Uno strano caso di sonnambulismo
Sarà capitato a molti di voi.
Senza avere nessuna idea di come sia accaduto, né del perché, né di quanto tempo sia durato. È stato tutto vertiginosamente veloce, non è vero? Vi siete ritrovati lì, sotto il velo umbratile del buio, nel cuore di ghiaccio della notte, dentro le ante di un armadio o accovacciati sotto le pieghe di una tenda.
Eravate dei bambini, la prima volta. Avete aperto gli occhi senza ricordare nulla di quello che era successo un attimo prima. La mattina dopo lo avete raccontato ai vostri amici, ed effettivamente quella storia faceva molto ridere. Era un gioco, un incantesimo, una piccola magia. Potevano capitare cose strane nella notte – come aggirarsi addormentati nel giardino di casa, spostare gli oggetti da una stanza all’altra senza ricordarlo o giocare con un videogioco nel sonno – e questo non vi spaventava. Anzi, alimentava febbrilmente la vostra fantasia. La elettrizzava.
Chiunque abbia assistito ad almeno un episodio di sonnambulismo sa quale bizzarra emozione provochi, anche a distanza di anni dai fatti, un’esperienza di questo tipo. Il sonnambulismo, uno dei fenomeni più affascinanti della nostra vita notturna – tanto da attraversare i millenni in una lunga catena di racconti e favole superstiziose – è di solito un disturbo benigno, con un’importante familiarità. Compare nel giovane, scompare in genere con la pubertà. Ma non sempre si limita a qualche innocua scorribanda per la casa. Talvolta, le forze che lo muovono possono essere così potenti da presagire accadimenti drammatici, come nel curioso caso di due miei giovanissimi pazienti, Irene e Diego.
Quando incontrai per la prima volta Irene e Diego, due fratellini, avevano rispettivamente dieci e otto anni. Irene soffriva di epilessia da quando ne aveva cinque. Durante la giornata, soprattutto quando era stanca, interrompeva improvvisamente ciò che stava facendo, arrestava l’azione in corso e aveva una convulsione. Fu esattamente quello che accadde davanti ai miei occhi il giorno in cui arrivarono nel mio laboratorio: Irene impallidì, sgranò gli occhi, si guardò intorno con uno sguardo impaurito. Non parlava, ma si lamentava portando la mano sinistra alla bocca dello stomaco. Iniziò a masticare, a deglutire, succhiava con energia una caramella immaginaria e continuava a guardarsi intorno allarmata e sospettosa, mentre appallottolava con la mano sinistra un foglio di carta, anche questo ovviamente immaginario. Era una delle crisi di Irene, una crisi epilettica.
Le crisi epilettiche sono il risultato di un’attivazione, transitoria e patologica, di un’area della corteccia cerebrale. L’insieme dei segni – ossia la semeiologia – indica con precisione l’area coinvolta nel singolo caso, che di solito è sempre la stessa nel singolo paziente. I fenomeni osservabili nel comportamento di Irene sono definiti «automatismi», sono cioè del tutto indipendenti dalla volontà, tipici di una crisi epilettica a origine dal lobo temporale della corteccia cerebrale. E, da un primo sguardo a quello che stava accadendo a Irene nel mio ufficio, era verosimile che fosse il lobo temporale dell’emisfero di sinistra quello coinvolto – l’emisfero dominante –, poiché la bambina smise di parlare e iniziò a muovere freneticamente il braccio sinistro, mentre quello destro, controllato dalla parte sinistra del cervello, rimase immobile. Poi, tutta la parte destra del corpo di Irene, soprattutto il braccio e la gamba, si distese rattrappita. Irene si irrigidì sempre più mentre emetteva un lamento che gradualmente salì di intensità fino a diventare un suono gutturale prolungato. Iniziò a vibrare per interminabili secondi, poi prese a scuotersi ritmicamente. Respirava con affanno e in maniera rumorosa mentre il suo corpo era percorso da violenti sussulti ritmici e i suoi occhi erano visibilmente rivoltati all’indietro.
Mentre le violente scosse si facevano sempre più rare, il respiro di Irene si ridusse a un gorgoglio. La sua bocca era ripiena di saliva densa, così la madre l’adagiò sul fianco per facilitarle il respiro. Aiutai i genitori a soccorrere la bambina: non c’era molto da fare se non aspettare che si riprendesse mettendola nella posizione più comoda.
Chiunque di fronte a una crisi epilettica che in pochi secondi trasforma e deforma una persona avverte una sensazione di disagio; vittima di tale subitanea metamorfosi, la persona che vedevamo davanti a noi un attimo prima d’improvviso non c’è più, lasciando il posto a uno sconosciuto imprevedibile e difficile da affrontare. È questa probabilmente una delle cause responsabili della stigmatizzazione e del disagio che avvolge questa malattia.
Il padre confermò che Irene aveva crisi epilettiche convulsive sia durante il giorno sia di notte. Lo studio elettroencefalografico aveva confermato tempo prima che le crisi di Irene originavano dal lobo temporale, una delle forme più frequenti di epilessia. La risonanza magnetica dimostrò anche un difetto nello sviluppo della corteccia del lobo temporale, causa frequente di epilessia. Purtroppo, come spesso accade nelle epilessie con una lesione cerebrale, la terapia farmacologica, nonostante diversi tentativi con nuovi farmaci e le modifiche di dosaggio, non era in grado di controllare completamente le crisi della bambina.
L’attacco di Irene nel mio ufficio era stato però del tutto fortuito; non era per questo che la famiglia si era recata con urgenza da me. Ma per l’altro bambino, Diego, che soffriva di sonnambulismo.
Diego era già stato visitato da diversi neuropsichiatri perché era soggetto a episodi frequenti, ogni notte e più volte a notte. Si trattava spesso di momenti molto intensi: correva avanti e indietro per le stanze, tentava di uscire di casa, saltava come un pazzo e urlava a squarciagola. Aveva sofferto di convulsioni febbrili quando era molto piccolo, ma nulla di preoccupante secondo i medici.
La prima volta che i genitori si sono accorti della pericolosità degli episodi di sonnambulismo Diego aveva cinque anni. A notte fonda sentirono la porta di casa chiudersi. Corsero in strada e trovarono Diego in pigiama, sotto la pioggia, completamente fradicio, che saltava come un forsennato sull’asfalto, in mezzo al buio. Si era procurato tagli profondi nei piedi perché era uscito scalzo, ma nonostante questo continuava a balzare senza sosta sul posto. Sembrava invasato.
Un sonnambulismo era l’ipotesi più plausibile. Ma com’è possibile che durante il sonno una persona riesca a correre, saltare, aprire la porta di casa apparentemente orientato, e addirittura a ferirsi senza sentire dolore? Il sonnambulismo, come le altre parasonnie, viene considerato dagli anni sessanta un risveglio incompleto dal sonno profondo. Ciò che sappiamo è stato scoperto grazie alla casuale registrazione di un episodio di sonnambulismo durante il monitoraggio pre-chirurgico cerebrale con elettrodi impiantati nella corteccia cerebrale e nei nuclei della base, e ha dimostrato che, mentre l’intero cervello dorme nel sonno profondo, una piccola area della corteccia motoria si sveglia e organizza il movimento, sfruttando le conoscenze dello spazio che ormai ha acquisito. Il restante cervello, tuttavia, dorme, innalzando le soglie di risvegliabilità in difesa del sonno, compresa la sensibilità dolorifica. Per questo motivo da una parte un sonnambulo appare sveglio, in grado di muoversi apparentemente orientato in uno spazio che conosce, mentre dall’altra parte dorme profondamente, senza ascoltare le voci, gli strattoni di chi lo chiama e senza sentire dolore, come per i piedi di Diego.
Quando il Dottor Jekyll dorme, Mr. Hyde è pronto a vivere la sua esistenza notturna.
I genitori dei due ragazzi uscirono da quell’esperienza molto provati, e da quel momento in poi dovettero controllare entrambi i figli per tutta la notte. Per evitare cadute dal letto, si risolsero a dormire tutti nella stessa stanza, con i materassi per terra, sempre pronti ad afferrare Diego ogni volta che scattava per uscire. Anche se bloccato dalla forza del padre, Diego durante i suoi attacchi continuava a scalciare per interminabili secondi, finché non si calmava, piano piano, fino a riaddormentarsi.
Mi convinsi subito che il bambino rappresentava certamente un caso da studiare in modo approfondito.
Era la fine degli anni novanta e il nostro laboratorio era attrezzato per lo studio degli episodi di agitazione in sonno con la video-polisonnografia: grazie a un mixer eravamo in grado di assemblare le immagini provenienti dal laboratorio del sonno, dove dormivano i pazienti, e quelle ricavate dal tracciato del poligrafo, ottenendo una perfetta sincronia con i movimenti del soggetto nella stanza e le modificazioni, o le anomalie, del tracciato polisonnografico. La tecnica era decisamente complessa, e oggi le tecnologie wireless hanno semplificato molto questo tipo di indagine, ma in un certo senso quei metodi generavano una fascinazione, una misteriosa atmosfera, che le nuove risorse hanno in parte smarrito.
Dentro la stanza del sonno tutto era allestito per lo studio di un sonnambulo: nessun mobile con cui il paziente potesse farsi male, un letto al centro, lontano dai muri e molto basso per minimizzare i rischi causati da eventuali urti e cadute, un sottile materasso a terra. Facciamo sempre attenzione a lasciare spazio sufficiente per poter aprire la porta e intervenire sul paziente in caso di un episodio di sonnambulismo.
Visto il tipo di attacchi di sonnambulismo vissuti, Diego era stato preparato per uno studio di diagnosi differenziale fra un episodio di sonnambulismo e una crisi epilettica in sonno, un dilemma diagnostico che soltanto lo studio polisonnografico avrebbe potuto sciogliere. Oltre ai parametri necessari per studiare il sonno e l’attività respiratoria durante la notte, avevamo deciso di sottoporre Diego a un esteso studio elettroencefalografico, e la sua testa era completamente coperta di elettrodi per poter esplorare la presenza di ogni eventuale anomalia epilettica. Le anomalie epilettiche, infatti, si presentano sull’elettroencefalogramma come figure dissonanti in un contesto di attività ritmiche e armoniche che caratterizzano l’attività elettrica cerebrale; indicano repentine modificazioni dell’attività elettrica di una popolazione circoscritta di neuroni della corteccia cerebrale, e i continui tentativi del cervello di ripristinarne la normalità. Queste anomalie vengono denominate, in base al loro aspetto grafico, rispettivamente «punta» e «onda». L’attività elettrica viene poi registrata in superficie, sul cuoio capelluto, amplificata e poi trascritta sulla carta o mostrata su un video. Sfuggiranno a questa esplorazione eventuali anomalie che originano dalle parti mediane del cervello, dove durante l’evoluzione si sono sviluppate aree della corteccia cerebrale responsabili dell’affettività e di altre funzioni complesse. Nel caso di crisi epilettiche a origine da queste strutture, poiché l’elettroencefalogramma resterà normale, è indispensabile la valutazione clinica, tempestiva e impeccabile. La videoregistrazione è come una scatola nera: offre la grande opportunità di poter rivedere un numero infinito di volte un episodio che compare durante la notte per studiarlo e interpretarlo, eliminando qualsiasi dubbio da una diagnosi altrimenti costruita soltanto su indizi clinici.
Diego si presentò dalla zona di preparazione di ottimo umore. Aveva subito di buon grado per oltre un’ora il montaggio degli elettrodi, e decine di fili sottili e colorati scomparivano in mezzo ai suoi folti capelli neri e ricci e si congiungevano, intrecciati, sul torace. Ogni piccola spina, al termine del filo dell’elettrodo, era inserita nel foro corrispondente al suo posizionamento sul cuoio capelluto in una scatola chiamata testina. Si chiama così perché vi è rappresentata la stilizzazione di una testa, permettendo di trovare facilmente fra decine di prese per gli elettrodi la giusta posizione del singolo elettrodo.
«Allora giovanotto, siamo pronti?»
«Sì pronti.»
Diego era un po’ semplice nell’esposizione verbale: presentava un lieve ritardo mentale come evidenziato dal suo qi. Inoltre, per l’estrema sonnolenza causata dal disturbo notturno, il suo apprendimento era stato molto rallentato.
Era straordinariamente bendisposto verso di noi, sembrava quasi incuriosito. Si guardava intorno scrutando ogni cosa e si meravigliò nello scoprire che la stanza era completamente vuota. I materassi che avevamo posizionato a terra non erano una novità per lui da quando aveva iniziato a dormire assieme al papà, alla mamma e a Irene nell’accampamento domestico. Non appariva nemmeno dispiaciuto o impaurito di dover dormire da solo nella claustrofobica stanza del sonno.
Collegammo la testina alla grossa presa scart di un lungo cavo che scompariva nel muro ed entrava all’interno del poligrafo, nella stanza contigua, il laboratorio. Le informazioni trasportate dal cavo si sarebbero disperse nei galvanometri degli amplificatori per poi ricomporsi nel tracciato poligrafico. La lunghezza del cavo avrebbe consentito a Diego di muoversi durante un episodio di sonnambulismo senza condizionarlo o svegliarlo. Per ultimo, decidemmo di proteggere gli elettrodi sul cuoio capelluto con una cuffia artigianale. I capelli di Diego scomparirono schiacciati sotto una fasciatura bianca.
Quando si passa l’intera notte nel laboratorio del sonno, osservando persone che dormono, il tempo inizia ad assomigliare a un oceano sterminato di ore, minuti, secondi, silenzi, di cui talvolta non si scorge l’orizzonte. Un tempo fuori dal tempo, lentissimo, al rallentatore. Durante l’attesa si riesce senza problemi a rivedere il materiale dei pazienti, riflettere sui casi in osservazione e discuterne approfonditamente. Quella notte la registrazione polisonnografica di Diego sarebbe iniziata verso le 11 di sera, e il laboratorio era come al solito affollato da studenti e visitatori stranieri incuriositi da quello che stava per accadere. In un percorso di formazione sulle malattie del sonno Bologna è una tappa obbligata e piacevole, e la Clinica neurologica, centralissima, offre una foresteria spartana nel sottotetto. Avevamo ospite in laboratorio anche il padre di Diego, perché ovviamente per la registrazione di un minore era richiesta la presenza di almeno un genitore. Un’ottima occasione per sedersi insieme a lui intorno all’ampio tavolo, discutere il materiale clinico della famiglia e costruire un albero genealogico.
Negli ultimi anni era stata riconosciuta da diversi laboratori un’entità clinica familiare, ereditaria, caratterizzata da crisi epilettiche nel sonno. Queste crisi, tuttavia, si presentavano non come le tipiche convulsioni epilettiche, ma come comportamenti bizzarri e a volte estremamente complessi. Le persone affette da questo tipo di epilessia notturna avevano rapide contrazioni nel sonno, come i sussulti ipnici, oppure si sollevavano bruscamente seduti sul letto, nell’atto di alzarsi. Accadeva che urlassero, fischiassero, chiamassero aiuto. Insomma, gli episodi erano difficilmente distinguibili dalle classiche parasonnie. Anche le parasonnie, peraltro, sono caratterizzate da un’importante familiarità: può accadere che durante la notte intere famiglie di sonnambuli si alzino indipendentemente dal letto e si risveglino tutti assieme e senza sapere perché in una stanza della casa, disturbati l’uno dalla presenza dell’altro. Sembrerebbe la sceneggiatura di un film dell’orrore, eppure può accadere davvero.
Alcune caratteristiche di Diego rappresentavano però forti indizi di un’epilessia piuttosto che di una parasonnia. Innanzitutto la presenza di qualche anomalia epilettica sull’elettroencefalogramma consentiva di supporre una diagnosi di questo tipo. Sapevamo però anche che, qualora le crisi avessero avuto origine dalla corteccia mediale, interna, del lobo frontale, o da quella adagiata sulla volta dell’osso dell’orbita – la corteccia orbitaria appunto –, le anomalie epilettiche sarebbero potute restare nascoste all’esplorazione elettroencefalografica tradizionale. Un secondo e fondamentale indizio di epilessia si ebbe quando il fenomeno motorio si rivelò identico ogni volta. La stereotipia delle crisi indicava l’attivazione di un’area malata, epilettica, della corteccia. Ogni volta che la scarica epilettica si innescava nel singolo paziente il fenomeno motorio risultante era sempre quello. In particolare, dai numerosi elettroencefalogrammi effettuati su Diego durante brevi pisolini diurni, sembrava evidente come gli episodi motori iniziassero nello stesso modo: Diego apriva gli occhi, aveva una contrazione dei muscoli del viso, sollevava la testa dal piano del letto, divaricava le gambe irrigidite e le roteava in aria. È il pattern motorio di una crisi a origine dalla corteccia frontale. Inoltre, costruendo l’albero genealogico della famiglia di Diego, scoprimmo che non soltanto Irene soffriva di epilessia, ma ne aveva sofferto anche la mamma, poi guarita spontaneamente, e anche il nonno materno era stato esonerato dal servizio militare per strani attacchi di difficoltà respiratoria, brevi, che potevano essere stati crisi epilettiche.
Mentre raccoglievamo le informazioni sulla sua famiglia, Diego ascoltava con diligenza le istruzioni provenienti dall’interfono del laboratorio ed eseguiva diligentemente gli ordini, impartiti per verificare che tutti i sensori funzionassero a dovere.
«Tieni gli occhi aperti… chiudi gli occhi… guarda verso destra… muovi la gamba destra… bravo, ora la sinistra…»
Poi si mise nella sua abituale posizione sul fianco destro per prendere sonno, e immediatamente si addormentò.
Discutemmo sulla possibile causa di questa immediata latenza del sonno, non un fenomeno frequente in un bambino di otto anni. Ogni sera Diego si addormentava infatti con estrema facilità, e suo padre era certo che questo fosse dovuto alla stanchezza accumulata, da tutti in famiglia a dir la verità, a causa del disturbo del sonno notturno. Osservando il sonno sul tracciato polisonnografico, la verità sembrava però molto diversa. La qualità del sonno era ottima, in pochi minuti Diego aveva raggiunto il sonno profondo. Nonostante fosse sovrappeso, respirava regolarmente. Bisognava aspettare, e sapevamo che era estremamente difficile documentare un episodio di sonnambulismo in laboratorio, soprattutto la prima notte di registrazione. Il primo «ciak» in queste situazioni raramente è buono. Occorreva che il paziente si adattasse alla bizzarria della situazione, ed eravamo in ogni caso pronti a ripetere la polisonnografia la notte successiva.
Il nostro montaggio, grazie alla collaborazione di Diego, era perfetto, gli elettrodi bene incollati avrebbero resistito senza problemi per 48 ore e anche più. C’era l’opportunità per i nostri studenti di apprendere in diretta, sfogliando le pagine del volume che uscivano dal poligrafo. Tutti erano anche interessati a verificare quello che si diceva dei laboratori del sonno italiani e le voci di corridoio riguardanti il fatto che, dopo mezzanotte, venisse servito un piatto di pasta fumante. Gli studenti stranieri sono sempre affascinati da questa «bizzarra» abitudine, spesso non aspettano altro che il festoso momento in cui l’aria immobile del laboratorio si gonfia di effluvi speziati e il fumo della pasta riscalda il freddo torpore della notte con i suoi vapori odorosi. Ma quella sera non ce ne fu il tempo: dopo circa un’ora dall’inizio della registrazione l’oscillazione ampia, lenta e rassicurante delle penne del poligrafo si trasformò in un ritmico e rapido battito. Una raffica rumorosa. Una scarica, una bouffée di punte epilettiche sulle regioni frontali di entrambi gli emisferi accompagnava un movimento di Diego, che spalancava gli occhi, e divaricando le gambe in modo irregolare – facendo compiere un ampio raggio alla gamba destra –, si sedeva sul letto. L’accelerazione della frequenza cardiaca e un’apnea si associavano a questo movimento. Aveva il torace pieno d’aria, si reggeva sulle braccia distese dietro al tronco.
«Ecco!» disse suo padre. «Sta succedendo, guardi dottore…»
Diego riprese a respirare, prima superficialmente e poi normalmente. La scarica epilettica scomparve di colpo e l’elettrocardiogramma si normalizzò. Mentre chiudeva gli occhi si coricò sul fianco sinistro. Dormiva come un angelo, di nuovo.
Avevamo visto male? Chiunque si muove durante la notte: ogni 40-60 minuti tutti cambiamo posizione senza accorgercene. Ma quella era una vera scarica epilettica oppure avevamo assistito a un fisiologico risveglio che precede i cambi di posizione? I cambi di posizione sono elementi normali del nostro sonno, anche quando dormiamo nel più comodo dei materassi. Ci consentono di non schiacciare muscoli, nervi e vasi con il peso del corpo e di garantire un’alternanza nella respirazione ai nostri polmoni anche quando siamo distesi. Mentre guardavamo le pagine immediatamente precedenti del tracciato, di nuovo il ritmo reclutante della scarica epilettica accompagnò un movimento di Diego. Il movimento era speculare al precedente e la gamba destra, sopra alla sinistra, distesa e più libera di muoversi, descrisse nell’aria un arco ancora più ampio.
In apnea e con il cuore a oltre 120 battiti al minuto, Diego era seduto e fissava impaurito davanti a sé. Nel vuoto assoluto. Nel buio cieco. Emettendo solo un debole lamento.
«Mmmm… mmmm…»
Poi, rapidamente, si sollevò in piedi.
«Dottore, dobbiamo intervenire?»
Sì, era il momento di entrare: spalancai la profonda porta insonorizzata della stanza del sonno mentre dalla plancia del poligrafo i tecnici accendevano la luce all’interno. Diego era al centro della stanza, in piedi, mi fissava. I suoi occhi mi perlustravano assenti, come se avessero scoperto una figura aliena. Aveva il torace innaturalmente espanso, le labbra erano stirate. Partì di corsa nella direzione della porta, io ero di fronte e mi preparai a bloccarlo, ma cambiò improvvisamente direzione ritornando sul letto, saltando. Continuava a saltare furiosamente sul materasso mentre lo chiamavo, era cianotico, sembrava non respirasse, non mi vedeva e non mi sentiva, e anche se alzavo la voce non dava la minima sensazione di ascoltarmi. Saltava di fronte a me, tutt’intorno nella stanza, in maniera imprevedibile e improvvisa. Il suo sguardo era un misto di indifferenza e paura, le sue pupille sembravano posarsi sui perimetri di una dimensione sconosciuta. Cercai di afferrargli le braccia, le toccai, erano entrambe rigide. Continuò a dimenarsi tra il pavimento e l’aria, ripetendo lo stesso pattern motorio per oltre un minuto. Ogni tanto tentava di uscire, come se volesse scappare, ma quando mi trovava di fronte alla porta ritornava subito indietro e si dimenava ancora più elettricamente. Era come se mi dicesse «Lasciami uscire, ho paura!», ma era impossibile capire quale invisibile ragione lo stesse terrorizzando. Poi si coricò nuovamente, accaldato, affannato, con le pupille dilatate, e finalmente iniziò a rispondere.
«Diego, sai dove sei?»
«Sì.»
«Sai chi sono io? Ti ricordi di me?»
«Sì, il dottore.»
Mi riconosceva, si orientava alla perfezione. Non ricordava nulla, se non una vaga sensazione di paura, di angoscia, ancora intercettabile nel suo sguardo, ma non sapeva per cosa. Era contemporaneamente agitato, impaurito e sonnolento. Neurologicamente però nient’altro.
«Adesso chiudi gli occhi Diego. Chiudi gli occhi…» gli dissi, e immediatamente il bambino si riaddormentò.
Quella notte, come in tutte le notti dei tre anni precedenti, le crisi di Diego si succedettero ogni ora circa. A ogni risveglio si sentiva prostrato, ma forse era meno stanco della nutrita compagine di studiosi che lo aveva sorvegliato per tutta la notte.
Al mattino Diego tornò il solito delizioso, vivace e simpatico bambino dall’accento romano. Era inconsapevole dell’angoscia che lo attanagliava periodicamente ogni notte, e di cui poi non ricordava mai nulla. Eppure sembrava impossibile che queste crisi non segnassero profondamente la sua psiche.
Avevo finalmente gli elementi per alcune importanti conclusioni: l’analisi dei video e del tracciato elettroencefalografico degli episodi sonnambulici di Diego era più che convincente rispetto alla natura epilettica; il suo sonnambulismo era epilettico e Diego soffriva di epilessia. Ogni ricercatore di fronte a un’importante novità ha il dovere di segnalarla, e Diego rappresentava il primo caso di sonnambulismo epilettico mai riportato nella letteratura scientifica. Come nel caso di Diego, molti pazienti con epilessie notturne potevano essere stati erroneamente classificati come semplici sonnambuli e non aver ricevuto i giusti trattamenti.
Purtroppo, però, la sensazione di essere di fronte a un caso particolarmente grave trovò la conferma nell’osservazione longitudinale. Mentre molti casi con epilessia notturna del lobo frontale presentano una buona risposta alla classica terapia antiepilettica farmacologica, sia Diego sia Irene risultavano farmacoresistenti e sviluppavano gravi disturbi psichiatrici. L’utilizzo dei farmaci antiepilettici, isolati e in combinazione, non riusciva a controllare le loro crisi. Sottoponemmo dunque Diego e Irene agli esami strumentali più approfonditi.
Nel caso di Irene si confermò una complessa malformazione cerebrale congenita, non solo del lobo temporale, ma anche diffusa alle parti profonde dell’emisfero dominante. La sua epilessia era senz’altro imputabile a questo, ma la localizzazione della malformazione la rendeva inoperabile. Su Diego non trovammo invece nulla, ma nessuna terapia risultava efficace nel controllare le sue crisi. Intanto cresceva, diventando sempre più forte e grosso; la sua ansia e la sua paura trovavano altri modi di manifestarsi, e lui diventava sempre più ingestibile nei suoi comportamenti notturni violenti.
Una volta l’avevano trovato in strada con un bastone in mano, mentre sferrava colpi ciechi contro le macchine che venivano verso di lui. Le colpiva con la violenza di un battitore che concentra nel braccio tutte le sue forze per un home run.
Nonostante l’assenza di una lesione visibile e l’incertezza sull’area di origine delle crisi, proponemmo una valutazione al Centro di chirurgia dell’epilessia Claudio Munari, a Milano, presso l’Ospedale Niguarda, uno dei migliori centri al mondo. Lino Nobili, mio amico e collega esperto di sonno ed epilessia, prese in carico Diego, che venne sottoposto a uno studio con elettrodi di profondità, impiantati nel cervello. Questo studio consentì di identificare un’area epilettogena nella profondità del lobo frontale destro, fortunatamente in una zona aggredibile chirurgicamente. Diego venne operato e fu asportata con successo l’area epilettogena, la sede da cui partivano le sue crisi epilettiche. Nel segmento di lobo frontale asportato l’équipe di Milano scoprì un tumore benigno.
L’epilessia ha segnato la crescita, la psiche e la vita di Diego, ma ora sta molto meglio e le crisi ritornano solo sporadicamente.
Vent’anni dopo quella dura notte con Diego in laboratorio, Sam Berkovic, a Melbourne, in Australia, ha dimostrato che Diego e Irene sono portatori di una nuova mutazione genetica, associata al sonnambulismo epilettico e a disturbi psichiatrici. Grazie all’intervento chirurgico, Diego ha ottenuto una qualità di vita accettabile, ma purtroppo non guarirà mai da tutti gli aspetti causati dall’alterazione genetica familiare. L’epilessia notturna del lobo frontale è infatti una forma di epilessia parziale, e in oltre un quarto dei casi vi è una storia familiare. In questi casi l’ereditarietà è dominante, ossia si ammalano circa il 50 per cento dei discendenti quando uno dei genitori è affetto. Anche se dal punto di vista cognitivo i pazienti solitamente restano integri, a volte possono sviluppare disturbi psichiatrici e difficoltà intellettive. In questi ultimi casi, però, la prospettiva terapeutica cambia completamente e anche la chirurgia dell’epilessia può risultare efficace.
È vero, dunque, che possono capitare cose strane nella notte. E durante un sonnambulismo sono molto più strane di quello che potremmo immaginare. È questo che più ci elettrizza – abbiamo detto prima di incontrare Diego – e che alimenta febbrilmente la nostra fantasia.
Eppure, non è sempre questo che ci fa più paura?