2. Il gigante addormentato

E altri casi di narcolessia

Mentre che l’uno spirto questo disse,

l’altro piangëa; sì che di pietade

io venni men così com’io morisse.

E caddi come corpo morto cade.

Dante, Divina Commedia, «Inferno», v

Il gigante addormentato

C’è un’unica, semplice regola che nella maggior parte dei casi – per lo meno in quelli più impressi nella nostra immaginazione – decreta la fine di un incontro di boxe: se il tuo avversario ti mette ko, hai perso. E tutti prima o poi vanno al tappeto, succede anche ai più grandi. Quando nel 2002 il mastodontico inglese Lennox Lewis abbatté al suolo Mike Tyson con un gancio chirurgico all’ottava ripresa fu per tutti la fine di un mito. Il mondo intero aveva assistito allo sgretolarsi secco, improvviso, definitivo della leggendaria carriera di Iron Mike.

La storia del Signor G., uno dei miei pazienti più particolari, ha origine a suo modo dal ko più strano della storia della boxe, e può insegnare molto al riguardo a ciascuno di noi.

Quando conobbi il Signor G. era un uomo di sessantadue anni con una dubbia diagnosi di epilessia dall’età di ventidue. Lo incontrai per la prima volta negli ambulatori della vecchia Clinica neurologica di Bologna. Io avevo trent’anni, e da poco tempo dirigevo il laboratorio del sonno. La Clinica neurologica era un bellissimo edificio in stile umbertino costruito grazie a un lascito privato nei primi del Novecento per ospitare la Clinica delle malattie nervose e mentali. Tutta la Neurologia era concentrata lungo gli alti corridoi di questa maestosa struttura. Gli ambulatori occupavano le vecchie stanze di degenza della Neurochirurgia, in una palazzina degli anni cinquanta, al centro di un cortile abbracciato dalle ali laterali della clinica ottocentesca. Le lunghe stanze luminose si diramavano da un corridoio centrale, divise da porte in legno chiaro. Una scrivania, una poltroncina e quattro sedie tutte in alluminio leggero con sedute verdi erano posizionate in fondo alla stanza, di fronte a una larga finestra; da un lato erano stati collocati il lettino e il lavandino, dall’altro un armadio in metallo e vetro. La porta era esattamente di fronte alla scrivania; due feritoie incrociate di materiale trasparente – probabilmente disegnate così per poter osservare all’interno della stanza senza dover entrare – la alleggerivano donandole un’aura di eleganza. Anche dall’interno dell’ambulatorio, attraverso la porta, seduti alla scrivania, si vedeva benissimo chi stava per entrare.

Quel giorno intravidi dalle feritoie la figura di uomo corpulento, in T-shirt bianca e pantaloni grigi da ginnastica. Si avvicinava con passo deciso e l’aria di uno che col tempo aveva maturato una grande consapevolezza di sé. Il Signor G. aprì la porta con determinazione, dritto sulle gambe potenti, l’addome enorme sembrava una gigantesca palla appesa alle spalle e al torace, larghi e muscolosi. L’espressione del suo viso era un misto di cordialità e sfida. Quando però fece l’ultimo passo in avanti verso di me, ed eravamo pronti a presentarci l’un l’altro, immediatamente il Signor G. si trasformò. I muscoli del suo viso sembrarono cedere all’improvviso, le palpebre caddero coprendo parzialmente gli occhi che continuavano a fissarmi, la bocca sembrò nell’atto di aprirsi senza forza, le pieghe della faccia espressiva si spianarono mentre il volto era percorso da scosse involontarie. Poi la testa iniziò a ondeggiare sul collo, le spalle si afflosciarono e le braccia parvero pendere senza forza ai lati del tronco. Ondeggiò un momento sulle gambe molli prima di accasciarsi muto, senza un lamento, con i suoi 120 chili a terra, sul fianco sinistro, come un burattino senza fili, senza più forza.

Tutto era stato velocissimo: due, tre secondi.

Sapevo di cosa si trattava, mi precipitai al di là della scrivania con il martelletto già in mano – ogni neurologo ha un martelletto in tasca, sempre pronto per essere estratto. Dovevo verificare la presenza dei riflessi, soprattutto i rotulei. La scomparsa dei riflessi rotulei durante l’attacco è infatti uno dei segni caratteristici della «cataplessia», il disturbo del movimento che caratterizza la «narcolessia». Controllai con lo sguardo che la respirazione del paziente fosse regolare, seguendo con gli occhi la sua caduta ero certo che non si fosse fatto male. Respirava regolarmente e gli occhi erano semiaperti. Mi inginocchiai davanti a lui e sollevai la gamba destra con la mano sinistra a piegare il ginocchio. Percossi con il martelletto il tendine rotuleo più volte, nessun riflesso evocabile dal muscolo quadricipite. Spostai la gamba con fatica – era completamente a peso morto – e ripetei la medesima manovra con la sinistra. Stessa assenza di risposta. Allora mi avvicinai al suo viso; era percorso da un lieve tremolio. Presi a chiamarlo ad alta voce, non rispondeva ma notai un cenno nel suo sguardo, come se volesse farmi intendere che c’era, che era lì, che aveva capito. Mi sollevai e continuai a osservarlo, di fianco a me i quattro studenti in camice bianco che seguivano il mio ambulatorio aguzzavano lo sguardo su qualunque dettaglio potesse manifestarsi. Tutti assieme accerchiavamo il Signor G., che iniziò a ondeggiare una, due, tre volte, mosse il braccio sinistro appoggiandolo a terra davanti a sé per aiutarsi a spingere, sollevò la testa, senza mai dire una parola, e iniziò a scuotersi ritmicamente. Con esperienza scrollava il suo corpo per liberarlo dalla paralisi che lo attanagliava. Mi guardò e bisbigliò in fretta, prima di perdere nuovamente la parola: «Andate via! Presto, allontanatevi!».

Ripiombò a terra, immobile, inerme. Con il rumore di un bufalo abbattuto al suolo, di una roccia scaraventata in mezzo all’acqua.

Invitai gli studenti a voltargli le spalle e a raggiungere le sedie per sedersi: dovevamo smettere di osservarlo, e allentare l’accerchiamento emozionale attorno al paziente. Quando ci rigirammo verso di lui lo trovammo in piedi, era ritornato padrone di tutta la sua forza fisica.

Nel 1960, quando aveva ventidue anni, il Signor G. era un promettente pugile dilettante, pesi medi, così bravo da essere stato selezionato per le Olimpiadi di Roma. Era nato in un piccolo borgo e portava dentro di sé tutta la voglia di vivere, di scherzare, di vincere che il corpo giovane di un atleta di successo può contenere.

Durante un allenamento, due mesi prima delle Olimpiadi, iniziò a deridere il suo sparring partner. «Sei troppo lento!» gli urlava sfidandolo. Talmente lento che, diceva, gli sembrava di vedere i suoi colpi a rallentatore, li schivava con la semplicità con cui Neo riesce a eludere i proiettili nella celebre saga di Matrix. Così lento che il giovanissimo Signor G. trovava addirittura il tempo di ridere e scherzare mentre era intento a schivarli o pararli. Quando però vide partire il più goffo di tutti i tiri e stava per gridare al suo allenatore «Ritirati! Sei un brocco!», la voce improvvisamente non uscì più, le ginocchia cedettero, il pugno appena sferrato volò senza bersaglio nel vuoto. Cadde prima ancora di essere colpito, e insieme a lui caddero tutte le certezze, tutti i sogni, tutte le ambizioni che aveva coltivato – per prima quella di partecipare alle Olimpiadi.

Le successive settimane di accertamenti medici esclusero un tumore o un’emorragia cerebrale. Il giovane Signor G. risultava anche molto stanco, o per meglio dire aveva continuamente sonno.

«Mi dissero che avevo il malcaduco [l’epilessia] e mi imbottirono di farmaci. Ero convinto fossero quelli a provocare la sonnolenza, ma dovunque mi trovassi, se non ero in movimento, mi addormentavo d’improvviso con sogni terribili, sembravano veri.»

Le cadute però non si ripeterono più, e così i medici decisero di dimetterlo. «Ma la seconda volta mi capitò con una donna, dottore… a letto con una donna! Capisce?» Appena ebbe finito di dirmi queste ultime parole, il viso del Signor G. cambiò completamente forma: dal suo bellissimo volto ricco di espressività scomparve ogni traccia di vitalità, piccole scosse percorsero le palpebre, le guance, la bocca; le parole sembravano essersi fermate sulle labbra socchiuse, poi la sua testa cadde violentemente in avanti. Sentimmo la colonna cervicale stirarsi, il rumore della mandibola che sbatteva secca contro lo sterno. Stava succedendo ancora. Sorressi la testa del Signor G.: bisognava solo aspettare che passasse, di nuovo, in silenzio.

La sua carriera pugilistica finì a ventidue anni. La sua vita fu segnata da una malattia che non gli consentì di allontanarsi che di pochi chilometri dalla sua casa sotto l’argine di un fiume, dove abitava. Visse come un invalido, fu trattato come un epilettico per trentacinque anni, finché non gli fu detto finalmente qual era il suo vero problema: il Signor G. soffriva di narcolessia.

Nonostante una vita messa ko dalla sfortuna, il Signor G. non rinunciò mai a ridere e a far ridere gli amici, anche se questo, purtroppo, lo faceva cadere a terra ogni volta.

«È pericoloso camminare in mezzo al bosco al buio» disse Pollicino, «è così facile rompersi l’osso del collo!» Per fortuna s’imbatté in un guscio di lumaca: «Sia lode a Dio!» pensò. «Qui posso addormentarmi al sicuro!» e vi entrò.

Charles Perrault, Pollicino

 

Il bambino mangiato dal bosco

Immaginate due fratelli gemelli, identici pressoché in tutto, a parte, chiaramente, il carattere. Patrizio e Tiziano, i nostri due gemelli, hanno undici anni. Sono entrambi due ragazzini vivaci, diversi nel temperamento: Tiziano è il più birbante, ama fare scherzi, combinare marachelle, come tutti i bambini dotati di sana vivacità. Insieme si divertono molto, sono decisamente affiatati, anche perché Patrizio, di indole assai più posata e tranquilla, sopporta con buon carattere l’irrequietezza e l’esuberanza di Tiziano. Tiziano sa di avere una buona spalla in suo fratello, e conosce bene anche la sua pazienza: sa che non può approfittarsene e quali sono i limiti da non superare. Quando si arrabbia Patrizio non ce n’è per nessuno: «Buono sì» dice sempre, «ma mica scemo».

Sono due ragazzi belli, sani, sportivi. Vivono la loro età nel pieno delle forze che la giovinezza gli concede.

Accadde però, a un certo momento, proprio appena finita la scuola, che Patrizio iniziasse a sentirsi un po’ stanco, debole, affaticato – niente di preoccupante, ovviamente, nulla di così grave da far allarmare i due premurosi genitori. L’esame di quinta elementare è pur sempre una tappa faticosa, e c’era tutta l’estate per riposare e divertirsi. Qualche sonnellino, dopotutto, non ha mai fatto male a nessun bambino.

Quell’estate, per festeggiare la fine delle elementari, i genitori decisero di iscriverli a un campo estivo: un campeggio di scout, una settimana di autentica immersione nella natura. Entrambi si sentivano emozionati, per la prima volta gli era permesso di andare in vacanza da soli.

Quando erano ormai in campeggio da qualche giorno, accadde però un fatto molto strano. Dopo una lunga giornata trascorsa a perlustrare cespugli e costruire cestelli con i rami di abete, arrivò l’ora della cena davanti al fuoco. I ragazzi cantavano, suonavano la chitarra, si raccontavano storie e barzellette – qualcuno tentava invano di portare l’attenzione sui racconti di paura: «C’era una volta un orso con quattro occhi…» iniziò a dire, ma venne subito fermato. Si era ormai fatto tardi, e i giovani scout dovevano andare a letto e fare sogni d’oro per essere in forma la mattina successiva. Gli istruttori organizzarono allora un ultimo, rapido nascondino prima di rientrare tutti nelle tende. Fu subito un fuggi fuggi scalmanato, alcuni si accovacciarono dietro un albero, altri sotto le coperte, qualcuno provò a mimetizzarsi con l’erba stendendosi a terra – inutile dire che probabilmente non funzionò. Al termine del gioco tutti i ragazzi si ritrovarono nel piazzale del campo, sia chi era stato scoperto sia chi era riuscito a liberarsi correndo veloce all’albero della «tana». Rientrarono tutti, tranne Patrizio. Di lui nessuno sapeva nulla.

I compagni provarono a cercarlo ovunque nell’accampamento, ma niente, non si trovava. Gli istruttori, preoccupati, presero le torce e cominciarono a perlustrare la zona che circondava lo spiazzo delle tende. Chiamarono il suo nome a gran voce, eppure nessuno dal bosco rispondeva.

«Ve lo avevo detto» gridò uno dei bambini agli altri che si erano radunati in cerchio, «in questa foresta ci sono i mostri. Lo so io che fine ha fatto Patrizio. Quello non torna più, se l’è mangiato il bosco!»

Dopo una ricerca affannosa e angosciante finalmente lo trovarono: era acquattato sotto un albero, seduto, appena coperto dalle fronde scure che si protendevano dal fusto di un acero altissimo. Stava dormendo. Sembrava immerso in un sonno profondo, ma non appena bambini e istruttori si avvicinarono aprì gli occhi: «Mi sono addormentato». Preoccupati da ciò che era successo, gli istruttori decisero di avvisare immediatamente i genitori.

Una cosa apparì subito evidente: non poteva trattarsi soltanto di stanchezza; l’ultimo nascondino era stato chiassoso e carico di tensione, l’adrenalina era a mille. In poche ore Patrizio fu visitato da diversi medici, tutti concordi col rilevare che il bambino non aveva davvero nulla, era sano come un pesce. Eppure, nei giorni successivi, tornato a casa, parve addormentarsi dappertutto, a tavola, in macchina, a casa degli amici. Ingrassava velocemente, mentre Tiziano restava asciutto, atletico, energico. Il suo carattere non cambiava, era ancora un ragazzo estremamente creativo e intelligente. Ma dormiva, dormiva continuamente.

«Patrizio soffre la personalità esuberante del fratello, finge di avere un problema per attirare l’attenzione; è necessaria una psicoterapia, di tutta la famiglia» dissero i neuropsichiatri infantili a fronte di una miriade di accertamenti neurologici normali. I genitori, Patrizio e Tiziano si sottoposero così per mesi a estenuanti, dolorosi e costosi colloqui per tentare di risolvere un complesso che si rivelerà poi inesistente. Fortunatamente, infatti, non emersero elementi che indicassero conflittualità di rilievo, tantomeno traumi psicologici celati. Ma non c’era neppure una soluzione. Patrizio continuava ad addormentarsi ovunque, non riusciva neppure a frequentare le scuole medie. Però rivelava doti artistiche molto talentuose, e dipingere e scolpire sono sempre ottimi stratagemmi per non cadere addormentato: solo in questo modo Patrizio riusciva a tenersi sveglio, e iniziò così a seguire con successo i corsi dell’Accademia d’Arte.

Con Tiziano coltivava inoltre la passione per la musica: avevano formato una rock band con altri due amici, lui era alla batteria e suonava per ore senza mai stancarsi. Non appena si sedeva un attimo nella pausa, però, si addormentava di colpo. Quando era fuori casa, il suo fantastico carattere, la protezione del fratello e la sua forza fisica facevano da scudo naturale contro i bulli pronti a far scherzi atroci a una vittima inerme come lui.

Per sei anni i genitori si rivolsero senza mai arrendersi a ogni tipo di specialista medico, alla medicina alternativa, anche a stregoni che promettevano cure magiche grazie a intrugli miracolosi, ma rimanevano sempre senza risposte. Un giorno, la madre di Patrizio e Tiziano ascoltando la televisione mentre preparava la tavola sentì parlare di un disturbo molto particolare, la narcolessia, e riconobbe uno dopo l’altro tutti i sintomi di Patrizio. La sonnolenza di Patrizio era stata talmente soverchiante rispetto agli altri sintomi da non essere mai stata valorizzata. Quando rideva a crepapelle, a volte si afflosciava a terra, e la notte aveva sempre incubi. Ma nessuno visitando Patrizio aveva mai chiesto nulla riguardo questi episodi, e lui non li aveva mai raccontati.

Quando arrivarono a Bologna, avevano già la certezza della malattia che avrebbe accompagnato la vita di loro figlio, ma cercavano una conferma dalla medicina. Nonostante le tante diagnosi proposte, sempre puntualmente sbagliate, non avevano ancora perso la fiducia nei medici.

Patrizio ora ha due figlie e una famiglia bellissima. Cura i giardini più importanti di Firenze assieme a suo fratello Tiziano. Suona con gli amici, e a quarant’anni ha deciso di prendere la patente. La sonnolenza da tempo non rappresenta più un rischio per lui. I genitori di Patrizio, dopo questa esperienza, hanno fondato l’Associazione italiana narcolettici e ipersonni, occupandosi di campagne di informazione che consentono a centinaia di famiglie di avere una rapida diagnosi per i loro figli e di accedere finalmente ai farmaci di cui hanno bisogno.

La danza delle ombre

La Signora I. negli anni cinquanta non aveva ancora vent’anni, si era appena sposata e aveva avuto un figlio. Lavorava in casa confezionando vestiti fatti a maglia quando, improvvisamente, nell’arco di pochi giorni, iniziò a soffrire di intensa sonnolenza. Non riusciva più a occuparsi del suo bambino, si addormentava durante l’allattamento rischiando di farlo cadere, non lo sentiva quando piangeva e non riusciva a seguire il marito, preparare i pasti, sbrigare le faccende quotidiane, curare la casa. Oltre alla sonnolenza, un altro fenomeno molto strano si manifestò di lì a poco: sulle pareti della sua nuova casa avevano preso a comparire inquietanti figure dal collo lungo, immagini evanescenti, molto più concrete di semplici ombre; avrebbero potuto essere persone entrate in casa sua di nascosto, furtivamente, e la Signora I. cominciò a percepire una crescente sensazione di minaccia: di chi erano quelle ombre danzanti sopra i muri? Che cosa volevano da lei?

Le allucinazioni interrompevano il suo torpore, si risvegliava da brevissimi assopimenti terrorizzata, ed era certa di presenze sinistre e malvage, seppur indefinibili, che passeggiavano avanti e indietro nella sua abitazione. Era convinta di essere spiata da qualcuno e si sentiva in pericolo.

Il medico la inviò alla Clinica delle malattie nervose e mentali di Bologna – così era allora denominata la mia clinica. A quei tempi psichiatria e neurologia erano contenute in un’unica specialità, e i neuropsichiatri diagnosticavano e curavano patologie dai confini indefiniti e pesantemente stigmatizzate fra la malattia mentale e la disfunzione neurologica. Nonostante la narcolessia fosse già stata descritta nel 1880 da un medico francese, Jean-Baptiste-Édouard Gélineau, e considerata una malattia neurologica causata da una disfunzione cerebrale ancora da identificare, i sintomi della Signora I. non furono valutati nella loro complessità, e la diagnosi di narcolessia non fu neppure presa in considerazione.

L’importanza della sonnolenza, sintomo cardine della narcolessia, fu trascurata. Fu anzi scambiata per l’apatia e l’astenia di una depressione e le allucinazioni considerate il segno allarmante di una difficile condizione post-partum, tanto comune in una giovane moglie – soprattutto se sradicata dalla famiglia di origine – quanto pericolosa. In considerazione della gravità del quadro e dell’inefficacia dei barbiturici, che peggiorarono anzi la sonnolenza e le allucinazioni, le vennero praticati 7 elettroshock. La Signora I. ritornò dal marito profondamente segnata. Fu affiancata dalle altre donne della famiglia che la aiutarono a crescere il figlio e ad accudire la casa. L’esperienza del trattamento sanitario la condizionò per decenni e, nonostante la persistenza dei sintomi, si risolse a non parlare più con nessuno dei suoi problemi di sonnolenza e allucinazioni, preferendo trascorrere quasi tutte le giornate della sua vita nello stretto raggio della sua casa di campagna.

Quando tempo dopo un tecnico di polisonnografia del mio laboratorio ascoltò da sua madre (che era una delle poche amiche della Signora I.) la storia di questa donna, cercò immediatamente di farle sapere che c’era una probabile soluzione al suo problema. La Signora I. e la sua famiglia impiegarono oltre due anni a trovare il coraggio di rivolgersi di nuovo a un medico che lavorava in quella stessa clinica dove le erano state inflitte tante sofferenze, e che per sempre aveva stigmatizzato la sua vita.

Dopo la diagnosi di narcolessia, a oltre settant’anni e dopo cinquanta di malattia, la vita della Signora I. rifiorì. Finalmente aprì il cancello del suo cortile e ogni giorno, instancabilmente, si occupò della salute delle altre persone e della cura di se stessa.

Al primo controllo mi disse: «Finalmente sono riuscita a leggere un libro e a non addormentarmi dalla parrucchiera!», con la voce tremante di gioia di chi si è riappropriato dopo tanto tempo di cose che a tutti noi sembrano scontate. Ormai era pienamente cosciente che le presenze che animavano le pareti della sua casa erano solo sogni; sogni che affioravano direttamente dalla veglia. Conoscere le caratteristiche della malattia e assumere con costanza i farmaci l’avevano liberata completamente dalla paura. A settant’anni divenne una divoratrice di libri, e ne trasse grande piacere fino alla fine della sua vita.

Il Signor G., il piccolo Patrizio e la Signora I. hanno tutti condiviso, seppur con esperienze diverse, i gravi sintomi della narcolessia. La narcolessia (dalle due parole greche narke, «sonno» e lambanein, «sorprendere») è stata la prima malattia del sonno a essere descritta come tale, nel 1880, e ha portato per decenni il nome del medico che ne aveva coniato il termine: sindrome di Gélineau.

Il francese Jean-Baptiste-Édouard Gélineau era coetaneo del fondatore della neurologia moderna, Jean-Martin Charcot. Assai meno accademico del suo illustre contemporaneo, Gélineau era dotato di uno spirito decisamente avventuroso. Mentre Charcot insegnava con rigore scientifico e con sapienza scenica alla Salpêtrière di Parigi – seduto nella prima cattedra di neurologia della storia della medicina – come distinguere l’isteria dalle paralisi neurologiche, come visitare un malato con sclerosi laterale amiotrofica e come riconoscerne i sintomi iniziali, Gélineau era un ufficiale medico che solcava mari fino alle colonie francesi, in prima linea nella battaglia contro il colera, che gli valse la Legion d’Onore, e anche contro lo schiavismo. Ritornato in Francia si dedicò a una redditizia professione al di fuori dell’accademia inventando, grazie alle esperienze accumulate durante i suoi esotici viaggi, cocktail farmacologici e rimedi empirici. Divenne famoso soprattutto per una miracolosa pastiglia a base di arsenico e bromuro, la dragée du Dr Gélineau, che aveva creato per trattare le crisi dei pazienti epilettici.

Ed è per questo motivo che nel 1880 un giovane bottaio accompagnato dal figlio si rivolse a Gélineau: il vecchio soffriva di improvvise cadute, da sempre considerate un segno altamente suggestivo di epilessia. Ma Jean-Baptiste-Édouard era un medico raffinato e curioso, la sua cultura non gli consentiva di fermarsi alla prima e più banale interpretazione e di liquidare il paziente dopo avergli venduto le sue pillole. Notò immediatamente la sonnolenza del Signor G., insorta secondo il paziente assieme alle cadute, ormai da qualche anno. Era per questo che il figlio lo accompagnava continuamente, aveva il compito di tenerlo sveglio. Non appena notava un cedimento di sonno nel padre gli sferrava una gomitata, in questo modo poteva portare a buon fine le trattative sulle sue botti e continuare a sostenere la famiglia. Il sonno era poi un disastro: risvegli continui, sogni terrificanti. Ma erano le cadute il vero problema, comparivano in ogni momento, in maniera apparentemente casuale.

Anzi no, a pensarci bene c’erano dei fattori scatenanti.

A provocare la caduta era solitamente una grassa risata; il Signor G. era un uomo estremamente simpatico, aveva una vera passione per raccontare fatti esilaranti, e questo facilitava anche il lavoro di Gélineau. Era proprio il ridere che lo faceva cadere, anzi spesso cadeva quando aveva la battuta sulla punta della lingua. Avete presente quel momento in cui state per dire qualcosa di così divertente da ridere voi stessi ancora prima di dirla? Quando questo capitava al Signor G. la reazione del suo corpo era sempre la stessa: si accasciava improvvisamente al suolo. E poi il gioco delle carte. Non si poteva più avere una chiusura in mano, il Signor G. crollava sul tavolo e le carte si sparigliavano sul pavimento.

Gélineau lo visitò accuratamente, ma a parte un modesto sovrappeso – a quel tempo segno di benessere –, non rilevò nulla di strano. Concluse che l’affezione che colpiva il Signor G. non poteva essere epilessia, e certamente non si rammaricò di non potergli vendere le sue compresse. Gélineau poteva infatti trarre molto più di qualche spicciolo da quella bizzarra situazione: aveva già nella penna una nuova straordinaria osservazione, che nessuno aveva notato prima. Una nuova malattia che Gélineau attribuì a una disfunzione del sonno e che chiamò narcolessia. Immediatamente nuovi casi vennero riconosciuti in tutta Europa, decine di persone accomunate dagli stessi sintomi rispetto ai quali nessuno aveva saputo offrire una soluzione. A onor del vero, qualche caso simile era stato già riportato dai medici negli anni precedenti, ma l’enfasi che Gélineau dette al suo scritto sulla Gazette des hôpitaux civils et militaires, il successo che raccolse e l’azzeccatissimo termine «narcolessia» azzerarono possibili dispute.

A conclusione di una carriera medica di grande successo, Gélineau aveva anche la sua sindrome. E mentre lui, totalmente realizzato, si ritirava nella tenuta della sua famiglia a Bordeaux a produrre vino, la narcolessia continuò ad affascinare gli studiosi dei sogni e del cervello, pur rimanendo per oltre cento anni un assoluto mistero. Fino ad anni più recenti, in cui siamo finalmente riusciti a capire e trattare in maniera mirata questo disturbo.

Tutti oggi sappiamo che cosa sia la narcolessia, giornali e programmi televisivi riportano le storie e le testimonianze di persone comuni che soffrono di questo disturbo, e decine di film e racconti hanno usato questa malattia per costruire personaggi spesso bizzarri e dai tratti comici. Eppure se vi chiedessi di spiegare di cosa si tratta precisamente, in pochi sapreste formulare una descrizione convincente.

La narcolessia è una malattia abbastanza rara: colpisce non più di 4 persone ogni 10 000, ma oggi – così come anni fa – è altamente sottodiagnosticata: in Europa e in usa mediamente si impiegano oltre 10 anni per raggiungere una diagnosi corretta, e molto spesso le persone che ne soffrono riescono a prenderne coscienza solo dopo aver vissuto quasi tutta la loro vita segnate da esperienze per loro sinistramente inspiegabili. Si tratta di una malattia neurologica – ossia causata da una disfunzione del sistema nervoso centrale –, caratterizzata da un’eccessiva sonnolenza diurna: spesso gli attacchi di sonno compaiono in momenti di inattività, hanno breve durata e sono ristoratori, nel senso che il soggetto narcolettico si risveglia dal sonnellino riposato; ma questo riposo dura poco, in genere appena qualche ora. Spesso i sonnellini e la sonnolenza si presentano ripetutamente nel corso della giornata. La caratteristica forse più strana è che il sogno affiora direttamente dalla veglia, non appena si chiudono gli occhi, e anche quando si socchiudono: è come se per un momento travalicasse la sottile linea del sonno e raggiungesse il mondo reale (o almeno ciò che così chiamiamo). È allora difficile distinguere il sogno, o l’allucinazione, dalla realtà, e spesso ci convinciamo, come la Signora I., che le immagini proiettate dalla nostra mente nel mondo esterno non siano frutto di una fantasia, ma pericoli concreti.

Per quanto possa sembrarvi una manifestazione magica ed esoterica, questo fenomeno ha una ragione scientifica molto precisa: è dovuto all’incapacità del nostro cervello di controllare il ritmo sonno-veglia. Nella normale fisiologia, due tipi di sonno, il sonno non-rem (non rapid eye movement, il sonno senza i movimenti rapidi degli occhi), cioè il sonno profondo, e il sonno rem (rapid eye movement, con i movimenti rapidi degli occhi), si alternano regolarmente, e all’addormentamento il sonno non-rem precede il sonno rem. Quando ci addormentiamo, il sonno inizia con le fasi più leggere del sonno non-rem, divenendo poi sempre più profondo. Ogni 90 minuti circa il sonno non-rem lascia spazio al sonno rem: è qui che sogniamo e il grande spettacolo teatrale della nostra mente va in scena. Il nostro cervello in questa fase, così come può documentare l’elettroencefalogramma, ha un’attività elettrica molto simile a quella della veglia. Eppure stiamo dormendo, e il nostro corpo è quasi completamente paralizzato, a eccezione dei muscoli respiratori, degli occhi e degli orecchi. Infatti respiriamo, muoviamo gli occhi, il nostro udito funziona. Siamo pronti a svegliarci da un momento all’altro. Queste due fasi del sonno si alternano così più volte, quattro o cinque, nel corso della notte. Il sonno profondo prevale nella prima parte della notte, il sonno rem nella seconda, e questa fisiologica alternanza è garantita da due circuiti cerebrali e controllata da complessi sistemi, solo in parte conosciuti.

Fin dagli anni sessanta dello scorso secolo sappiamo che in chi soffre di narcolessia questa alternanza è però perduta. Ogni volta che una persona con la narcolessia si addormenta, immediatamente sogna, senza passare per il foyer del teatro dei sogni, senza attraversare la Terra di Mezzo. Anche quando si addormenta durante il giorno – e questo nella narcolessia accade con estrema facilità – subito la persona si immerge nello scenario onirico.

È come se l’interruttore biologico che garantisce l’alternanza non-rem e rem non funzionasse, e la luce nella stanza dei sogni rimanesse sempre accesa. E il sonno rem può allora farla da padrone, tanto che anche durante il giorno ogni 90-120 minuti rischia di rompere la stabilità della veglia, provocando un sonnellino o un colpo di sonno che di solito dura dai 5 ai 15 minuti. Dopodiché il sonno rem, soddisfatto per lo «spuntino», lascerà al soggetto narcolettico l’illusoria sensazione di aver riposato, e lo sfuggente ricordo di un sogno.

I sonnellini ristoratori che talvolta ci concediamo per ricaricare le pile non vanno però mai confusi con gli attacchi di sonno della narcolessia, e nel caso aveste dubbi l’età anagrafica può essere un primo utile termometro. Anche se può comparire a qualsiasi età, le vittime preferite della narcolessia sono i bambini, gli adolescenti, i giovani, sia maschi sia femmine.

Come nelle storie di narcolessia che ho raccontato, il segno predominante dell’esordio della malattia può essere variabile, anche se quattro segni sono quasi sempre presenti in ogni soggetto narcolettico. Il sintomo principale è la sonnolenza diurna, con attacchi di sonno incoercibili e talora non preavvertiti. La cataplessia è invece il sintomo più caratteristico e bizzarro: è un improvviso, breve e reversibile episodio di debolezza muscolare che accade in concomitanza con emozioni, come il riso, la sorpresa, più raramente la rabbia, le emozioni intime, il rapporto sessuale. Può coinvolgere tutti i muscoli improvvisamente, causare una brusca caduta senza perdita di conoscenza, oppure iniziare dal viso e discendere in giù, coinvolgendo in una cascata di debolezza altri muscoli del corpo, o ancora manifestarsi come un’isolata debolezza delle ginocchia, sempre in corrispondenza di un’emozione. Dopo pochi secondi, a volte due-tre minuti, tutto è passato. Si ritiene che la cataplessia sia legata alla paralisi dei muscoli, tipica del sonno rem, che compare nella veglia a causa della malattia. Le allucinazioni ipnagogiche invece sono spesso esperienze spaventose, precedono il sonno o compaiono quando il narcolettico è sonnolento: ombre, figure, insetti, animali, false percezioni di ogni tipo attraversano la mente delle persone con narcolessia che, soprattutto prima della diagnosi, non riescono a distinguerle dalla realtà. L’esperienza è ancor più terrificante se l’allucinazione si associa alla paralisi del sonno, all’impossibilità di muoversi, fuggire o difendersi da quello che pensiamo stia accadendo. Il soggetto, al momento di addormentarsi o risvegliarsi, si sente infatti improvvisamente incapace di muoversi o parlare e avverte spesso un peso sul torace che rende difficile respirare. Se durante una paralisi del sonno compare un’allucinazione di una figura minacciosa, assai vivida e verosimile, ci si può sentire perduti.

La notte di chi soffre di narcolessia è attraversata da incubi, sogni, sensazioni di uscire dal proprio corpo, decine di risvegli. È talvolta angosciante leggere nei messaggi cifrati dei bambini narcolettici – i loro disegni – di terrificanti visite notturne, figure cariche di angoscia scarabocchiate su un foglio in maniera a volte confusa, o scorci di scenari più piacevoli, dai tratti animali, fiabeschi. C’è anche chi sa trarre vantaggio dall’abbondante attività onirica; immagini, suoni, colori, voli, percezioni e avvenimenti fantastici possono rappresentare una vera fucina di creatività. Ma il continuo sognare, sia piacevole sia spiacevole, è in ogni caso l’espressione di una marcata instabilità del sonno, così come i ripetuti addormentamenti durante la veglia lo sono dell’incapacità di mantenere una vigilanza corretta.

La narcolessia rappresenta oggi una frontiera per la ricerca nelle neuroscienze. Emmanuel Mignot della Stanford University ha recentemente scoperto, nel cervello dei pazienti narcolettici, la scomparsa delle cellule adibite alla produzione di orexina – una sostanza precedentemente studiata per il suo possibile ruolo nel controllo dell’appetito –, aprendo innumerevoli linee di ricerca. Da una parte i ricercatori esplorano circuiti e centri nervosi sconosciuti, responsabili dell’alternarsi della veglia e del sonno, del riposo e dell’attività motoria; dall’altra, presto i pazienti con narcolessia potranno trovare la naturale soluzione al loro sonno incoercibile, alle loro cadute, alle allucinazioni, ai sogni terrifici e alle paralisi che popolano il loro sonno.

Anche per la malattia di Jean-Baptiste-Édouard Gélineau la ricerca aprirà il tempo della cura. E storie come quella del Signor G., del piccolo Patrizio e della Signora I. avranno forse definitivamente un lieto fine.