07

A casa dell’ebanista non c’era nessuno, eppure ogni stanza era abitata.

Le pareti erano ricoperte di arazzi raffiguranti leoni che trainavano carri, cervi che combattevano orde di lupi, guerrieri che suonavano la tromba. Sulle travi c’erano sculture, e maschere sui travicelli. Farfalle con le ali tutte impolverate si agitavano dentro campane di vetro. All’ingresso svettava un sarcofago in legno pieno di incisioni, sul quale alcuni falciatori accarezzavano delle lattaie. Sopra alcune assi c’erano mappe di savane, medaglioni con ritratti, tutta la genesi su un arazzo campestre. La casa era vuota ma sembrava popolata da mille uomini.

Guerra salì una scala sospesa e raggiunse il mezzanino. Al primo piano c’era una biblioteca di libri antichi e alcune pettiniere in noce. Riconobbe nell’ombra la sagoma di un elegante armadio con la cornice intagliata, che occupava quasi un’intera arcata. Le ante erano chiuse con una serratura a cremonese. Sul telaio, un piallaccio raffigurava un gigante che attraversava un fiume.

Cominciarono a cercare la chiave nei doppifondi, sotto i tappeti e dietro agli arazzi sui muri, ma invano. Pensarono di smontare i pannelli, ma i perni erano troppo saldi. Vollero forzare la serratura, ma Guerra gli proibì di toccarla.

«Non vedete che è originale?» tuonò.

Si sedette sul letto, levò il passamontagna e si prese la testa tra le mani. Impotente davanti al mobile chiuso, decise di passare a qualcosa di più incisivo. Alzò la cornetta e in un’improvvisa ispirazione compose un numero.

A circa cinquanta chilometri da lì, nella città di Los Teques, l’ebanista fu chiamato alla reception mentre si tirava su la lampo dentro i bagni del gran ballo. Nel veder comparire il numero della propria abitazione, trasalì.

«Buonasera, signore» disse Guerra in modo molto professionale. «La chiamo da casa sua, sono seduto sul suo letto e davanti a me ho il meraviglioso mobile a intarsio che ha in camera. Sono un collezionista e ho notato subito il suo gusto per il frisage. Mi permetta di farle i complimenti per questa opera d’arte. Conosco bene il suo lavoro. Ho letto quasi tutti i suoi articoli. Lei non immagina nemmeno fino a che punto io rispetti i suoi sforzi nel portare avanti un mestiere troppo spesso dimenticato. Ho trascorso l’infanzia a farmi venire i calli alle mani con gli intarsi su carta da parati, a togliere la colla e a segare. Ovviamente era tutto mobilio a buon mercato… Non siamo certo ai suoi livelli. Mi sono comunque appassionato alle decorazioni. E ho sempre saputo che esistono persone come lei che, con una discreta disciplina, difendono la memoria di un’arte che, ahimè, ormai tutti giudicano un po’ antiquata. Per me è un onore essere in casa sua, signore. Mi permetta di dirle una cosa: lei è un poeta».

L’ebanista, confuso e agitato, minacciò di chiamare la polizia. Ma si sentì così commosso da quello che gli aveva appena detto Guerra che voleva quasi riattaccare. Poi con parole sincere, come se il suo lavoro fosse rimasto nascosto a lungo, come se infine fosse svelata davanti ai suoi occhi e a quelli degli altri l’opera da lui segretamente realizzata anno dopo anno, in un’intensità desolata, l’ebanista si sentì mormorare: «La ringrazio molto».

E subito Guerra riprese.

«Le rubo ancora qualche minuto. Vorrei un chiarimento sull’origine del legno. È amaranto o palissandro?».

«Amaranto».

«Mi è sembrato di vedere scaglie di tartaruga in stile Boulle. Mi tolga un dubbio: sono incastrate nell’impiallacciatura?».

«No. Sono applicate con la colla di ossa».

«Incredibile quanto si assomiglino i nostri mestieri. Anch’io odio rimanere incastrato».

L’ebanista tacque. Uscì dalla cabina del telefono e si trovò di fronte a un grande specchio. Era pallido. Guerra continuò.

«Ho voluto chiamarla per sapere dove si trova la chiave, gentilmente».

«Il mobile è mio» rispose l’ebanista con voce strozzata.

«Ma la situazione è nelle mie mani».

«Ha forzato la serratura?».

«Non ancora. Ho preso un’ascia però. Lei pensa che l’amaranto possa resistere a lungo?».

L’ebanista si preoccupò.

«Come pensavo» rispose Guerra. «Nessun problema. Lei mi tiene nascosta la chiave e io le tengo nascosto il mio tatto».

«Perché non prende la biblioteca?» fece l’altro nel tentativo di negoziare.

«Pensavo che lei fosse un uomo intelligente».

«Prenda le anfore. Valgono una fortuna».

«Le sue anfore sono talmente vecchie che preferirei portarmi via la polvere che c’è sopra».

Guerra ebbe la sensazione che l’intero paese lo ascoltasse e aggiunse:

«Signore, i popoli si riprendono la dignità a colpi di ascia perché è a colpi di ascia che gli è stata tolta».

«Chiamo la polizia».

«Faccia il bravo».

«La verità…» ammise l’ebanista «la verità è che la chiave ce l’ho io».

Quella confessione permise a Guerra di immortalare uno dei momenti più belli della sua carriera. Non si trattava più dell’incaponimento di un solo uomo, ma di quello di un’intera razza di ladri decisi a non cedere alle menzogne degli oligarchi. Assunse il tono impostato dei processi e con calma, con quella leggera dismisura che lo avrebbe rovinato e allo stesso tempo reso grande, spiegò:

«Signor ebanista, il ladro alle prime armi le crederebbe pure. Il ladro avveduto non le crederebbe affatto. Il ladro come me la manda al diavolo. Di fronte all’incommensurabile generosità che mi ha spinto a chiamarla e a tenerla informata sugli sviluppi del furto, lei tira fuori una simile bassezza?».

«Non volevo offenderla».

«Ci vuole ben altro».

«Insisto».

«No, sono io a insistere. È durata anche troppo».

«Per favore».

«L’ascia è dissotterrata».

L’ebanista, confuso, finì con l’indicare il luogo in cui si trovava la chiave dell’armadio, a condizione che prestassero la massima attenzione. Guerra ebbe il buon gusto di non ringraziare. Dopo qualche convenevole, riagganciarono entrambi come da protocollo, con parole di tutto rispetto.

«Visto?» disse Guerra agli altri con una fierezza che non riuscì a dissimulare. «Non basta rubare. Bisogna anche avere talento».

Quel che trovarono quando aprirono il mobile fu una chitarra a cinque corde, due clessidre e un grosso oggetto nascosto da un telo bianco. La mano di Guerra tremò nel togliere il lenzuolo.

Lo alzò delicatamente e davanti ai suoi occhi apparve brillante, immortale e piena di storia, la statua del Nazareno di San Paolo vestito con la sua tunica malva ricamata d’oro, la corona di spine, il profumo delle antiche processioni e il viso sfigurato dalla pallottola che il vecchio creolo aveva sparato cinquant’anni prima.