7. I tre fratelli che non dormivano mai

La maledizione dell’insonnia fatale familiare

La mia vita di tutti i giorni è costellata di piccoli rituali scaramantici, sono da sempre timidamente superstizioso. Ma non ho mai creduto a formule propiziatorie, vecchie superstizioni e neppure a fantomatici sortilegi. Se penso però al destino ineluttabile che alcuni fenomeni umani portano in sé, come la mutazione genetica che sto per raccontarvi, mi trovo costretto ad ammettere l’esistenza di maledizioni, scientificamente plausibili, che alcune persone si tramandano di padre in figlio, generazione dopo generazione, come un male originario impossibile da estirpare.

Quando l’oscuro fatto si manifestò, il Signor S. aveva cinquantatré anni, e da alcune settimane il suo periodo di sonno aveva iniziato a ridursi. Nulla di strano, apparentemente. La riduzione del tempo di sonno, infatti, così come un peggioramento della sua qualità, accompagnano in modo naturale il passare degli anni, e sono ancora più evidenti quando invecchiamo: nei primi mesi dopo la nascita il sonno occupa più della metà delle 24 ore, ma è frammentato durante la giornata; poi si compatta in un periodo maggiore durante la notte e velocemente, nei primi cinque anni di vita, si riduce di oltre un’ora all’anno; a sei anni il nostro sonno notturno è compreso fra le 9 e le 11 ore; gradualmente si restringe, per poi espandersi di nuovo intorno ai quattordici anni. Il fabbisogno massimo di sonno e la massima profondità del sonno notturno corrispondono all’adolescenza, mentre dai trent’anni in poi il periodo di sonno si assesta, a seconda delle caratteristiche individuali, fra le 7 e le 9 ore, fino a che nella sesta decade di vita si accorcia e la sua qualità inizia a peggiorare. Eccezioni a questo circolo vitale possono essere certamente legate a vari disturbi del sonno, soprattutto all’insonnia, caratterizzata da una scarsa qualità e quantità del sonno, che può colpire chiunque, a ogni età. Quello che stava accadendo al Signor S., però, non aveva nulla a che fare con la fisiologica riduzione del sonno legata all’età, e non era neppure una semplice insonnia. Si trattava di un segnale temuto, e in un certo senso atteso: il Signor S. stesso e Ignazio Roiter, il suo medico, sapevano benissimo cosa significava.

Pochi anni prima, le due sorelle del Signor S. erano morte nel giro di qualche mese a causa di una malattia sconosciuta e rapidamente progressiva. In entrambe, i sintomi iniziali erano stati un disturbo della marcia e della coordinazione, ma soprattutto un’insonnia, un’improvvisa impossibilità a dormire. In un caso era stata eseguita l’autopsia, ma lo studio del cervello non aveva evidenziato nulla di patologico; la morte delle due donne sembrava essere stata frutto di una coincidenza sfortunata, o forse di una predestinazione mortale, di un destino che – come dicevano gli antichi – è già scritto nel libro della nostra vita prima ancora che ci sia concesso di mettere piede nel mondo.

Roiter conosceva bene la storia di quella famiglia: da generazioni donne e uomini sani erano colti in età adulta da una malattia misteriosa – una forma di demenza rapidamente evolutiva secondo alcuni –, senza via di scampo. Nessun medico sino ad allora aveva però valorizzato l’insonnia come un sintomo localizzatore di una disfunzione cerebrale. Uno spostamento di prospettiva che avrebbe ribaltato tutto.

Nei primi decenni del Novecento un eccentrico scienziato, il barone rumeno Constantin von Economo, aveva iniziato a studiare il cervello delle persone decedute a causa dell’encefalite letargica provocata dalla febbre spagnola del 1918. Il barone ipotizzò, in base alle lesioni riscontrate in pazienti deceduti in condizioni letargiche, di aver identificato nell’ipotalamo il centro del sonno. Lesioni ipotalamiche erano infatti associate a stati di marcata sonnolenza. Diversamente dalla letargia, una condizione decisamente patologica, l’insonnia era allora considerata un segno aspecifico, spesso associato a malattie che con il sonno non avevano nulla a che fare. Nella famiglia del Signor S., da generazioni, questa era però un chiaro segnale premonitore, il primo segno che allarmava i suoi componenti. Significava che da quella pistola che tutti loro sentivano puntata alla tempia era partita la pallottola che non avrebbe lasciato scampo. Nonostante i componenti della famiglia fossero certi del significato dell’insonnia rapidamente evolutiva, la risposta dei medici era sempre la stessa: «Quale malattia non ha fra il corollario dei sintomi un’insonnia dovuta all’ansia, al disagio, al timore che la malattia stessa incute?». E tutto è poi amplificato quando una malattia è ereditaria, oscura, ineluttabile e inguaribile. Roiter stesso aveva sempre ritenuto improbabile l’ipotesi di una demenza familiare: il deterioramento cognitivo non era mai stato il primo segno, e almeno all’inizio della malattia sia il Signor S. sia le sue sorelle non avevano avuto né disturbi di memoria né comportamentali. Quando si era manifestato un deterioramento mentale, questo era stato tardivo. Il decorso della malattia era poi estremamente rapido – pochi mesi e la morte si presentava alla loro porta.

Toc toc, sono la morte. Posso entrare?

Una domanda tormentava Roiter da giorni: a eccezione di una demenza subacuta – esclusa dai reperti clinici, elettroencefalografici e poi definitivamente dai riscontri autoptici –, quale altra forma di malattia neurodegenerativa aveva manifestazioni simili? Dopo aver consultato alcuni rinomati neurologi, insoddisfatto delle ipotesi diagnostiche e dei tentativi terapeutici inefficaci nel controllare l’insonnia, Roiter decise di accompagnare il Signor S. a Bologna, dal professor Elio Lugaresi. Lugaresi era stato uno dei primi ricercatori a intuire l’importanza clinica delle patologie del sonno, un vero pioniere nel campo della medicina del sonno, considerato all’epoca uno dei maggiori esperti al mondo – è stato lui il mio grande maestro.

La storia della famiglia era singolare, e fu immediatamente chiaro che non si trattava di una forma di insonnia «reattiva», cioè legata a contingenze ambientali, né tantomeno di un declino cognitivo. Il Signor S., da par suo, non aveva alcun dubbio e continuava a ribadire il suo punto di vista: la malattia che da generazioni decimava uomini e donne adulti nella sua famiglia lo avrebbe presto sopraffatto.

«Dovete fare qualcosa! Non ho più molto tempo, sento che questo male mi sta inghiottendo, e io potrei morire da un giorno all’altro. Se avete la possibilità di aiutarmi fatelo subito, sono pronto a tutto.»

Anche se disperato per la sua sorte era calmo, lucido, coerente nei ragionamenti. Aveva bisogno di sapere se c’erano speranze, altrimenti aveva tante cose da sistemare, per la sua famiglia, per i suoi figli.

«Ci dica quello che le sta succedendo. Che cosa avverte?»

«Sono ormai mesi che non riesco più a dormire professore» disse a Lugaresi. «Sono sveglio non so nemmeno più io da quanto tempo.»

«Non le è mai capitato di addormentarsi da quando è comparso questo disturbo?»

«No, mai. O almeno non saprei dirlo con certezza. Ricordo di aver chiuso gli occhi qualche volta, per un paio di minuti forse, ma non so se stessi dormendo davvero oppure se fossi sveglio. Ricordo soltanto che in quelle occasioni sentivo tanta sonnolenza, sì, tanta sonnolenza… Ma poi appena chiudevo gli occhi nella mia mente comparivano immagini molto rapide, che quasi non riuscivo a distinguere, e che mi facevano riaprire gli occhi subito.»

Il Signor S., raccontò, passava la notte sdraiato o seduto, e a volte aveva l’impressione di essersi mosso durante il sonno, trovava oggetti fuoriposto che pensava di aver spostato in uno stato di incoscienza. Aveva anche provato qualche farmaco, gli stessi che le sue sorelle avevano sperimentato senza effetto. Mentre Lugaresi e Roiter parlavano fra loro, per qualche istante il Signor S. socchiuse gli occhi, i globi oculari ruotarono verso l’alto come quelli di una bambola. È una scena alla quale mi è capitato di assistere molte volte: mentre la palpebra si chiude l’iride e la pupilla cercano protezione e si nascondono al riparo sotto la palpebra – si tratta di un fenomeno fisiologico, conosciuto come fenomeno di Bell, che accompagna l’addormentamento e indica anche un imminente colpo di sonno o una marcata sonnolenza. Mentre gli occhi si socchiudevano, le braccia del Signor S. si sollevarono fin sopra la testa in un comportamento chiaramente involontario. Sembrava mimasse l’atto di pettinarsi.

Un sussulto lo risvegliò. Si ricompose, leggermente disorientato, pareva vergognarsi di quello che aveva appena fatto.

«Le è successo qualcosa?»

«No, tutto bene.»

Era un colpo di sonno, non c’erano dubbi, e il comportamento automatico associato indicava che un contenuto mentale, in quel momento, era collegato al gesto di pettinarsi.

L’esame obiettivo neurologico, cui fu sottoposto per cercare segni di alterazione del normale funzionamento del sistema nervoso, svelò alcuni problemi che Roiter aveva già evidenziato nelle sorelle decedute: il Signor S. aveva un lieve disturbo della coordinazione, soprattutto quando con la mano stava per raggiungere un obiettivo aveva un’impercettibile incertezza. Anche la marcia era incerta, molto cauta, e mentre si aggirava per il laboratorio teneva le gambe divaricate per contrastare la spinta interna che gli comprometteva l’equilibrio. Si trattava di un’«atassia cerebellare», un termine che indica una mancanza di precisione nel movimento, e che può essere causata da una disfunzione del cervelletto, il centro nervoso preposto alla coordinazione, ma appunto anche da una marcata sonnolenza. Potremmo definirla una «ubriachezza da sonno».

Nonostante divorasse i pasti, il Signor S. era dimagrito otto chili in pochi mesi e la sua pressione arteriosa era estremamente instabile; anche quando stava sdraiato mostrava rapide oscillazioni fra valori molto alti e altri molto bassi. Era dunque necessario studiarlo con una polisonnografia, l’unica tecnica che avrebbe consentito di monitorare in modo sincrono un grande numero di parametri biologici. Si decise di esplorare simultaneamente le varie funzioni che normalmente, fisiologicamente, oscillano nelle 24 ore. Occorreva sottoporre il paziente a un nictemero, ossia un monitoraggio diurno e notturno di un’intera giornata.

Il laboratorio del sonno fu attrezzato con un’illuminazione con le caratteristiche della luce solare, modulabile fino a 10 000 lux, che sarebbe rimasto attivo per 16 ore. Per le 8 ore restanti, quelle che coincidevano con la notte, il Signor S. sarebbe restato al buio, scrutato con discrezione dagli infrarossi di una telecamera. Anche la temperatura della stanza era monitorata e modificabile dall’esterno in base all’esigenza del paziente. Dato però che non tutto è tracciabile con il poligrafo, e non tutte le funzioni fisiologiche sono convertibili in parametri elettrici, ogni ora, attraverso un’apposita pompa, gli sarebbe stata prelevata una piccola quantità di sangue per dosare glicemia, ormoni e melatonina. Il controllo dei pasti avrebbe consentito un monitoraggio dell’introito calorico, e il confronto fra i liquidi assunti, il peso corporeo e la quantità di urina avrebbe fornito i dati necessari a calcolare un corretto bilancio idrico.

Il Signor S. fu preparato per lo studio del sonno. Era tranquillo, quasi disinteressato, mentre tecnici e medici incollavano piccole coppette metalliche fra i suoi capelli, sgrassavano la cute ai lati degli occhi, posizionavano e regolavano le fasce elastiche sul torace, fissavano gli elettrodi ai muscoli, preparavano il catetere venoso, quello urinario, e inserivano la sonda per la temperatura interna. Finalmente si sarebbe capito di più, forse i risultati avrebbero indicato una terapia, una soluzione. Il Signor S. si coricò sul letto della stanza del sonno, controllato da telecamere a circuito chiuso e da un interfono. Gli era concesso di sgranchirsi ogni 4 ore.

Il momento in cui lentamente si chiuse la grossa porta bianca della stanza insonorizzata sembrò allontanarlo di una distanza incalcolabile dall’affaccendarsi delle cinque persone intorno agli strumenti di monitoraggio. Erano a meno di due metri da lui, nella stanza attigua. Il Signor S. si guardava tranquillamente intorno, come un animale raro ingabbiato in un diorama.

È un luogo magico il laboratorio del sonno, che offre suggestioni straordinarie. Ricordo ancora la prima volta che vi entrai. Restai affascinato dal suono del poligrafo. Decine di penne verdi e argento descrivevano tracce indipendenti su un grande foglio di carta. La carta veniva risucchiata da un enorme pacco fino all’interno del poligrafo, trascinata da un rullo scorreva regolarmente sotto le lunghe penne metalliche in movimento e veniva deposta dalla parte opposta del poligrafo, dove la mano del tecnico asciugava con un tampone assorbente le tracce di inchiostro e aiutava la carta a impilarsi ordinata, fino a formare un volume scritto in una lingua sconosciuta. Saper interpretare il significato di quel volume significa riconoscere il sonno, leggere il suo alfabeto segreto. Ma soltanto chi ha trascorso notti e notti nel laboratorio riesce a riconoscere il suono del sonno. Il leggero e costante rumore delle penne del poligrafo Grass ha infatti diverse caratteristiche a seconda che registri la veglia o i vari stadi di sonno. Durante la registrazione del Signor S., ininterrottamente, il suono era uno solo: ricordava il rumore di frasche agitate da un vento teso, il tipico fruscio con cui si esprime la veglia. Ogni volta che il Signor S. si muoveva il rumore aumentava, come se una raffica eccitasse l’oscillare delle penne. Nessun rumore udibile ricordava quello armonico del sonno profondo, neppure a luce spenta. Il Signor S. era calmo, sia che gli occhi fossero chiusi sia che fossero aperti, non dormiva. Il tracciato – che raccoglieva i segnali provenienti da ventiquattro elettrodi d’oro incollati sul cuoio capelluto, e da altri due posizionati con cautela ai lati degli occhi e tre fissati sotto il mento – veniva impresso su un enorme volume di oltre 2900 pagine, e confermava la totale assenza di sonno profondo per le 24 ore di registrazione. Solo per pochi secondi, talvolta per pochi minuti, il vento della veglia cessava. Scrivendo sulla carta in movimento, le penne del poligrafo producevano suoni cadenzati, lenti: quello ritmico dell’elettrocardiogramma, del respiro, della pressione arteriosa. Dalle penne dell’elettroencefalogramma e da quelle posizionate sui muscoli solo un improvviso silenzio interrotto da un rumore rapido rapsodico, come un battito d’ali: indicava i movimenti rapidi dei globi oculari. Era il sonno rem, la fase del sonno in cui la mente è attraversata dai sogni, contenuti mentali vividi, bizzarri. In quel momento i muscoli del nostro corpo sono paralizzati e gli occhi seguono le fantastiche immagini del sogno. Ma questo non accadeva al Signor S.: durante il sonno rem talvolta portava le braccia in avanti, una davanti all’altra, compiendo movimenti alterni, come se fosse intento a pescare, a sbatacchiare un’immaginaria canna da pesca in attesa dell’abbocco vincente. Altre volte si sbottonava e riabbottonava il pigiama, oppure apriva improvvisamente gli occhi e indicava davanti a sé preoccupato: «Un cavallo bianco! Un cavallo bianco!».

Erano frammenti di sogno, allucinazioni, schegge di sonno rem che tentavano di emergere in un cervello condannato a restare per sempre sveglio. E la paralisi muscolare non era completa, consentiva al Signor S. di agire i brevi sogni. Si trattava di una forma dissociata di sonno rem, l’unico tipo di sonno in grado di essere prodotto dal suo cervello. Il sonno è il risultato di un fenomeno cerebrale attivo, e coinvolge centri e circuiti che sono stati identificati nel tronco cerebrale dai fisiologi nella seconda metà del Novecento. Seppure contigui, i centri che controllano il sonno profondo, la veglia e il sonno rem agiscono indipendentemente, e utilizzando segnali elettrici e biochimici diversi si alternano nella loro funzione e si controllano a vicenda.

Era dunque possibile, stando a quanto visto nelle registrazioni, che la malattia oscura che stava colpendo il Signor S., e che aveva ucciso le sue sorelle, stesse minando la coordinazione dei sistemi di controllo e di produzione di sonno profondo, sonno rem e veglia.

Quale fosse la causa, però, restava un mistero.

Al termine del nictemero il Signor S. aveva dormito in totale meno di un’ora, soltanto qualche manciata di sonno rem, pochi secondi o minuti per volta, durante i quali improvvise reminiscenze della sua vita, di attività quotidiane o allucinazioni attraversavano la sua mente. Il sonno profondo era completamente assente. I parametri endocrini, pressione, frequenza cardiaca e temperatura dimostravano come il suo corpo fosse in un perenne stato di allerta, di attivazione del sistema simpatico. Dopo un mese, un nuovo nictemero sancì la progressione della malattia, e purtroppo soltanto lo studio del suo cervello dopo la morte avrebbe potuto «fare luce nella penombra delle nostre congetture» come disse Lugaresi. Ma fu il Signor S. stesso ad anticipare tutti. Conscio del suo destino rassicurò che da parte della sua famiglia non ci sarebbero state obiezioni a un’autopsia.

Morì a distanza di due mesi dal ricovero, e a nove mesi dall’inizio della malattia. La misteriosa maledizione aveva sopraffatto anche questa generazione della famiglia, e l’ultimo dei tre fratelli che non dormivano mai si addormentò per sempre.

L’autopsia fu effettuata poche ore dopo il decesso da mani che fino a poco prima avevano accudito lo stesso uomo in vita. È un atto doloroso, difficilissimo, drammatico quello dell’autopsia, e occorre sempre serbare un’infinita gratitudine per chi ha regalato il proprio corpo alla conoscenza.

All’autopsia del Signor S. fu posta tutta l’attenzione possibile per estrarre il cervello senza danneggiare il tronco cerebrale, che è in una posizione sfavorevole, al di sotto degli emisferi cerebrali. Occorre sollevare con delicatezza l’emisfero, tagliare la dura membrana che separa la parte posteriore degli emisferi cerebrali dal cervelletto e disancorare il tronco cerebrale tagliando i nervi cranici che fuoriescono ai lati del ponte e del mesencefalo, prima che impegnino i fori della base del cranio. A questo punto, praticando una sezione al di sotto del bulbo, il cervello può essere estratto intero.

Il cervello del Signor S. non mostrava alcun segno di atrofia e la sua irrorazione era normale. Non erano presenti segni di ischemia. Fu preparato secondo le istruzioni per essere spedito, assieme al segreto che custodiva, a Cleveland dal professor Gambetti. Gambetti era dieci anni più giovane di Lugaresi ed era stato suo allievo. Ma presto aveva deciso di dedicarsi allo studio della patologia del sistema nervoso, prima in Belgio e poi negli Stati Uniti, diventando uno dei neuropatologi più noti al mondo. Lo studio neuropatologico non mostrò lesioni di nota nel tronco cerebrale del Signor S. Rivelò invece, inaspettatamente, i segni di una degenerazione estremamente circoscritta dei nuclei antero-ventrale e dorso-mediale dei talami di destra e sinistra. Il talamo è un grande nucleo di cellule nervose adibito allo smistamento delle informazioni verso la corteccia cerebrale, un grande relais delle afferenze in arrivo al cervello, e contribuisce anche all’organizzazione del sonno a onde lente, cioè il sonno profondo, garantendone la continuità. La parte più mediana di uno dei due nuclei colpiti dal processo degenerativo rappresentava inoltre l’avamposto del fitto reticolo di informazioni nervose che congiungeva i centri regolatori del sonno alla corteccia cerebrale. La sua distruzione impediva al sonno di manifestarsi come un fenomeno globale. Per questo erano individuabili nel tracciato polisonnografico soltanto brevi frammenti di sonno rem, spesso incompleto: la mancanza di sonno causata dalla distruzione della parte anteriore del talamo impediva l’oscillazione di tutti i parametri vitali nelle 24 ore, ostacolando anche il ristoro e trascinando l’organismo in una logorante iperattivazione.

Ecco dunque spiegata l’impossibilità a dormire del Signor S.; la topografia delle lesioni sembrava finalmente indicare una plausibile spiegazione della sua insonnia. I dati furono pubblicati sulla prestigiosa rivista medica New England Journal of Medicine, e la malattia fu chiamata «insonnia fatale familiare» – il termine anglosassone fatal indicava la letalità ineluttabile. Restava però da chiarire il meccanismo della degenerazione talamica, e la modificazione genetica causa della malattia. A cosa era dovuta?

Prima di farsi prendere dall’entusiasmo di una nuova scoperta occorre verificare se esistano nella letteratura scientifica casi simili. Quello del Signor S. e delle sue sorelle era l’unico caso che fosse mai stato segnalato nel mondo. Non mancavano invece personaggi letterari condannati a non dormire mai, vittime di incantesimi malvagi, maledizioni o stregonerie fiabesche. Valeria Manetto, il patologo che aveva effettuato l’autopsia del Signor S., era stata colpita dalla somiglianza fra la malattia di quella famiglia e il racconto di quanto avveniva nell’immaginaria cittadina di Macondo in Cent’anni di solitudine. Nel romanzo di Gabriel García Márquez, infatti, un giorno arriva in paese una piccola orfana, inviata da lontani parenti di cui nessuno serba memoria. La bambina, chiamata Rebecca, porta con sé il contagio della malattia dell’insonnia, che getta subito la cittadina in uno stato di sonnolenza. Oltre a impedire di dormire, il morbo provoca anche una progressiva e grave perdita di memoria, al punto che gli abitanti di Macondo devono scrivere bigliettini con il nome delle cose su ogni oggetto di uso comune e compilare una lista di incombenze quotidiane per sopravvivere. Molto spesso gli autori si ispirano a quanto osservano o quanto viene loro riferito, e i personaggi letterari, seppur partoriti dall’immaginazione dei loro scrittori, hanno sempre qualcosa di reale. Márquez avrebbe potuto tranquillamente trarre la sua storia da persone realmente esistite, e la scoperta di una nuova famiglia affetta da insonnia fatale familiare avrebbe aggiunto grande valore alla scoperta. Per questo motivo Lugaresi e Gambetti decisero di contattare Márquez, che raggiunsero per telefono a Cannes. Non esisteva però alcuna famiglia reale, il suo capolavoro di realismo magico era un perfetto prodotto della fantasia. Márquez rimase a lungo al telefono, affascinato dalla terribile storia dei tre fratelli che tanto e inconsapevolmente aveva di simile alla maledizione di Macondo.

È spesso così, dopotutto: la natura segreta della vita assomiglia straordinariamente ai sogni degli scrittori.

La storia dell’insonnia fatale familiare si incrocerà poi, tempo dopo, con gli studi che un neurologo americano, Stanley Prusiner – futuro premio Nobel per la Medicina –, stava da anni conducendo all’Università della California sul paradosso delle «encefalopatie spongiformi», così chiamate per la trasformazione caratteristica che determinavano nella corteccia cerebrale delle persone affette, trasformandola in una specie di spugna. Il paradosso consisteva nel fatto che queste malattie, ineluttabilmente letali, potevano insorgere in modo spontaneo, ma potevano anche essere infettive ed ereditarie. Ma mentre qualsiasi malattia infettiva o ereditaria richiede, per la sua trasmissibilità, la presenza del dna, il codice a barre sul quale vengono costruite le proteine, la cosa davvero inspiegabile che Prusiner dimostrò era che le encefalopatie spongiformi potevano essere trasmesse eliminando qualsiasi frammento di acido nucleico, dna o rna. Un altro premio Nobel, Carleton Gajdusek, aveva dimostrato negli anni cinquanta la trasmissibilità di un’altra malattia che stava decimando donne e bambini di una tribù Fore della Nuova Guinea: il Kuru. Si trattava anche in questo caso di un’encefalopatia spongiforme, e causava una demenza rapidamente evolutiva, mortale, che iniziava con un disturbo della coordinazione, come nel caso dei tre fratelli. Utilizzando omogenati del cervello dei defunti riuscì a trasmettere la malattia alle scimmie, e da queste risalì alla causa della propagazione della malattia: i Fore praticavano il cannibalismo rituale, dunque la malattia era contratta attraverso il consumo di carni umane che ne erano affette. Dovevano tuttavia trascorrere anni prima della manifestazione dei sintomi, che si presentavano solo a distanza di molto tempo. Gajdusek ipotizzò allora la presenza di un «virus lento», responsabile di una malattia mortale e della degenerazione spugnosa del cervello dopo anni dall’ingresso nell’organismo. L’interruzione dei rituali antropofagici risolse il problema per i Fore, ma la trasmissione delle encefalopatie spongiformi era già diventata un’emergenza.

Avendo ormai un quadro pregresso abbastanza chiaro, la missione di Prusiner non poteva limitarsi a impedire che il morbo dell’encefalopatia spongiforme continuasse a contagiare, ma occorreva capire una volta per tutte di cosa si trattasse e come curarlo. Dal xviii secolo era nota una malattia nella pecora definita scrapie, dal continuo atto di grattarsi instancabilmente che caratterizzava gli animali malati. Veniva trasmessa con l’ingestione della placenta appena partorita, assai nutriente, ma in questo caso letale. Negli anni ottanta però, l’uso delle farine proteiche ottenute dalle carcasse animali aveva portato a una gravissima epidemia di encefalopatia spongiforme bovina in Inghilterra – la cosiddetta malattia della mucca pazza, che porterà poi, come ben sappiamo, anche al contagio umano. Ma qual era l’agente infettante di queste terribili, devastanti malattie? L’ipotesi del «virus lento» non aveva trovato riscontri, nessun virus era presente nei cervelli devastati di animali e pazienti uccisi da queste encefaliti, e nessun altro agente patogeno convenzionale. E se il contagio fosse in grado di passare senza l’acido nucleico, senza un progetto malefico scritto in un frammento di dna?

Prusiner, inizialmente contrastato dalla comunità scientifica, ipotizzò che una proteina alterata, senza l’intervento di acido nucleico, potesse determinare la modificazione nella struttura terziaria – l’architettura tridimensionale – dell’omologa proteina sana, alterandone la funzione e determinandone l’accumulo tossico nei tessuti. Coniò il termine «prione» per identificare queste proteine, sane e malate. L’ipotesi che Prusiner si accingeva a dimostrare rappresentava la caduta di un dogma: per costruire una proteina, e anche per determinare la sua struttura terziaria, occorreva un gene. Ogni proteina ha il suo gene. Secondo Stanley Prusiner, nel caso dello scrapie e delle encefalopatie spongiformi in generale, la trasmissione di una malattia era sostenuta dalle sole proteine alterate in grado di modificare quelle sane fungendo da stampo, da template, senza richiedere la presenza del materiale nucleico di un virus. La velocità dei progressi della biologia molecolare giocava dalla sua parte: il gene del prione fu presto identificato e le mutazioni patogene delle varianti umane dell’encefalopatia spongiforme più frequente, la malattia di Creutzfeldt-Jakob, furono identificate. Prusiner dimostrò la trasmissibilità dell’encefalopatia spongiforme utilizzando la sola proteina alterata, senza la necessità di un gene mutato.

La ricerca di Prusiner e l’insonnia fatale familiare si avvicinarono definitivamente quando anche una cugina del Signor S. si ammalò. Oltre all’insonnia, la malattia si manifestò con tutti i sintomi delle encefalopatie spongiformi: atassia, demenza, piccoli fremiti involontari (le mioclonie), crisi epilettiche e il caratteristico tracciato elettroencefalografico erano tutti presenti. L’analisi genetica dimostrò la presenza della mutazione già nota come causa della malattia di Creutzfeldt-Jakob nel gene della proteina prionica. Una «encefalopatia da prioni», ecco la nuova denominazione di queste rare e tremende malattie. Prusiner aveva vinto la sua battaglia scientifica.

Quando la donna morì, come ci si aspettava, il suo cervello presentava la tipica degenerazione spongiosa della malattia di Creutzfeldt-Jakob, ma anche la stessa degenerazione talamica del Signor S.

Che conclusione se ne poteva allora dedurre? Esisteva un’insonnia fatale familiare? La nostra formazione di esperti del sonno ci aveva portati a sopravvalutare l’insonnia? La collaborazione fra Prusiner e Gambetti risolse l’enigma. Nel dna responsabile del codice di ogni proteina, anche di quella prionica, esistono delle varianti, dette polimorfismi, che non modificano la funzione e la struttura della stessa proteina. Nella proteina prionica mutata però, i vari polimorfismi presenti trasformano la proteina in modo tale da modificare la tipologia di lesioni cerebrali e i sintomi della malattia. Quindi una malattia Creutzfeldt-Jakob con una degenerazione spongiosa in un caso, o un’insonnia fatale familiare nell’altro.

Al discorso che tenne nel 1997 sul podio del Nobel a Stoccolma, Prusiner menzionò anche l’importanza degli studi sull’insonnia fatale familiare nella dimostrazione dei meccanismi di contagio e trasmissione delle malattie da prioni. Purtroppo, nessuna di queste malattie oggi ha ancora una cura che non sia quella della diagnosi prenatale nelle forme genetiche ed ereditarie, e oltre trenta famiglie con insonnia fatale familiare identificate nel mondo attendono ancora una cura.

L’insonnia fatale familiare non è allora soltanto una metafora letteraria, come nella città di Macondo descritta da Márquez, ma una maledizione reale.