La notte in cui il Signor S. ha ucciso sua moglie nel sonno
Morire, dormire…
nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine
al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali
di cui è erede la carne: è una conclusione
da desiderarsi devotamente. Morire, dormire.
Dormire, forse sognare.
William Shakespeare, Amleto
Sono le ore 23.27.33 del 5 agosto 2011.
Il cielo cola nero come petrolio sui tetti di una torrida estate italiana. Come ogni notte, le stelle formulano sulla volta celeste messaggi indecifrabili, algoritmi di luce evanescente. Nell’oscurità, un uomo sale alla guida del suo furgone nel cortile di un piccolo borgo, dove abita con la moglie, vent’anni più giovane di lui, e i due figli. Ha il viso tumefatto dalla stanchezza, gli occhi faticano a restare aperti ma vigilano meticolosamente su ogni dettaglio della strada.
Il Signor S. apre la portiera, prende la pistola dal cruscotto, scende dal furgone e si incammina verso la porta d’ingresso dell’appartamento al primo piano. Al piano terra vivono i suoceri. La casa è sorvegliata da telecamere che scandiranno con precisione, come nella pellicola di un film, le tempistiche di una notte che non potrà mai più dimenticare.
Come ogni sera, prima di riattivare l’allarme, controlla la camera dei ragazzi. Uno non è ancora rientrato, mentre l’altro, il più piccolo, è al campo con gli scout. Decide di non riaccendere l’allarme per evitare che il figlio maggiore lo faccia scattare al suo rientro – e anche perché così può concedersi un’ultima sigaretta in terrazzo. Poi scivola nello spogliatoio per cambiarsi. Come aveva sempre fatto, tutte le sere.
Non ha bisogno di accendere la luce, l’illuminazione notturna vicino al pavimento e la conoscenza dell’ambiente danno al Signor S. una sicurezza assoluta nei suoi movimenti. Dallo spogliatoio si sposta al bagno per lavarsi, quindi di nuovo nello spogliatoio, dove chiude con attenzione il tabacco, svuota le tasche dei pantaloni – piccoli coriandoli di carta straccia e sigarette lievitano per un istante nell’aria prima di accasciarsi al suolo –, e ripone tutto nella piccola valigia che tiene sempre pronta e che è solito utilizzare quando decide di passare due giorni al mare. Poi carica la pistola ed entra nella camera da letto.
A vederla da fuori, quella casa assomiglia a un bunker inaccessibile. Da quando due anni prima avevano subito una serie di furti, il Signor S. e sua moglie si erano decisi a proteggerla con allarme e telecamere esterne e il Signor S., d’accordo con la donna, aveva preso a dormire con una Beretta 7,65 sotto il cuscino. Una scelta eccentrica e sicuramente pericolosa, ma condivisa da tutti; i figli e anche i genitori di lei, oltre agli amici più stretti, ne erano informati da tempo. Se qualcuno avesse provato a fare irruzione in quella casa un’altra volta – e sarebbe stato difficile, visto il sistema quasi professionistico di sorveglianza – avrebbe trovato una brutta sorpresa.
Ma, come molte favole ci insegnano, i mostri molto spesso non hanno bisogno di entrare. Sono già nella stanza accanto alla nostra. E a volte anche le favole, lo sappiamo, finiscono male.
Negli ultimi due anni le cose fra il Signor S. e sua moglie erano andate sempre peggio. Il Signor S. lavorava moltissimo, lei aveva più di una relazione extraconiugale, un’ossessione per un corpo che curava alla perfezione e un bisogno di soldi che si faceva sempre più pressante; nessuno era riuscito a capire il perché, anche se aleggiava il sospetto che venisse ricattata da qualcuno, e tutto ciò tormentava il marito, geloso, orgoglioso, esausto.
Quella notte finalmente il Signor S. avrebbe dormito. La notte prima i due avevano litigato e lui era uscito di casa sbattendo la porta. Era stato sveglio per la notte intera e poi tutta una caldissima giornata di lavoro. Tornato finalmente nella sua camera, si corica sul fianco – la donna sta già dormendo sul lato opposto. Prima di lasciare che il sonno prenda il sopravvento, pensa a qualche settimana prima, quando passando sotto casa in macchina l’aveva vista con un uomo. Si era detto, fra sé e sé, che doveva trattarsi di suo cognato, e questo avrebbe poi confermato la moglie. Ma non ne era certo. Il dubbio era rimasto assetato di pensieri per giorni come una sanguisuga nello stagno dei ricordi.
Si addormenta in pochi istanti, nel sonno la mente continua a proiettare l’immagine della moglie, questa volta è nella loro camera, nel loro letto, con un altro uomo, uno sconosciuto. Il sogno continua, con inconscia avidità. Il Signor S. li scopre, entra nella stanza con la pistola in mano. E spara, un colpo rosso nel bianco del letto che mette a tacere i cattivi pensieri.
Fuori, mentre il Signor S. è ancora immerso nell’angoscia del suo sogno, la telecamera registra il bagliore di uno sparo. Un guizzo luminoso che spacca il vetro dell’atmosfera.
Sono le 00.33.26 del 6 agosto.
Da petrolio, il cielo sopra la torrida estate italiana si fa lava rossastra e incandescente.
Il colpo lo sveglia. Il Signor S. è ancora disteso nel letto, così come si era coricato. Sente però il sangue caldo della moglie in faccia e nelle mani. Nella mano destra ha anche la pistola. Le afferra il collo, non respira. Corre in bagno con la pistola, apre la finestra, esce in terrazzo, non riesce a urlare, un grido si strozza nella gola e rientra nel buio del proprio abisso.
Torna in casa e chiama il 112, i carabinieri, piange, la voce è quella di un animale ferito che non sa stare in piedi.
«Pronto! Pronto!… Senta io ho sparato a mia moglie con la pistola!… Ho sparato a mia moglie… Stavo sognando che era con un altro nel letto…»
«Mi dica dove si trova che veniamo noi ad aiutarla… non si preoccupi…»
«Mi aiuti! Ho ammazzato mia moglie.»
Prima dell’arrivo della polizia, il figlio maggiore, rientrato a casa, trova il padre tremante, accovacciato con disperazione nel corridoio.
«La mamma sta male» dice il Signor S., «corri a chiamare i nonni.»
Il figlio scende le scale, suona il campanello dei nonni – dormono placidamente, non hanno sentito nulla. Lui si ferma al piano di sotto, plastificato dal terrore, mentre i nonni salgono, scostano il Signor S. ancora in mezzo al corridoio e corrono dalla figlia.
Il Signor S. non rientra in camera, sa benissimo che la moglie è morta.
All’arrivo dei soccorritori e della polizia la donna giace sul fianco destro. Il proiettile esploso dalla Beretta 7,65 a contatto con la regione occipitale, la nuca, aveva attraversato e distrutto gran parte del cervello. Trattenuto nel lobo parietale destro aveva provocato una morte immediata.
Dopo l’arresto, il Signor S. non modifica la versione dei fatti, sostenendo di amare la moglie nonostante litigi e chiarimenti, e mostrando un disinteresse assoluto per l’esito dell’istruttoria e del processo.
«La mia vita è finita» ripete a chiunque gli si avvicina.
Le indagini confermeranno che a sparare è stato lui, che non vi è stata lotta e che la moglie, verosimilmente, dormiva. Questo dato rappresenterà per la pubblica accusa un’aggravante. Le indagini solleveranno anche il sipario sugli aspetti più squallidi di una coppia che aveva creduto di sposarsi per amore. Poi però erano arrivati i tradimenti, le sottrazioni di denaro, le minacce, il divario di età sempre più evidente, la lontananza affettiva dei figli, la volontà di lei di separarsi. Tutti elementi, indizi che avrebbero potuto sostenere, e sosterranno, un’ipotesi di omicidio volontario premeditato.
Il pubblico ministero non tralascia scenari a discolpa del Signor S. Si pone così anche il problema di interpretare quella telefonata («Ho sparato a mia moglie… stavo sognando che era con un altro nel letto»), e di trovare una risposta al possibile omicidio commesso durante il sonno. Purtroppo, come sottolineato da diversi lavori scientifici e nelle discussioni scaturite dai casi giudiziari, non esiste un protocollo condiviso per escludere o confermare la possibilità che un omicidio sia stato commesso durante un episodio di sonnambulismo. C’è urgenza di rispondere alla richiesta di giustizia, il rischio di una prassi troppo frettolosa o superficiale nelle indagini peritali è alto. Il pubblico ministero, già durante la fase istruttoria, si rivolge così a una rodata coppia di periti, entrambi professori emeriti dell’Università di Torino, per trovare risposta ai suoi dubbi e, dopo aver risolto il «ragionevole dubbio», procedere con l’incriminazione per omicidio volontario.
Il neurologo e lo psicopatologo forense procedono fianco a fianco: occorre verificare se esistano dati clinici che sostengano una diagnosi di parasonnia e occorre parallelamente escludere una patologia psichiatrica.
Il Signor S. è prostrato, disperato, non vuole più vivere e non vuole difendersi. Il medico del carcere ha ben pensato di somministrargli farmaci sedativi e antidepressivi. All’esame dello psichiatra forense il Signor S. non mostra di avere alcun difetto mentale, e neppure un disturbo psichiatrico. Lo psichiatra tuttavia, segnato da una lunga esperienza, legge con chiarezza quanto rancore covasse verso la moglie, verso la situazione che per lui da tempo era ingovernabile. Ascolta quanto si sentisse deriso dagli amici, seppure mai direttamente, raccoglie le informazioni necessarie a stabilire con certezza come egli fosse più che al corrente dei tradimenti della moglie. Per lo psichiatra, il Signor S. ha ucciso volontariamente la compagna.
A questo punto vengono svolti gli accertamenti che il neurologo ritiene necessari per escludere una parasonnia. La valutazione dell’esperto perito psichiatra non lascia possibilità di percorrere una seconda strada. I sedativi non vengono sospesi, troppo pericoloso, così l’esito dell’esame è falsato in partenza. Durante quest’unica registrazione video-polisonnografica cui viene sottoposto il Signor S., all’ospedale delle Molinette, non viene documentato alcun episodio di parasonnia. L’esame però dimostra come l’uomo abbia molte apnee in sonno, per questo dovrà essere correttamente curato.
Ma la verità su quello che era accaduto restava ancora nascosta oltre un banco impenetrabile di nebbia.
A quasi un anno esatto di distanza da quella tragica notte, nel luglio 2012, alle soglie delle agognate vacanze, ricevetti una chiamata da un avvocato torinese. Mi chiese la disponibilità ad assisterlo nella difesa di un caso di omicidio commesso durante il sonno. Il caso, mi anticipò, riguardava un uomo. Ne sussurrò il nome al telefono. Era proprio lui, il Signor S. Fu una proposta affascinante e inaspettata. In collaborazione con un’amica, docente di medicina legale, ma anche PhD in medicina del sonno, Francesca Ingravallo, avevo già seguito un caso di presunta violenza sessuale perpetrata durante il sonno e più volte ero stato chiamato quale esperto neurologo a consulenze tecniche di ufficio. Mai, però, ero stato coinvolto in un caso di omicidio commesso durante il sonno.
Per quanto possa sembrare strano, anche il sonno, il momento del massimo riposo, dell’esaurimento delle forze, della sospensione della coscienza, può essere teatro di una scena del crimine. Accade purtroppo spesso che una persona addormentata sia vittima di violenza, ma un atto criminale può essere commesso da un omicida dormiente? È una domanda altrettanto interessante e stimolante, tanto per un ricercatore quanto per un avvocato. Anche se non potrà mai dimostrare con certezza che quel delitto sia stato commesso durante il sonno, il ricercatore può far luce sulle caratteristiche del riposo di un omicida. Dimostrando che questi soffre di strani comportamenti durante il sonno – che per esempio urla, corre, combatte mentre il suo cervello dorme –, darà a un avvocato, o a un giurista, l’opportunità di sollevare il ragionevole dubbio che quell’atto criminale sia stato commesso dalle forze di un uomo, ma non dalla sua volontà, poiché tutto è accaduto mentre l’omicida dormiva. Se si sospetta che un atto di violenza sia stato commesso durante il sonno del criminale, nell’aula del tribunale il ragionevole dubbio prende la stessa forma e assume lo stesso peso di una prova a difesa quasi inconfutabile.
Chiunque abbia sofferto di episodi di agitazione nel sonno, come incubi o sonnambulismo, sa benissimo che questi fenomeni non compaiono con regolarità, sono anzi spesso imprevedibili. Per questo motivo, anche quando venga dimostrato che una persona soffre di sonnambulismo, un medico esperto in patologie del sonno non potrà mai affermare con assoluta certezza che un delitto sia stato perpetrato durante uno stato di incoscienza. L’obiettivo dell’esperto, in qualsiasi caso di violenza presumibilmente commessa durante il sonno, sarà così quello di verificare la possibilità (sollevare un ragionevole dubbio) che un atto criminale, per quanto bizzarro, atroce, efferato o disgustoso, sia stato commesso effettivamente durante il sonno.
Quando si entra nel sonno, la coscienza e la morale sono sospese. Anche quando non possono esservi dubbi sul colpevole, l’omicida che abbia commesso il delitto mentre dormiva, come durante un episodio di sonnambulismo, verrà considerato temporaneamente incapace di intendere e volere, quindi non imputabile, e verrà prosciolto per non aver commesso il fatto. Per quanto la sola idea di vedere un omicida impunito faccia gelare il sangue, per rabbia o per paura, la legge si pone a tutela dell’innocente, seppur omicida. Per esser riconosciuto punibile, un criminale deve aver agito con coscienza e volontà. È il requisito che i giuristi chiamano suitas, e sta alla base di ogni comportamento volontario. Anche secondo la giustizia anglosassone, scritta sui casi giudiziari e sulle sentenze, alla base di un comportamento criminale deve esserci l’intenzione e la volontà di commetterlo. Actus non facit reum, nisi mens sit rea, il delitto non fa un uomo colpevole, se la sua mente non è colpevole.
Di fronte a un atto criminale, la presenza di alcune circostanze escludono una mente colpevole, la guilty mind: una mente innocente, come in certe condizioni di ritardo mentale, una malattia mentale, l’assenza di una attività mentale. In quest’ultimo caso, quando un’azione può essere attivata dai muscoli senza l’intervento della mente, della volontà, si parla di automatismo. Uno spasmo, un’azione riflessa, una crisi epilettica. Un atto commesso durante il sonno. Secondo questa interpretazione, poiché nel sonno la componente volontaria della nostra mente è soppressa, tutti gli atti che compiamo, anche quelli criminali, possono essere considerati automatismi, quindi non punibili, non perseguibili.
Nel 1932 Henri Roger, un neurologo francese, pubblicò la monografia delle lezioni tenute a Marsiglia fra il 1900 e il 1930 intitolata Les troubles du sommeil. I due capitoli principali erano dedicati alle insonnie e alle ipersonnie, un breve capitolo era invece dedicato alle parasonnie, un termine che Roger coniò per accomunare tutti i fenomeni atipici del sonno, noti da secoli ma reputati di scarsa rilevanza clinica, quali il sonnambulismo, l’incubo, il sonniloquio, i sogni terrifici, l’enuresi, i sogni agiti. Le lezioni erano state tenute qualche decennio prima dell’invenzione dell’elettroencefalografia e della descrizione elettroencefalografica del sonno. Il termine parasonnie non fu più abbandonato, ma le scoperte che si succedettero negli anni sessanta e settanta del secolo scorso dimostrarono come le parasonnie possono avere una grande rilevanza clinica e essere classificate a seconda della fase del sonno dalla quale compaiono. L’attività mentale, oggi lo sappiamo, durante il sonno può anche essere molto intensa, fino a produrre in alcuni momenti, durante il sonno rem, sogni vivaci e vividi. Ma la nostra capacità di controllare la mente cessa ogni volta che varchiamo la soglia dell’addormentamento, rendendoci innocenti.
Il mio ruolo in questo processo sarebbe quindi stato quello di accertare la possibilità che il delitto fosse stato compiuto durante il sonno dell’omicida.
Dopo aver chiesto a Francesca la disponibilità a coadiuvarmi per gli aspetti medico-legali, decisi di accettare l’incarico con riserva. Dopo l’incontro preliminare con il supposto omicida, entrambi volevamo essere convinti della sua innocenza. Restammo così in attesa della data per l’incontro con l’imputato, che sarebbe avvenuto in carcere.
Sapevamo ancora poco di quello che era successo quella notte. Le indagini preliminari si erano concluse prima della nostra entrata in scena. Gli atti che l’avvocato ci fece pervenire aprivano il sipario su un caso di cronaca nera, uno come tanti.
Quando feci visita al Signor S., incarcerato perché imputato di omicidio volontario in attesa di giudizio, la fase istruttoria era già conclusa. Gli avvocati del Signor S. avevano fatto esplicita richiesta di riapertura, di un supplemento di indagini. Dopo mesi di carcere, a loro avviso, il loro cliente stava meglio, assumeva con regolarità la terapia antidepressiva, utilizzava il ventilatore notturno che normalizzava il suo respiro e aveva deciso di concedere ai suoi difensori la possibilità di verificare se è possibile dimostrare quanto lui aveva sempre sostenuto: quando ha ucciso la moglie stava dormendo, anzi sognando.
Davanti a noi trovammo un uomo distrutto, ma pronto a rispondere alle nostre domande. Sembrava molto più vecchio dei sessant’anni anagrafici riportati sulla cartella clinica. Sulle mani e sui denti portava i segni giallognoli del tabagismo. Non ci sentiva bene, già prevedevo difficoltà nella raccolta delle informazioni. Dovevamo intervistarlo accuratamente senza farci influenzare né dallo squallore dei racconti letti nelle varie testimonianze né dal personaggio: se era stato un episodio parasonnico che un anno prima lo aveva portato a commettere l’omicidio, ora era nostro compito rilevare ogni indizio. Dovevamo trattare il Signor S. come un qualsiasi paziente.
In ogni intervista clinica si inizia dalla raccolta delle motivazioni che hanno portato il paziente a richiedere il nostro aiuto; il racconto dell’episodio, quindi. Il Signor S. riportò esattamente quanto avevamo letto nella testimonianza: quella scena, da un anno, riempiva ogni suo pensiero, si riavvolgeva all’infinito come il frame di un proiettore rotto. Non c’era spazio per altro. L’immagine di un singolo istante era frantumata in milioni di copie che tappezzavano la volta opprimente della sua mente. Diventava ancora più difficile risalire ai fatti precedenti, al comportamento delle 24-48 ore prima dei fatti. Di certo, la notte prima non aveva dormito. Era ritornato a casa da una lunga giornata di lavoro. Oltre al cantoniere comunale, lo stradino, il Signor S. aveva una seconda attività di factotum, il suo furgone era attrezzato per piccoli lavori di ogni genere. Ma a causa della litigata con la moglie era rimasto fuori casa e non aveva dormito. Era quindi molto stanco, anche se la rabbia che dentro di sé aveva accumulato gli impediva di prender sonno anche per soli cinque minuti. Il suo linguaggio era difficile, un misto di termini dialettali, aforismi fuori contesto, metafore traballanti. In più era palesemente sordo, se ne vergognava, e tendeva a dare risposte casuali. Questo non era riportato nella perizia che avevamo studiato ed era un indice preoccupante dell’attenzione che era stata posta durante la valutazione richiesta dal pubblico ministero.
Capimmo che la sonnolenza per lui era stata un problema: raccontava di come si sforzasse di mantenersi in movimento, accendesse continuamente sigarette, una dopo l’altra, parlasse con chiunque avesse vicino, ma non appena si metteva alla guida sapeva di essere in qualche modo in pericolo. Più volte si era svegliato con le ruote del furgone quasi nel fosso. E un paio di volte nel fosso ci era finito davvero.
«È un buon momento per ottenere una collaborazione» mi disse Francesca «abbiamo catturato il suo interesse, sta parlando di sé.»
Somministrammo questionari che il Signor S. compilò con diligenza, quasi mai aveva bisogno di precisazioni sulle domande. Poi riprendemmo il colloquio: in una delle circostanze in cui era finito nel fosso era anche risultato debolmente positivo all’alcol e questo gli era costato la sospensione della patente per qualche mese.
«Ora mi ricordo, prima di tornare a casa, quella sera, mi sono fermato al bar. Ho assaggiato solo un sorso di birra, neppure mezzo bicchiere, proprio un goccino. Poi sono tornato a casa, mi sono preparato per dormire, ho messo la pistola sotto il cuscino come sempre e mi sono coricato sul fianco destro vicino a mia moglie. Mi sono addormentato subito, mi pare, neanche pochi minuti, e ho iniziato subito a sognare.»
Quel sogno. Poi il colpo di pistola lo aveva svegliato, e anche sul suo viso, nei suoi occhi, davanti a me, improvvisamente ricomparve tutto l’orrore di quei momenti.
«Che cosa ho fatto, non sono stato io, non sono stato io!»
Precipitò in un deliquio invalicabile. Di colpo ogni cosa rientrò nella vertigine di quel ricordo iniziale. Fu necessario tanto tempo per ripristinare un dialogo utile al nostro obiettivo. L’apparente serenità dell’incontro era stata definitivamente rotta.
Il Signor S. era disinteressato a proseguire. Ottenemmo solo frammenti di risposte, fra le lacrime e la disperazione, ma per noi comunque importanti.
Sì, aveva sofferto di rari episodi di sonnambulismo. Una notte nel Natale del 2010 aveva anche sferrato un pugno alla moglie durante il sonno come testimonieranno i parenti ai quali entrambi lo avevano raccontato. Inoltre, ogni notte, aveva più di dieci risvegli e ogni volta si alzava e si accendeva una sigaretta. Non sapeva se all’interno della propria famiglia altri facessero cose strane di notte. Uno dei suoi figli sì, era stato sonnambulo, ma questo era normale. Chi di noi non ha mai avuto esperienze di sonnambulismo da bambino? Allora insistemmo, e lui improvvisamente ricordò: «Mia sorella, da bambina, si svegliava scalciando di notte, convinta di dover scacciare dei serpenti…».
Il tempo a disposizione con il Signor S. era scaduto, dovevamo ritornare a Bologna. Non appena saliti in auto Francesca e io ci confrontammo. L’impressione di entrambi era che Salvatore avesse potuto uccidere la moglie durante un episodio di parasonnia. Gli avvocati ci avevano avvertito: sarebbe stato difficile ottenere altre udienze. L’istruttoria era chiusa, impossibile richiedere altre polisonnografie. Si potevano vedere però i familiari, su quelli non c’era alcuna restrizione poiché nessun altro era indagato. Cercammo di riassumere i punti rilevanti e guardammo immediatamente le risposte ai questionari.
In medicina del sonno, come in generale in tutte le specialità mediche, ci si può avvicinare a un sospetto diagnostico, a una diagnosi, attraverso le domande. Con la raccolta dell’anamnesi, il «ricordo» che il paziente stesso e i suoi parenti o conoscenti hanno della malattia del soggetto. In certi casi, soprattutto nelle malattie neurologiche, il «ricordo» deve essere ricercato anche nella famiglia, poiché molte malattie hanno una predisposizione ereditaria. I questionari validati sono delle guide a una corretta anamnesi mirata a un quesito, toccano i punti cruciali e evitano al medico di dimenticare. Hanno anche il vantaggio di infastidire il paziente molto meno di una domanda diretta, col rischio di spingersi oltre toccando nervi scoperti, verità fastidiose. Mettere una crocetta su un «Sì» o un «No», su un numero, può essere più semplice. Il questionario è poi validato, sperimentato su centinaia di persone e confrontato con esami strumentali che ne hanno comprovato l’efficacia.
Dal questionario risultò che il Signor S. era marcatamente sonnolento, con possibili parasonnie. Queste venivano anche riportate nella sua famiglia. Aveva allucinazioni all’addormentamento, indici di privazione cronica di sonno, ma anche indizi, assieme alla sonnolenza patologica, di una possibile narcolessia. I test necessari per indagarla, però, non erano stati eseguiti. Dalle sue risposte era possibile rilevare anche una grave depressione.
Mentre l’auto ci riportava a Bologna riassumemmo, seguendo i criteri suggeriti da Mahowald e Schenck nel 1990 – di cui racconteremo tra poco –, se fossero presenti un numero di indizi sufficienti a sostenere un’ipotesi a difesa dell’omicida: innanzitutto era per noi senza dubbio presente un disturbo del sonno. Le evidenze non erano solide, non c’era una diagnosi certa, sussisteva però un criterio secondario, quello della presenza nella storia di comportamenti simili (aveva sferrato un pugno nel sonno più di un anno prima). L’esplosione del colpo di pistola, inoltre, era avvenuto poco dopo l’addormentamento; l’atto criminoso era stato improvviso, di breve durata. Ritornato cosciente il Signor S. era pietrificato dall’orrore, disperato, nessun tentativo di fuga. All’appello non mancava la privazione di sonno, che viene considerata un criterio precipitante. I parametri proposti per minare la tesi dell’omicidio volontario, oltre ogni ragionevole dubbio, erano ampiamente soddisfatti. Potevamo garantire al Signor S. una tesi difensiva basata su casi precedenti. Avevamo materiale sufficiente da portare al dibattimento, e a questo punto riaprire la partita cercando nelle informazioni di nuove registrazioni video-polisonnografiche la prova inconfutabile che soffrisse di una parasonnia. Anche se era difficile lanciarsi in ipotesi diagnostiche più circoscritte, molti elementi indicavano un episodio di rem sleep behavior disorder, anche se immediatamente successivo all’addormentamento, quindi con ogni probabilità provocato da una privazione di sonno. Il Signor S. aveva quasi certamente messo in atto il sogno che in quel momento gli attraversava la mente, e afferrando la pistola aveva ucciso la moglie.
L’intervista della grande famiglia del Signor S. confermò poi quello che lo stesso pubblico ministero avrebbe riconosciuto nella sua arringa finale. Emerse come anche l’uomo avesse avuto in famiglia episodi di sonnambulismo, ancora più eclatanti in alcuni suoi fratelli.
«La famiglia di origine dell’imputato» citava il pm «è ricca di episodi parasonnici, inquadrabili come sonnambulismo e risvegli confusionali. Anche l’attuale imputato ha manifestato parasonnie, che non vennero valorizzate dall’interessato, non diversamente da quanto riscontrato per gli altri membri del gruppo familiare.»
Lavorammo così giorni interi per cercare di ottenere un’estensione dello studio del sonno. Tutto quello che era stato fatto a Torino non riproduceva in alcun modo le condizioni che avevano preceduto la tragedia. Come in altri processi svolti in Canada e America l’esame avrebbe dovuto essere svolto in maniera naturalistica, occorreva riprodurre la restrizione di sonno, eliminare i sedativi, registrare più notti consecutive. Gli indizi raccolti misero in crisi la prima valutazione peritale, e il giudice decise di ascoltare un secondo parere esperto, ma non aprì a nuove registrazioni polisonnografiche. Quest’ultimo collega milanese considerò l’ipotesi della parasonnia verosimile ma difficile da dimostrare.
La difesa in uno stato di diritto comune avrebbe potuto citare decine di sentenze, invocando la sleepwalking defense, ma in ogni caso occorreva sempre affidarsi alle decisioni della giuria e della corte.
La conclusione del secondo esperto convinse il giudice ad andare a sentenza senza altri studi supplementari. L’accusa richiese l’ergastolo per omicidio volontario, aggravato dal fatto di aver commesso il fatto nei confronti del coniuge inerme, mentre dormiva, con premeditazione. La difesa richiese l’assoluzione, sostenendo che il Signor S. avesse agito in stato di sonno, quindi in stato di incapacità di intendere e di volere.
Il Signor S. però fu condannato, e non sapremo mai con certezza se avesse o meno una parasonnia, perché fu colto da un infarto pochi giorni dopo la condanna.
Il caso del Signor S. è senz’altro uno dei più importanti della cronaca recente, e uno dei pochissimi documentabili in Italia, data la quasi totale assenza di casi nella giurisprudenza italiana. La casistica giudiziaria internazionale, e soprattutto anglosassone, è invece antica e molto ampia, si ha nozione di circa cento casi. Sulla scia del crescente interesse per gli atti violenti commessi durante il sonno, e di una verosimile vantaggiosa remunerazione per consulenti esperti, due intraprendenti ricercatori dell’Università di Minneapolis, Carlos Schenck e Mark Mahowald, hanno anche fondato uno studio che offre consulenze legali ad hoc (Sleep Forensics Associates). Schenck e Mahowald, rispettivamente psichiatra e neurologo, sono due colonne del tempio della medicina del sonno, e sono conosciuti soprattutto per aver scoperto, nel 1986, un disturbo da loro denominato rem sleep behavior disorder («disturbo comportamentale del sonno rem») caratterizzato dalla comparsa, durante il sonno con i movimenti rapidi degli occhi – vale a dire la fase dei sogni –, di comportamenti anche estremamente violenti, associati spesso a un sogno angoscioso, di attacco o di difesa. Schenck e Mahowald affiancano alla loro attività di ricercatori l’impegno in Sleep Forensics Associates, che rappresenta oggi l’unico osservatorio per i casi di violenza commessa nel sonno. Un vero e proprio laboratorio investigativo.
Le segnalazioni di delitti commessi durante il sonno si trovano già nella letteratura medievale. Nel 1312, al Concilio di Vienne, fu stabilito che qualora un delitto fosse commesso da una persona in sonno, questi non sarebbe stato imputabile per la sua azione criminale. Bartolo, un giurista marchigiano del xiv secolo, così noto per la sua pomposità da essere riproposto nelle opere di Mozart e Rossini come figura retorica, corse ai ripari dal possibile abuso della legge stabilita a Vienne affermando addirittura che non era possibile escludere la punibilità del delitto commesso durante il sonno qualora il soggetto fosse cosciente di questa sua pericolosità. Mai dormire con un assassino, consigliava proverbialmente Bartolo. Ma fu uno psichiatra forense austro-tedesco, Richard von Krafft-Ebing, molto noto per essere un esperto catalogatore delle devianze sessuali, a occuparsi per primo in modo sistematico di comportamenti violenti che comparivano durante il sonno, proponendo di considerarli transitori «stati di incoscienza morbosa». In particolare, Krafft-Ebing raccolse numerosi delitti, figlicidi, uxoricidi, parricidi, ma anche suicidi, commessi durante «l’ebbrezza da sonno», quello stato di ritardato ritorno alla lucidità mentale dopo un episodio di sonno profondo, oggi chiamato «inerzia del sonno» (per anni l’inerzia del sonno fu anche denominata «sindrome di Elpenore», l’amico di Ulisse che risvegliatosi al mattino sul tetto della casa di Circe dopo una serie di disavventure e una bevuta abbondante la notte precedente, si incamminò dimenticandosi di essere su un tetto, precipitò e morì). Lombroso stesso, seguendo questo suo contemporaneo, propose che il sonnambulismo dovesse essere considerato una causa di non imputabilità anche nel caso di omicidi efferati. Anche se poi, nello stesso momento, lo riteneva a tutti gli effetti una manifestazione di malattia mentale.
Oggi sappiamo che l’inerzia del sonno, soprattutto quando un risveglio improvviso interrompe il sonno profondo, è davvero una condizione intermedia fra il sonno e la veglia. L’elettroencefalogramma, anche se il soggetto appare sveglio, indica che una parte del suo cervello sta ancora dormendo, a volte sogna pure. Anche l’attività metabolica del cervello è completamente diversa da quella della veglia. Alcune aree continuano a dormire nonostante noi siamo svegli. La durata dell’inerzia del sonno è in parte geneticamente determinata, e rappresenta una finestra temporale davvero critica, durante la quale si possono sperimentare allucinazioni e i tempi di reazione sono marcatamente rallentati, portandoci anche a commettere errori, talvolta disastrosi.
Krafft-Ebing, anche senza conoscere gli studi più recenti sull’inerzia del sonno, aveva identificato i rischi criminologici associati a questa finestra temporale raccogliendo molti casi giunti in tribunale.
Una donna, mentre sognava di scacciare un cane che la perseguitava, scagliò la figlia neonata contro la parete, come fosse un sasso.
Un uomo noto per i suoi sogni agitati e bizzarri, ma anche per il suo temperamento sanguigno, abitando in un luogo isolato dormiva con le armi a fianco del letto; fu così facile per lui raggiungerle e ferire a sciabolate il fratello che gli era piombato in camera, e poi, un’altra volta, sparare al padre mentre cercava di svegliarlo, uccidendolo.
Un altro uomo, padre di due bambini di sette e otto anni, coricatosi alle 20, si svegliò verso mezzanotte da un sonno profondo. Vedeva una figura spettrale che avanzava verso di lui e non si fermava alle sue intimidazioni. Solo dopo averla vista cadere sotto i colpi della sua scure si accorse di aver ucciso l’amatissima moglie. Iniziò a urlare, piangere, disperarsi, e tutta la famiglia corse a vedere lo scempio che aveva fatto della moglie che teneva fra le braccia.
Due casi più recenti, pubblicati su riviste scientifiche assai autorevoli negli anni novanta, il caso Faber e il caso Parkes, hanno posto le basi per quella che oggi nelle aule penali anglosassoni viene invocata come sleepwalking defense. L’intento degli autori dei due casi giudiziari era evidente: solo gli scienziati del sonno possono infatti aiutare giudici e avvocati a dipanare casi e vicende così complesse. La decisione di impostare una strategia difensiva sulla dimostrazione che l’atto criminale è stato commesso durante una parasonnia, la sleepwalking defense, quando ha successo consente agli avvocati difensori di scagionare completamente l’imputato.
Ted Faber, un commercialista di Chicago, venne accusato di aver volontariamente investito ed ucciso Jodie Kerr, una ragazza che di notte gli aveva chiesto un passaggio in macchina. Mentre Faber negava tutto, ricordando solo di aver accostato la macchina a lato della strada e di essersi addormentato, un’amica della vittima testimoniò di aver assistito all’omicidio. Le due ragazze, in cerca di un passaggio verso casa, avevano notato una macchina ferma sul ciglio della strada con un uomo addormentato al volante. Avevano bussato al finestrino svegliando improvvisamente l’uomo che, dopo averle guardate in modo inespressivo e senza rispondere alle loro richieste, aveva acceso il motore della macchina, percorso un centinaio di metri, invertito la marcia e diretto la macchina contro di loro a piena velocità, investendo Jodie e scomparendo nella notte. L’uomo era stato trovato dalla polizia pochi chilometri più in là, nuovamente addormentato in macchina. Non ricordava nulla. La consulenza neurologica e quella psichiatrica, richieste dall’avvocato, non rivelarono alcunché di patologico e i consulenti consigliarono uno studio del sonno. Fu così eseguito uno studio video-polisonnografico durante il quale venne appositamente provocato un risveglio artificiale nella prima parte del sonno. Faber reagì comportandosi in modo violento, dimostrando di essere confuso senza poi ricordare nulla neppure di questo episodio. Mentre Faber pareva lottare con un fantasma, senza smettere di agitarsi nel letto, il tracciato eeg dimostrava che il suo cervello continuava a dormire. Era un episodio di parasonnia. Anche l’omicidio venne considerato conseguenza di un comportamento violento, un automatismo legato a una parasonnia e Faber, ritenuto non responsabile dell’atto commesso, fu rilasciato senza alcun processo.
Il caso più eclatante di omicidio che si ritenne commesso in corso di sonnambulismo, nel quale una efficace sleepwalking defense portò all’assoluzione dell’imputato, viene riportato da Roger Broughton nel 1990 sulla rivista SLEEP. Il narratore è autorevole: Broughton stesso è lo scienziato canadese che propose di utilizzare il termine «disturbi dell’arousal» (ossia disturbi del risveglio) per le parasonnie da lui descritte, a indicare che queste rappresentano comportamenti inabituali che compaiono durante il sonno in un soggetto che non si è completamente risvegliato. Il suo famoso articolo «Sleep disorders: disorders of arousal? Enuresis, somnambulism, and nightmares occur in confusional states of arousal, not in “dreaming sleep”» pubblicato su Science nel 1968 è considerato una pietra miliare. Segnò l’inizio di un’epoca di emozionanti ricerche nei laboratori del sonno.
Protagonista del caso canadese è Kenneth Parks, ventitré anni, impiegato, sposato con una figlia di cinque anni e con la passione per le scommesse sui cavalli. Conosciuto come una buona persona, amato anche dai suoceri, contrae debiti e sottrae denaro sia al lavoro che a casa. Viene licenziato dal lavoro ma decide di non comunicarlo immediatamente. Soprattutto ai suoceri, ai quali avrebbe anche voluto chiedere aiuto, come aveva dichiarato alla riunione degli anonimous gamblers. Risoltosi quindi a parlare con i suoceri dei problemi in corso, la sera prima Parks andò a giocare a rugby; tornato a casa diede da mangiare alla bambina e si addormentò davanti alla tv guardando Saturday night live. Il mattino seguente l’uomo si presentò alla stazione di polizia più vicina alla casa dei suoceri completamente coperto di sangue e disse: «Penso di aver ucciso delle persone».
I fatti furono così ricostruiti: di prima mattina, dopo essersi rivestito e aver percorso con la sua auto 23 chilometri, Parks entrò in casa dei suoceri con la chiave che questi gli avevano affidato, salì al piano superiore, accoltellò la suocera e quasi strangolò il suocero. Difesa e pubblica accusa si fronteggiarono con team di psichiatri, psicologi, neurologi, furono ripetuti più studi nel laboratorio del sonno, durante i quali Kenneth Parks presentò episodi di risveglio incompleto dal sonno. Gli esperti convennero che i tracciati polisonnografici registrati duranti le notti che Parks aveva trascorso nel laboratorio del sonno, monitorando simultaneamente il tracciato elettroencefalografico e il comportamento per mezzo di sensori collegati ai muscoli e di una registrazione video sincronizzata con l’elettroencefalogramma, confermavano la presenza di una parasonnia. Al termine di un complesso dibattimento, la giuria concluse che l’aggressione verso il suocero, l’omicidio della suocera, anche il viaggio in auto, erano avvenuti durante un episodio di sonnambulismo, confermando l’ipotesi della sleepwalking defense.
Se consideriamo un esito positivo l’assoluzione dell’imputato, vi sono altri casi ancora più inverosimili (almeno apparentemente) nei quali la dimostrazione di una parasonnia ha portato all’assoluzione. In altri casi ancora, però, la mancata documentazione di un episodio di parasonnia ha invece precluso ogni possibilità di assoluzione – è quello che accadde, sfortunatamente, nel caso del Signor S.
Un caso emblematico risolto con la condanna dell’imputato per infanticidio è stato invece riportato dal gruppo di ricerca di Colin Shapiro. Un uomo di ventisei anni si svegliò nel cuore della notte e trovò la figlia della compagna nel lettino, coperta di sangue e senza vita. L’unica certezza che aveva l’uomo era quella di essersi addormentato sul divano, dopo aver fatto cenare la bimba affidatagli dalla compagna uscita per lavoro. La polisonnografia, eseguita soltanto per due notti, non documentò però alcun episodio di parasonnia e neppure l’indagine anamnestica, ossia la ricerca di una predisposizione al sonnambulismo nella storia del soggetto e all’interno della sua famiglia, documentò nulla. Ma l’uomo, si scoprì poi, era stato adottato. Per Shapiro non erano stati messi in atto tutti gli sforzi possibili per risalire alla sua famiglia di origine, e quindi svelare possibili fattori predisponenti. L’uomo fu condannato all’ergastolo, e l’orrore del delitto commesso schiacciò anche la volontà dei difensori nella ricostruzione di una difesa completa.
Questo caso viene sempre riportato agli interessanti seminari di Schenck e Mahowald come un esempio di trattamento giudiziario sbrigativo, superficiale, e anche come una lezione per gli avvocati che praticano nei paesi dove le indagini possono essere condotte anche dalla difesa: occorre non solo investigare a fondo senza tralasciare nulla, ma anche riferirsi, durante le indagini, a esperti nella metodologia scientifica e nella medicina del sonno. Le parasonnie, per esempio, sono caratterizzate da un’importante predisposizione ereditaria, genetica. Bisogna quindi sempre ricercare altri eventuali membri affetti da qualche tipo di parasonnia all’interno della famiglia del sospetto sonnambulo violento.
Ogni scena del crimine, infatti, è un terrificante coagulo di immagini difficile da tollerare, e i suoi moventi – consci oppure no – possono annidarsi ovunque. Quando poi la regia del film è affidata a una mente che dorme, le bestie che è in grado di liberare dalle catene del giorno sono imprevedibili e, come abbiamo visto, impossibili da fermare.