto a quanto risultava dai controlli e nei soggetti stessi del borgo al di fuori dall’attacco. Ci trovavamo di fronte a reperti sovrapponibili a quelli riscontrati nella casistica che nel frattempo era uscita su Brain. La presenza di benzodiazepine di sintesi, in particolare di Lorazepam, il cui picco si trovava nella prossimità di quello identificato da Rothstein come endozepina-4, era stata esclusa da una ri-analisi con la gas cromatografia e spettrometria di massa. Purtroppo questa tecnica aveva lo svantaggio di distruggere il campione biologico, e di non renderlo disponibile per ulteriori analisi. Riva era sorpreso e insospettito per quanto il picco del Lorazepam e quello della endozepina-4 fossero sovrapponibili. Notammo anche un’altra particolarità: in alcuni casi i colleghi di Lucca avevano ripetuto prelievi a intervalli regolari durante gli episodi, seguendo i pazienti fino alla normalizzazione del quadro clinico, e quello che risultò dalle nostre analisi fu una sorprendente sovrapponibilità dell’andamento delle quantità di endozepina-4 nel tempo rispetto alla farmacocinetica del Lorazepam.
Quando la tecnica di analisi combinata di cromatografia liquida ad alta pressione con spettrometria di massa a singolo quadrupolo fu in funzione, il risultato dell’analisi dei campioni del borgo fu sorprendente.
Ma, come dire, non esattamente quello che ci aspettavamo.
L’unica molecola identificabile nel picco corrispondente all’endozepina-4 era proprio quella del Lorazepam, una delle benzodiazepine sintetiche più diffuse e utilizzate (e purtroppo spesso anche autoprescritte). Il nostro entusiasmo raggelò di colpo. I fuochi di artificio già scoppiettanti nella nostra mente per festeggiare la storica scoperta si spensero al suolo come coriandoli, e la reazione di Lugaresi fu immediata: convocò subito una conferenza stampa per dire quello che stava emergendo dalle nostre analisi. La situazione degli episodi di stupor continuava infatti a perdurare nel borgo, e andava verificato se c’era un inquinante ambientale contenente Lorazepam, o se addirittura eravamo in presenza di un’azione fraudolenta, che andava fermata.
Almeno questo risultato fu perseguito: dopo la conferenza stampa gli episodi di stupor cessarono. Quello che però ancora non sapevamo era che i casi non avevano soltanto scatenato una corsa alla rivelazione scientifica. La magistratura, infatti, anche se all’oscuro della nostra scoperta probatoria, aveva avviato un’indagine e aveva inoltre verificato quanto fosse facile convincere un farmacista della zona a farsi rilasciare flaconi di benzodiazepine, Lorazepam incluso, anche senza la necessaria ricetta medica. Le indagini delineavano la cornice di un quadro criminoso, e si stava pian piano stringendo il cerchio attorno a un sospetto, che però era diventato difficile incastrare. Involontariamente avevamo scoperto le carte prima del tempo, dando forse la possibilità a qualcuno di far sparire le prove e di fatto intralciando le indagini. Ma eravamo troppo presi dal conoscere la fine della storia per preoccuparcene: esisteva davvero lo stupor endozepinico? Oppure dovevamo mollare tutto e lasciare definitivamente il campo alla magistratura?
Fortunatamente avevamo ancora a disposizione duplicati dei campioni inviati a Jeff Rothstein. Lo avvertimmo subito di quello che stavamo per fare. Il dottor Riva portò i campioni a Chieti per sottoporli alla prova della nuova cromatografia liquida ad alta pressione con spettrometria di massa a triplo quadrupolo ad alta definizione. Purtroppo il risultato fu lo stesso: il picco della endozepina-4 era Lorazepam. Esame dopo esame, sempre e soltanto Lorazepam. Crollava definitivamente la speranza di aver trovato una nuova sindrome, e non ci restò che dare comunicato a Brain di quanto avevamo «scoperto». Scrivemmo una lettera a completamento del nostro lavoro. Anche se non potevamo escludere che in alcuni casi riportati e analizzati lo stupor fosse davvero causato dalla endozepina-4 – e questo solo perché non di tutti i pazienti avevamo ancora campioni disponibili, in alcuni casi erano stati infatti completamente consumati per le analisi dei primi studi –, in tutti i casi rianalizzati l’endozepina-4 era Lorazepam.
I fatti accaduti nel Paese Incantato mi misero in guardia dal potere di seduzione del desiderio della scoperta, o dal piacere del gioco intellettuale di avanzare una diagnosi affascinante e incerta, ma plausibile. E, soprattutto, mi lasciarono un insegnamento decisivo: prima di considerare possibili cause rare ed esotiche occorre per prima cosa escludere quelle più comuni. È il principio alla base del rasoio di Occam: Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem, ovvero mai perdersi in inutili affabulazioni e ipotesi, ma concentrarsi sugli aspetti evidenti del fenomeno che si sta studiando.
Lo stupor resta infatti un’importante sfida diagnostica. Di fronte a un paziente con una perturbazione della vigilanza, insorta in modo acuto, improvvisa, occorre procedere rapidamente e in modo sistematico: molte sono le cause possibili, ed è necessario scartarle una a una prima di arrivare a una conclusione certa. Occorre, per esempio, escludere cause traumatiche cerebrali ed extracerebrali, ogni forma di danno cerebrale, cause tossiche e metaboliche, e assicurarsi quindi che non si tratti di un’intossicazione da benzodiazepine dovuta a un sovradosaggio involontario, volontario o fraudolento provocato da terzi, come nel caso del borgo. La routine tossicologica, anche al giorno d’oggi, non è però in grado di rilevare tutte le benzodiazepine. Il Lorazepam è una di queste. Si tratta di un punto davvero critico che non va mai trascurato. Di fronte alla negatività delle ricerche, conservare un campione di siero è sempre opportuno.
Sentiamo spesso parlare delle benzodiazepine, ma non tutti sanno davvero a cosa vanno incontro assumendole. Si tratta di farmaci, sostanze di sintesi, con una elevata affinità per alcuni recettori del sistema gaba, il più potente sistema inibitorio del nostro cervello, caratterizzate da una combinazione di effetti sul sistema nervoso centrale rappresentati principalmente da un’azione ipnotica, miorilassante, ansiolitica e antiepilettica. Milioni di persone le utilizzano, spesso quotidianamente, e anche se non esistono in natura alcuni cibi possono venirne contaminati.
La ricerca delle sostanze endogene (o in generale naturali) con azione simile alle benzodiazepine è stato uno dei temi importanti della ricerca neurofarmacologica della seconda metà dello scorso secolo. Fin dagli anni settanta sono stati individuati composti endogeni, presenti all’interno del nostro organismo, sia in condizioni fisiologiche sia patologiche, con un’azione sul sistema nervoso centrale simile a quella delle benzodiazepine, demominate endozepine. Una delle malattie responsabili della produzione di endozepine è per esempio l’encefalopatia epatica: nei quadri di grave insufficienza epatica, infatti, il paziente è soporoso e può precipitare in una condizione di stupor.
Negli anni novanta fu ipotizzato che alcuni casi di stupor ricorrente, nei quali non veniva identificato alcun agente causale e per questo denominati stupor idiopatico ricorrente, fossero causati da un aumento o dall’ingestione di endozepine. Come abbiamo ricordato, un indizio molto forte era la marcata affinità che campioni di sangue di pazienti con stupor idiopatico ricorrente presentavano in modelli in vitro, sperimentali, per i recettori del sistema gaba, gli stessi cui si legavano le benzodiazepine. Anche le caratteristiche elettroencefalografiche identiche a quelle dell’intossicazione da benzodiazepine e la reversibilità almeno transitoria dello stupor con la somministrazione del Flumazenil indicavano un meccanismo benzodiazepino-simile.
Le prime promettenti dimostrazioni dell’esistenza di una sostanza endogena ad attività benzodiazepinica, identificata durante gli attacchi di stupor idiopatico ricorrente ma non al di fuori degli episodi, aumentarono l’entusiasmo per la ricerca. L’identificazione da parte di Rothstein del picco della endozepina-4 nello stupor idiopatico ricorrente convinse un numero sempre crescente di clinici e ricercatori che questa fosse la sostanza responsabile dello stupor. La malattia divenne per tutti lo stupor endozepinico. Altri studiosi, in prima linea Fred Plum, autore assieme a Posner del trattato più famoso su «stupor e coma» e inventore del termine «stato vegetativo persistente», non furono mai convinti dell’esistenza dello stupor endozepinico. Plum sosteneva che, in qualche modo, le benzodiazepine dovevano necessariamente essere coinvolte. Occorreva cercare più a fondo. La diagnosi di stupor endozepinico, tuttavia, veniva ipotizzata ormai con estrema facilità. A volte anche con superficialità, tanto da meritare un richiamo da parte di allarmati autori australiani che dimostrarono come alcune diagnosi frettolose di stupor endozepinico mascherassero casi di sindrome di Münchhausen: il barone di Münchhausen, nella realtà come nella finzione, inventava storie inverosimili con protagonista se stesso. Le persone affette dalla sindrome dedicata al barone, sindrome di Münchhausen o sindrome di Münchhausen per procura (by proxy), si infliggono o subiscono sofferenze per attrarre attenzione. Nella sindrome di Münchhausen by proxy è un familiare (spesso la madre) a provocare un danno a un proprio caro per attrarre attenzione o ottenere gratificazione.
Lo stupor endozepinico a oggi è presente in molti testi medici, ma anche sulla rete, spingendo gli stessi pazienti verso la ricerca di una diagnosi assai improbabile. I lavori scientifici su una scoperta che non c’è mai stata arricchiscono alcuni curriculum accademici.
Anche se alcuni colleghi autorevoli ancora affermano convinti che lo stupor endozepinico esista, è un dato di fatto che dal 1998 nessuna diagnosi è più stata confermata dalle tecniche analitiche più avanzate, e la struttura dell’endozepina-4 resta sconosciuta e quindi mai pubblicata. Quando mi viene inviato un paziente con questo sospetto clinico lo metto subito in guardia sulla possibilità che la causa siano le benzodiazepine. Spesso, sopraffatto dall’orgoglio o dalla ritrosia, non torna più.
Per aiutare chi ha bisogno di una diagnosi a posteriori, rivolgendomi alla certosina pazienza di un collega farmacologo forense, Francesco Busardò, abbiamo scoperto che è possibile rintracciare la prova di un’intossicazione da benzodiazepine anche nel capello, che cresce lentamente e conserva memoria, come una vecchia agenda, di ciò che è stato somministrato in modo fraudolento e ha portato al sospetto di stupor endozepinico.
Se la ricerca della endozepina-4 è fallita, la storia del Paese Incantato ha insegnato a tutti che gli attuali accertamenti tossicologici di routine non sono sufficienti, aggiungendo un’importante informazione per chi si trova di fronte a un caso inspiegabile di stupor, e ci ha catapultato, almeno per qualche giorno, nell’ebrezza di un romanzo giallo.
Alla fine, il vero colpevole della letargia nel Paese Incantato fu trovato. Tutti gli indizi condussero a una donna molto benvoluta tra gli abitanti, che insieme al coniuge offriva assistenza agli anziani del paese, accudendoli dietro piccole retribuzioni e facendo anche da infermiera quando erano necessarie iniezioni. La scoperta agghiacciante però, che attirò l’attenzione di giornali e tv nazionali e internazionali, fu che la donna aveva preso da diverso tempo ad avvelenare i cibi e le bevande che offriva agli anziani abitanti: brodi, zuppe, cappuccini, crostate e torte con cui li rimpinzava erano tutti drogati con psicofarmaci e tranquillanti potenti. Un amore ossessivo e maniaco per la medicina, che la portò a diventare un alchimista inquietante e a produrre intrugli letali.
Mi ritornò in mente, appena appresi la notizia dell’arresto, l’anziana signora che avevo tentavo di scuotere dal sonno, immobile in una posa plastica sul divano del salotto. Il suo sguardo miotico, la mano che ancora stringeva la tazzina di caffè avvelenata, il colpo sordo della porta, il rumore di passi veloci sull’erba del giardino.
L’alchimista doveva essere stata lì poco prima…