Pedalava su una cyclette in un angolo del palco, mentre le due ballerine-attrici discutevano delle proprie madri a favore del pubblico, cercandosi e accostandosi in un esercizio di contact. Era una piccola produzione, uno spettacolo commovente il cui senso pareva essere che le madri, per quanto si sforzino, non possono capire le figlie. Un riflettore a occhio di bue era puntato quasi costantemente sulla donna dai capelli corti che pedalava. Portava sulle orecchie un paio di vecchie cuffie da walkman – il cerchietto di metallo brillava – e si allenava in una tuta acquamarina acetata e stazzonata che non faceva capire molto della sua corporatura. Pedalava fino a farsi venire il fiatone, cantando sempre una stessa canzone, un brano italiano che non ricordo, la cui melodia andava in qua e in là come uno di quei pupazzi pieni d’aria dei parcheggi dei centri commerciali: la sua voce, intonata e inesperta allo stesso tempo, seguiva la melodia con uno slancio e una simpatia che mi stavano facendo venire una gran voglia di conoscerla.
La vidi da vicino quando uscì insieme all’autrice e all’interprete principale: in tre a braccetto, l’autrice al centro e le altre due ai fianchi, si diressero verso di noi. Per noi intendo me e i genitori dell’autrice, che ci eravamo messi a parlare nel foyer poco affollato. Mi ero diretto io spontaneamente dagli unici anziani indovinando una parentela. Il mio amico Francesco, che mi aveva portato lì per vedere lo spettacolo perché l’autrice gli aveva proposto di scrivere un soggetto insieme, se n’era andato appena gli avevo detto che volevo conoscere la ragazza della cyclette. Dico ragazza ma era una donna sopra i trent’anni con la faccia da ragazza, liscia, senza una ruga.
Moglie e marito erano alti uguali, sul metro e settanta, di simile corporatura robusta, e li ricordo in due giacchette castane, lui di renna lei sintetica, un po’ calde per la fine della primavera; sembravano molto uniti e scossi dallo spettacolo. «Siete i genitori della sposa…» mi era uscito, per sbaglio, e loro erano scoppiati a ridere e si erano messi a chiacchierare per distrarsi… Che lei non fosse ancora stata mai “la sposa” era uno dei problemi dei genitori, a dare retta alla versione di parte che avevamo appena ascoltato, problema non disgiunto dal fatto che a trentacinque anni ancora prenotava teatri per produrre i suoi spettacoli. Questo lo dissero loro, in un modo simpatico e accettante che persero appena la figlia uscì dai camerini scortata dalle amiche.
«Cia-o» disse lentamente, e le due amiche non le lasciarono i gomiti. La ragazza della tuta, ora in un vestito blu scuro a righe chiare con eccentrica chiusura a doppiopetto, aveva il miele nelle guance, un miele misto al rossore, un viso d’arvicola con la fronte lunga e due zigomi gonfi come se avesse preso dei pugni: un viso alieno, disegnato, con al centro un naso da pugile che sembrava rotto, un naso simile a quello di Owen Wilson, o di Belmondo, ma non una bellezza androgina. Guardava la sua amica con occhi scuri, piccoli e amorevoli. La ragazza della cyclette, l’autrice e i suoi genitori erano alti uguali; la terza amica era alta quasi come me, e conosceva i genitori quindi contribuiva alla conversazione, «allora, vi siete divertiti?», sorniona, mentre l’autrice rideva e non commentava.
I miei genitori mi hanno educato a parlare alla pari con chiunque: l’editore straniero cui voglio vendere un libro, l’amministratore comunale con l’incarico di una manifestazione culturale, il candidato al Nobel. Non si può essere in soggezione se si è calmi e umili e si rispetta lo spazio altrui. I miei genitori non me l’hanno mai detto a parole, ma c’è una combinazione tra la laica e sobria sicurezza di mio padre, che per lavoro investe denaro nei progetti degli imprenditori giovani, e la profonda fede cattolica di mia madre: non esistono persone con cui sentirsi inferiori perché non esistono persone con cui sentirsi superiori.
Questo tipo di educazione torna utile con le donne. In quel momento mi trovavo in quel quadretto famigliare e potei rivolgermi alla ragazza della cyclette, di cui ancora non sapevo il nome né mi sforzavo di cercarlo sulla locandina appesa accanto allo sportello della biglietteria. Le dissi: «Si potrebbe scrivere il punto di vista dei genitori e metterlo in scena sempre qui…».
E lei, che prendeva le parti dell’autrice, ribatté davanti a tutti guardandomi per la prima volta negli occhi, e già con simpatia: «Ma no, ti sbagli, è una commedia, e madre e padre sono archetipi! È praticamente ispirato più alla mia famiglia che alla sua, figurati…».
«I miei clienti non sono affatto convinti» li feci ridere, «ci sembra un attacco personale, ecco insomma è necessario quantomeno un chiarimento!»
E successe quel che speravo con tutto il cuore: la sceneggiata si sfilacciò con naturalezza e io e lei proseguimmo la conversazione da soli: «Che cosa tremenda, poveretti» concesse lei. «Se la meritano tutta, eh, sono tremendi… Però anche dolci, mi hanno fatto pena.»
Quando le altre due ci raggiunsero entrammo nel primo bar a offrire un Campari alla protagonista, che non rideva più e stava dicendo: «Ma tu ti rendi conto, sì?» alle altre due.
Mentre l’autrice insisteva per offrire e si avvicinava alla cassa, io approfittai dell’attimo in cui la quarta uscì fuori ad accendere una sigaretta per avvicinarmi all’orecchio di Barbara, che nel frattempo si era presentata. Le dissi: «Andiamo a cena da soli».
Mi scostai, lei premette le labbra guardando davanti a sé, poi scoppiò a ridere e senza dire di sì tirò fuori il cellulare dalla borsetta bianca laccata e digitò il codice per sbloccarlo.
Sfilai ancora lungo il bancone per lasciarla sola – era uno di quei bar lunghi e stretti che creano facilmente imbarazzo – quindi ci riunimmo tutti e quattro fuori dal locale per i saluti e come feci per andare verso il mio motorino lei si avviò con me senza nessuna cerimonia o battuta autoironica.
Cenammo da un vietnamita molto buono il cui proprietario romano, che pronunciava «vie’namita» regalandoci il primo tormentone da condividere prima ancora di essere stati a letto insieme, ci tenne compagnia per un quarto d’ora spiegandoci, in tale dettaglio da toglierci ogni possibile imbarazzo per il nostro appuntamento improvvisato, le sue battaglie sui social media con quelli che non capivano che la sua era «una cucina vie’namita regionale e non nazionale» perché «parlare di cucina vie’namita nazionale è tecnicamente scorretto».
Ci distraeva, permettendoci di rallentare. Mi piaceva questa donna, com’era vestita, lo sguardo sincero. In pochi minuti si ritrovò a parlarmi del periodo “paludoso” in cui si trovava: un uomo in un’altra città che sicuramente aveva già un’altra donna.
Le dissi: «Non vai a letto con qualcuno da un secolo…».
«Ahah, sì, bravo.»
«E cosa si prova?»
«Eh, be’, è primavera.»
«Quindi idealmente che situazione vorresti per rompere questo brutto incantesimo?»
«Guarda, vorrei la situazione più semplice del mondo.»
«Una persona che non conosci, ma non pericolosa, rintracciabile, non uno stalker, che fa tutto lui, ti prende, ti tratta bene, ti lava e ti asciuga e ti rimette ammorbidita e stirata nel ripiano delle camicie a casa tua.»
«Mamma mia» mi guardò, «sarebbe bellissimo.»
«Va bene. Per farlo, però, devi prima tranquillizzarti.»
«Sono molto tranquillizzata.»
«Sì?»
«Sei molto tranquillizzante.»
«Fantastico. Allora posso tranquillizzarmi anch’io.»
Ci sorridemmo.
«Allora» ripresi, «Barbara: tu sei fantastica, vorrei essere un regista omosessuale e avere un rapporto molto intimo con te. Essere quello che può entrare nel tuo camerino senza che ti arrabbi.»
«Non mi sembri omosessuale.»
«Però mi hai capito.»
«Sì, sì.»
«Vorrei stare con te non come un avvoltoio… Vorrei solo… Vedo quelle tette sotto il tuo scamiciato e vorrei un rapporto di fiducia.»
Ridevamo.
«Sei fantastico, Marcello. Ho capito tutto quello che vuoi dire. Possiamo lavorarci.»
«Bella questa distrazione, per te, no? Dal tuo punto di vista di povera fidanzata. Vero?»
«Bella anche per te, questa distrazione.»
«Molto bella.»
[Non mi piace tirare i dialoghi per le lunghe (da editor, mi paiono un modo troppo semplice di accumulare pagine), ma se devo fare un’eccezione è per il gioco di carte della seduzione.]
Il sole era tramontato, la cena stava finendo. Le dissi: «In questo periodo vivo in una casa sulla Tiburtina, un amico mi ha lasciato questa casa al nono piano, sono appena tornato a Roma da Milano, prima lavoravo lì ora faccio su e giù. Da casa del mio amico si vedono le montagne. Oggi il cielo è terso, secondo me dovremmo andare lì e far l’amore in terrazzo. Poi c’è una bella doccia comoda, puoi lavarti e ti riporto a casa».
Rise fragorosamente: «È ovvio che c’è la doccia!».
«Be’ ma certe volte anche le cose ovvie possono sembrare incredibili. Volevo farti immaginare l’intera esperienza, come una brochure. Dopo ti riaccompagno a casa: così senza complicarti troppo la vita già complicata fai un po’ l’amore con qualcuno con cui hai un’eccezionale affinità (o lui la sente con te perché il tuo carisma incredibile lo illude) e così almeno ti sei presa un po’ cura di te.»
«Mi sembra una proposta meravigliosa. Davvero faresti tutto ciò? Meraviglioso. Idealmente poi dovremmo non vederci più, così non mi angoscio se ti incontro per strada.» Su questo controsenso chiamò il cameriere per chiedere il conto, poi aggiunse: «Sei l’uomo ideale da vedere una volta sola nella vita».
«È un bellissimo complimento.»
Ridemmo.
«Poveretta chi ti sposa. Come farà a tornare alla normalità dopo la seduzione?»
Poi consegnò la carta di credito direttamente al proprietario, che la accettò serio serio con due mani, alla orientale.
Andò come avevamo stabilito: montammo sulla mia Vespa, ci scambiammo il primo bacio in ascensore dopo esserci accarezzati e stretti lungo il tragitto; in casa del mio amico, talmente amico da prepararsi per uscire di casa con un quarto d’ora di preavviso, le chiesi se si fidava, rispose di sì, allora presi un preservativo in camera, lo misi in tasca, accompagnai Barbara in terrazzo, le dissi di tenersi forte alle ringhiere, le alzai la gonna da dietro e facemmo l’amore così, brilli e sbigottiti per quella fantasia realizzata, entrambi misteriosamente senza provare vertigini. Venne in piedi, con le ginocchia piegate, a X , io venni dentro di lei, poi mi chiese che le indicassi la direzione per quella doccia di cui avevo tanto parlato, tenne il bagno tutto per sé mentre io mi vestivo senza lavarmi per accompagnarla subito a casa e ripensavo al suo corpo lungo e curvo, al seno piccolo appuntito, alla sua risata che aveva comandato ogni passaggio dal teatro fino al terrazzo.
Il giorno dopo mi scrisse che aveva i segni sui palmi delle mani e che le era piaciuto che l’avessi accompagnata a casa, anche se poi era dovuta tornare a piedi a recuperare il motorino fuori dal teatro.
Negli incontri che seguirono le diedi tutto ciò che voleva e nelle prime settimane mi sentii speciale mentre Barbara chiudeva la storia con il fidanzato parlandoci su Skype per tante ore che a volte doveva rinunciare a incontrarmi. Mi sentivo così bene che rinunciavo a uscire con le donne che frequentavo in quel periodo. Ero il suo piacere, la sua consolazione mentre si separava dall’altro: in quel momento aveva due vite, una piena di definizione, con me, perlopiù segreta (ma già rivelata alla coinquilina); e un’altra vita scialba e apatica insieme a un uomo con cui stava da tre anni.
Se tutto era più bello, però, non era solo per via del mio ruolo di fantasia per una donna disamorata o per il fatto che mi pareva di aver trovato una persona affine con una visione ispirata della vita; c’era una terza componente fondamentale: la sua casa, l’ultima di un vicolo senza uscita in un quartiere felice.
Era una costruzione bianca e squadrata a un piano, ricavata da un edificio di incerta origine, attribuito prima a dei ferrovieri, forse un magazzino, quindi, si dice, occupato da tossicodipendenti, e infine comprato da un architetto che l’aveva scrostato e rivestito di materiali isolanti di ultima generazione. Oggi l’edificio era diviso in tre appartamenti, ciascuno aveva la sua parte di tetto per terrazzo: si saliva con la scala a chiocciola dallo stretto cortile d’ingresso.
Barbara ci era arrivata dopo aver vissuto in vari quartieri di Roma, e ne aveva sempre gestito l’affitto subaffittando a diverse amiche di un giro che ultimamente si era disperso perché erano andate quasi tutte a vivere con degli uomini, in certi casi riproducendosi. Barbara, che non voleva avere figli, aveva trovato la casa quando era stata appena ristrutturata; quel quartiere sulla Casilina, ancora privo di locali a eccezione di un bar di compagni all’entrata della zona, molto tranquilla, l’aveva puntato da parecchio prima di trovare l’occasione. Erano ormai anni che ci viveva, ultimamente con una sola amica.
Mi innamorai del quartiere come mi innamorai di lei. In piazza, le solite cinque dieci persone sedevano ai tavolini di plastica e qualcuna sulle sedie davanti al tabaccaio. Due persone circolavano in strada sulle carrozzine elettriche. C’era chi non lavorava perché ricco, chi perché povero. Il miscuglio sociale che poco più in basso, a Torpignattara, produceva tensione e paure di infiltrazione terroristica islamica, da noi, nel cuneo fra la via consolare e i treni ad alta velocità, non generava che un incanto soporifero in mezzo al vento che correva lungo la via dorsale tagliata da viuzze senza uscita come tacche su un termometro.
Io ero cresciuto nella Roma densa delle palazzine, dei grandi supermercati, non concepivo casa e vicinato come luoghi sereni. Qui, invece, a cento metri dalle stecche popolari di via Casilina si sparpagliavano cortili e case a uno o due piani. L’unico disturbo erano le automobili che tagliavano il quartiere per aggirare il traffico di Torpignattara.
Per i rapporti fra vastità del cielo e edilizia di fortuna – ex baracche punteggiate da palazzi di epoca fascista – la zona infondeva calma e non c’è modo di descriverla senza perdersi nella sua ipnotica perfezione, che ci permetteva di ignorare i tre quattro metri di spazzatura non raccolta dietro ai cassonetti o la scarsità di parcheggio.
Appena Barbara ebbe spiegato alla coinquilina che si stava lasciando col fidanzato e che frequentava un altro uomo, presi l’abitudine di arrivare da lei poco prima di cena passando per via Casilina lungo i binari del trenino e l’acquedotto romano. Se non c’era traffico, il battito del cuore rallentava già. I vagoni gialli e grigi, i pini, la rovina di archi con le baracche costruite dentro; sullo sfondo, i castelli romani che sembravano lontani se il cielo era una debole ragnatela rosa grigio, oppure vicinissimi quando l’aria era tersa, ma poteva anche essere appiccicoso di uno zucchero filato di nuvole. Se era intasato sul tratto iniziale, in quei casi il cuore mi rallentava solo come svoltavo a destra all’altezza della falegnameria, che addolciva l’aria di polvere di legno. Quella strada costeggiava la ferrovia dell’alta velocità e nella sua desolazione c’era sempre un materasso abbandonato a terra, provato dagli elementi. Dopo cento metri si entrava nella piccola comunità del quartiere, radicata, romana, dove tutti si conoscevano da sempre; la comunità accettava le presenze placide di egiziani, indiani, cinesi e rumeni, che non frequentavano il bar ma vivevano nelle loro case al piano terra. Si vedevano circolare a gruppi di non più di tre, erano comunità private, invisibili, e non avevano comportamenti ostili. Insieme a loro e ai romani, vivevano alcuni italiani benestanti in fuga dai quartieri borghesi, come me. Io venivo da quartieri in cui la gente era continuamente offesa dalle seconde file altrui; qui si poteva esitare un attimo con la macchina, fermarsi a salutare qualcuno, senza finire sgridati dai clacson delle macchine in fila. [Non sarebbero le cose più urgenti da dire sulla complessa questione dell’assalto dei borghesi ai quartieri popolari, ma sono le più affini al senso di paradiso di quei giorni d’amore anche se il mio spirito da editor mi spinge a osservare che ho descritto il quartiere allo stesso modo in cui un gentiluomo inglese inviato nelle Indie poteva descrivere un villaggio.]
L’interno della casa era ancora meglio. Tre stanze al piano terra, e una cantina trasformata in camera da letto da cui si scendeva con delle ripide scale di legno. Lì sotto abitava l’amica, che pagava duecento euro in meno d’affitto, ma aveva comunque luce perché da una porta a vetri si usciva su un piccolo salottino scavato nel terreno e protetto da grate e vetro.
Le pareti di casa erano di un color sabbia che riposava gli occhi. Quando ci batteva il sole riflettevano una luce calda. C’era sempre silenzio. Il cortile e il terrazzo erano pieni di piante. Barbara aveva arredato gli interni con gusto, ogni mobile e poltrona un pezzo unico. Alla parete, sotto un lucernario, stava un’antica bacheca grigia da tipografia piena di tazze e bicchieri e ninnoli; di giorno era immersa in una luce pannosa. Sotto c’era un bel tavolo danese anni Sessanta rifatto e all’altro capo della sala da pranzo una poltrona da cui guardavo la luce del lucernario scendere sulla bacheca mentre leggevo un manoscritto con calma prima di andare al lavoro.
Cominciai a pagare metà del suo affitto dopo un solo mese che ci conoscevamo, appena l’amica di Barbara si levò di torno con l’accordo segreto – a me rivelato molto tempo dopo – che per due mesi non avrebbe cercato una nuova stanza ma avrebbe vissuto ospite da non so chi, aspettando di vedere come evolvesse tra me e Barbara.
Non se la riprese mai e io ebbi la sensazione di aver fatto un miracolo insediandomi nella casa di quella donna dalla vita buona. Era il posto più felice in cui avessi mai dormito e mi era bastato corteggiare una sconosciuta generosamente.
Alla fine dei conti, fu un caso di vanità maschile. A lungo, per aver fatto il pavone e vinto quella casa meravigliosa, io ignorai completamente la vita di Barbara, la sua storia, come fossero cose del passato, come se il mondo ricominciasse da capo non appena un uomo fa la ruota davanti a una donna.
Invece il calore e il comfort di quella casa venivano da lontano: dal dolore di non aver avuto una camera tutta per sé durante l’infanzia e l’adolescenza. I genitori di Barbara si separarono dopo i primi due anni di vita di lei. Come l’informò per caso una zia insensibile quand’era adolescente, «purtroppo i tuoi non sono riusciti a superare i due anni di tonsille: ti rimaneva il cibo nelle tonsille bucate, ed eri troppo piccola per operarti, eri sempre infetta e loro non dormivano mai…». La madre e il padre costruirono rapidamente nuove famiglie. Dopo, il padre aveva avuto due figli maschi e così era rimasto attaccatissimo a lei, la femmina: purtroppo la nuova moglie, durante l’adolescenza della figliastra, specie quando Barbara aveva scoperto che erano state le sue tonsille a scatenare la rottura della famiglia, era diventata una matrigna delle favole, severa e scostante, che con la scusa di raffinarla (era professoressa al suo liceo) la faceva sentire ignorante: un trattamento che non riservava ai figli propri. Tranne un weekend ogni due, il resto del tempo la famiglia del padre procedeva senza di lei, la sua camera diventava il ripostiglio, la sala da stiro, nel suo letto dormivano le babysitter; se c’erano altri ospiti insieme a lei, se una nonna veniva a stare con i nipotini, Barbara dormiva su una branda sistemata in salotto, tra un divano e la finestra. I suoi fratelli avevano cinque e sette anni meno di lei.
A casa della madre era stata molto meglio fino alle scuole medie, ma quando alla fine aveva avuto una figlia con il nuovo compagno, cui aveva negato la paternità per anni per paura che sua figlia ne soffrisse, siccome non avevano molti soldi, come la sorellastra compì tre anni la misero in camera con lei: la tredicenne con la treenne in dodici metri quadri. La casa era a due piani e Barbara cominciò a organizzarsi al piano di sotto, dormendo sul divano e tenendo i suoi effetti personali in un cassettone alla base della libreria.
Su quel divano Barbara divenne insonne, e avida lettrice. Lavorò nei bar appena le fu possibile e cominciò a viaggiare con le amiche dagli ultimi anni del liceo. Fin da adolescente ebbe fidanzati, mai per più di tre anni, uno via l’altro. All’università si trasferì a Roma ed entrò nei collettivi femministi di Lettere, dove Una stanza tutta per sé divenne la sua religione ben al di là della questione del romanzo femminile: servivano cinquecento sterline simboliche l’anno e una stanza per sé, come diceva Woolf, per poter fare qualunque cosa. Non andò mai a vivere con un uomo, anzi ci provò una volta ma durò meno di un mese. Riusciva a vivere solo con le donne, e donne “consapevoli politicamente”, che non intendessero toglierle i suoi spazi. Gli uomini andava a trovarli a domicilio; preferiva, diversamente dalla norma occidentale che vuole le donne attaccate al proprio nido, visitare gli uomini nei loro quartieri come fosse un viaggio, per ritornare nella sua stanza.
Ma io l’avevo portata a credere che questa volta avrebbe potuto aprire la casa a un uomo senza perdere la libertà.
Non lasciando mai avvicinare gli uomini alla sfera personale neanche dopo relazioni di anni, preferendo i tradimenti inflitti o subiti all’intimità di una vita a due pienamente dispiegata, che avrebbe potuto soffocarla togliendole il suo posto per sé, Barbara nel privato non si concedeva e in pubblico e con le amiche sì: nel privato, non riusciva a chiedere e ottenere ciò che voleva. Si considerava una persona dalla vita prevalentemente pubblica, e lavorando nel teatro aveva il piacere di passare ogni sera della sua vita lontano da casa (fin dai primi giorni le chiesi di poter rimanere a cena da solo a casa sua).
La sera del giorno che tornai da Milano con una coroncina di lividi sotto la barba – il morso – non incontrai Barbara a casa, ma in libreria in mezzo a una folla.
Scesi a piedi per la stradina di palazzi gobbi di primo Novecento nel quartiere di studenti e spacciatori lungo le mura della città. Ero con Francesco, il mio migliore amico, uno scrittore: bevevamo dalle quattro del pomeriggio e in due sul mio motorino avevamo faticato a rimanere in equilibrio. Pesiamo entrambi poco meno di un quintale, lui è più alto di me, un metro e novanta. Solo in motorino mi aveva detto che la sua rivista non gli avrebbe rinnovato il contratto come promesso. Arrivai alla libreria con questa brutta notizia nel cuore e delle scarpe da ginnastica nuove ai piedi. Non potevamo passare inosservati: alti, grossi, ubriachi, tristi, lui in pantaloni larghi e giacca, io in pantaloni corti e con le scarpe bianco acceso, e una busta di plastica con dentro quelle vecchie.
In strada c’era una folla di persone che in gran parte conoscevo. Con molte avevo lavorato, e ora le avevo perse di vista o ero diventato freddo. Solo all’entrata, due uffici stampa con cui in anni diversi, in passato, avevo avuto storie di cui non avevo parlato a nessuno, chiacchieravano tra loro e insieme a un giornalista il cui saggio avevo respinto un decennio prima. Con uno che era appoggiato al motorino di un mio vecchio amico ci prendevo il caffè una volta a settimana, poi dopo un’estate smisi di punto in bianco; con un’altra ci consigliavamo le letture ma dopo un suo lungo viaggio in Africa avevo scordato che eravamo in confidenza: la vidi salutare un mio ex autore per andare a parlare con quello con cui prendevo i caffè.
Non riuscivo a presentarmi sobrio a questi appuntamenti. Quella sera poi, dentro la libreria stretta e lunga piena dei migliori libri illustrati e di bottiglie di vino sardo e di tortine alla carota, si parlava del libro del mio ex pupillo Leone, che aveva cambiato editore lasciandomi dopo che gli avevo fatto pubblicare le prime opere. Non solo: una domenica mattina della primavera appena passata, Leone e Barbara si erano visti da soli a Villa Borghese per discutere un progetto di teatro nei licei. Lasciandomi a letto, Barbara era uscita di casa con un contenitore pieno di fragoline di bosco e gocce di cioccolato; per strada si era fermata a comprare un sacchetto di lingue di gatto. La cosa mi era stata raccontata poche ore prima, mentre bevevamo Campari bitter e negroni: «Leone era sicuro che sarebbero andati a letto» mi aveva detto Francesco sui gradini della fontana di una piazzetta del centro, quando ormai era troppo ubriaco per trattenersi ed era evidentemente elettrico per la notizia che il suo contratto non sarebbe stato rinnovato: «Lei invece è rimasta male per l’equivoco. Che candore. Dopo questa cosa Leone ha parlato male di lei a un po’ di persone e le ha tolto il saluto. Non so bene, magari hanno fatto pace nel frattempo se dici che stasera viene anche lei alla presentazione. Ti do qualche informazione esterna che magari ignori. È stato super imbarazzante per lui. Nel senso che sembrava proprio che lei ci stesse. E Barbara, che si annoia con te, spende un sacco di energie per riconciliarsi con Leone. Ci pensa tutto il tempo».
Era stato un supplizio ascoltarlo. Ricordo che mi ero sporcato i pantaloni con una gomma da masticare sui gradini della fontana: i resti incollati ai pantaloni mi tormentavano, ascoltavo Francesco sporgendomi a guardare la macchia, alzandomi in piedi, contorcendomi, e i suoi discorsi e l’appiccicume e il sapore dolciastro di quello che stavamo bevendo erano una cosa sola.
La parte più complicata da accettare, aprendo la porta a vetri della libreria, era che là dentro, in fondo in fondo, come confermai mentre mi facevo strada per un paio di metri insieme alla mia busta con le scarpe, nell’umido di fine settembre, sedeva la persona con cui dividevo il letto, le bollette, la persona che faceva il primo passo fuori dalla porta con me al mattino, buttando la spazzatura di cavoli e lische di pesce.
Eccola a un tavolino in prima fila, vedevo il suo profilo dal mio capo della sala: la fronte lunga, gli zigomi, i capelli del colore naturale, un castano liscio e scuro, con tanti fili bianchi più duri. Quel giorno era piena di sesso: quando è così pare un’attrice; quando è nervosa e si chiude sembra una zitella. Teneva un piccolo bicchiere pieno di birra fra le dita smaltate di blu petrolio.
Leone parlava al microfono da uno sgabello del bar. Io ero sul fondo, tra la gente in piedi, e ascoltavo con tutti il suo discorso sull’articolo 1, le morti bianche, Gaetano Bresci, il Settantasette: e lei col mento alzato lo ascoltava.
Si erano baciati? Barbara sa baciare anche se ha le labbra sottili; sembra aver ragionato a lungo, da ragazza, su come esattamente baciare con quelle labbra. Leone pensava di potercela fare meglio di me a vivere con lei? La sua dura silhouette da donna di teatro, il passo marziale e svanito insieme, hanno ispirato molti, che si immaginano che al posto mio farebbero meglio di me. A volte per settimane o mesi questi spasimanti le inviavano messaggi per incontrarsi a pranzo o prima di cena, lei non me lo diceva direttamente, quando avveniva, ma appena avevamo una discussione mi faceva capire che si stava chiedendo se avesse senso restare con me. Ma tanto, così mi dicevo mentre proseguivo la storia con Eleonora, Barbara vuole un fidanzato soltanto per averlo, un ciuccio per adulti: diceva lei stessa di avere paura del caos, e sapevo che aveva sempre tradito i suoi fidanzati.
La ammiravo dal fondo del locale, sudando. Beveva la birra a piccoli sorsi con uno stile completamente diverso da quello con cui scolava i bicchieri a casa quando io e lei preparavamo tre martini cocktail e poi andavamo a dormire alle dieci dimenticando di cenare. Annuiva, sorrideva con gli altri al ritmo dei ragionamenti e delle letture. Era accaldata e si umettava la fronte con un fazzoletto di carta ancora piegato; si passava il lucidalabbra e lo riponeva nella borsa di cuoio dalla chiusura di metallo con cui ogni tanto mi ferivo pescandoci dentro un carica cellulare o un biglietto del teatro.
Era lì per Leone, lo ascoltava occhi all’insù, con tutti. Me ne andai.
Cenai da solo nella trattoria della piazza dietro casa, dove la cameriera mi chiamava amore. Doveva avere la mia età. [Nel frattempo ho scoperto che ha dieci anni più di me e che il locale è suo, non è la cameriera, ma ho lasciato la precedente descrizione, così ingenua, perché già che parliamo di donne mi pare significativo aver commesso quell’errore madornale: è padrona e giovanile, invece che serva e precocemente invecchiata come la facevo; porta bene gli anni con il suo stile androgino, i capelli sempre colorati artificialmente e le scarpe da ginnastica verde pennarello.] Arrotolavo spaghetti alle vongole chino sul piatto, sfebbravo la bevuta, leggevo notizie sportive sul telefono e pensando alla mia condizione non vedevo una via d’uscita.
Poche sere dopo, con uno spirito completamente diverso, gestivo una serata da cento persone in un superattico del centro. Per lanciare il romanzo di una brava scrittrice che speravamo emergesse dalla nicchia con un romanzo dalle potenzialità commerciali oltre che letterarie, avevo chiesto a una signora del centro di organizzare una festa. Stava cominciando a dedicarsi alle pubbliche relazioni e le tornava utile ricevere a casa e salvare in rubrica i giornalisti, scrittori, sceneggiatori, registi e critici che avevo invitato. L’autrice si era sempre tenuta lontana dai “salotti” ma le era piaciuta la mia idea perché il romanzo parlava di Tangentopoli, era una storia famigliare scritta modernamente che ragionava senza moralismo sulla storia di un uomo coinvolto in Tangentopoli e poi scagionato in quella tipica maniera italiana cattolica per cui si poteva continuare a considerarlo colpevole. Il mondo romano ritratto nel libro – un mondo di salotti come quello – ne discuteva ancora, tratteggiando la sua figura in modi vari inconciliabili tra loro: il romanzo era composto delle tre leggende su di lui, intrecciate come fossero storie del tutto diverse.
(Dei personaggi raccontati fin qui, alla serata presero parte Barbara, venuta per conto suo perché sapeva che sarebbero arrivati vari amici del teatro e dell’editoria, tra cui Leone; c’era Francesco, con Giò, e infine la donna che avevo abbracciato frontalmente in zona stazione a Milano solo dieci giorni prima, la cui agenzia curava l’evento.)
Feci un minuscolo discorso introduttivo in un grande salone minimalista in cui si proiettava Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto senza volume, su una parete bianca. Una metà del salotto ospitava divani lunghi sotto un soffitto spiovente, l’illuminazione saliva armonicamente da punti invisibili e le finestre si affacciavano su altre serate mondane piccole e grandi su altri tetti e terrazze e grandi finestre condonate. Avevo concluso leggendo una vecchia poesia dell’autrice che cominciava con la frase: “Noi siamo le forme ambigue”.
Volevo che l’editoria quella sera per un attimo ritornasse a cercare il piacere e la bellezza puri, si distraesse dall’impero del contenuto letterale delle cose. Insomma volevo dare una festa e l’avevo data. Avevo bevuto tre gin tonic prima di parlare, sperando di fermarmi al momento giusto per essere libero ma non svanito. Ci ero riuscito, ma appena terminato di leggere la poesia avevo sentito ogni cosa perdere consistenza, perché mi rilassavo e il mio stomaco si scopriva vuoto e marcito: così c’è un momento decisivo che ricordo poco. Ero circondato da diverse persone, tra cui Francesco e due scrittori giovanissimi ancora non pubblicati, e avevo di fronte a me l’ufficio stampa, che ricordo in preda a una delirante fragilità: le era piaciuto «da morire» com’era venuto l’evento e mi guardava con degli occhi che io un po’ capivo un po’ continuavo a scordare, mi pareva solo che tutto mi abbracciasse per riposarmi dopo la tensione che avevo provato nei giorni precedenti, e al centro di questo abbraccio c’era il suo viso debole, sorridente.
Aveva una camicetta bianca aperta fino allo sterno, il naso un po’ storto ma un’eleganza perfetta, di una che in un’altra generazione avrebbe sposato un politico ma in questa era troppo elegante per concedere alcunché a un uomo. Aveva osato vestirsi di color argento, con dei pantaloni fascianti. Ero stordito dalla sua presenza e ricordo solo di aver individuato Barbara a dieci metri da me che parlava con un gruppetto di amici di Leone e forse con Leone in persona, e io, ubriaco e rilassato dalla riuscita dell’evento, avevo sperato che non guardasse nella mia direzione, perché l’ufficio stampa era completamente appoggiata a me: mentre interagivo con tutti, lei era proprio davanti a me e io sentivo addosso il suo corpo.
Eravamo saliti sul tetto attraverso una scala senza ringhiera. Da un salottino rustico si usciva sul terrazzo – piccolo, quadrato, dominante – e lì sicuramente Barbara non ci vedeva, ma i due giovani scrittori sì, ci avevano seguiti perché per loro la grande festa era nel fatto di essere giovani, appena arrivati sulla scena, e di poter parlare con degli adulti, bevendo (erano gli anni in cui andava di moda Mad Men , la serie sui pubblicitari dissoluti degli anni Sessanta, e ogni serata in cui si alzava il gomito finiva a confrontarsi con quell’immaginario). Forse Francesco e Giò se n’erano andati: l’ufficio stampa invece aveva continuato ad appoggiarsi su di me. Ero molto compromesso. Chissà cosa avevano pensato quei ragazzi, gli sarà parsa una cosa grandiosa, l’avranno raccontata in giro come capitava a me agli inizi della mia carriera, che mi esaltavo se incontravo uno scrittore importante a braccetto con la sua amante lungo le strade di una cittadina di festival.
Alla fine della serata io e la donna scendemmo le scale insieme, avevo scoperto nel frattempo che Barbara se n’era andata a cena fuori con un gruppo e mi consideravo al sicuro. Presto, vidi, sarei dovuto andare via dalla casa in cui ero stato felice, la casa di Barbara, perché io e lei non eravamo felici.
Scendemmo le larghe scale scivolose dell’antico palazzo; uscimmo nella piazza barocca, io puntai il mio motorino parcheggiato all’inizio di una via che terminava sulla piazza. Sganciai il casco da sotto la sella, lo posai ai miei piedi e mi sedetti. Lei si era avvicinata a me e parlavamo di lavoro: «Le voglio tutte così» diceva, «tutto glamour, glamour per secchioni, una cosa sensuale, una cosa arrapante, non sempre quella noia terribile…».
Mentre celebravamo la nostra intesa professionale, il mio cazzo si gonfiava contro la stoffa dei miei pantaloni di cotone troppo pesante e premeva sulla stoffa argento dei suoi pantaloni e toccava lei, che era calda, elettrica. Non eravamo abbracciati e nemmeno ci guardavamo negli occhi. Parlavamo stravolti senza cercare di baciarci ma toccandoci inguine contro inguine: «Segniamoci una riunione appena sali a Milano, facciamo capire a quello scemo del tuo capo che questa è la via per mescolare alto e basso, per togliere dalla naftalina gli autori alti…».
«Ma infatti, cerca di farglielo capire tu, che sei più chiara di me…»
Tutto questo con lei che sentiva il mio cazzo pulsare, e io sentivo lei che si spostava leggermente a sinistra e a destra per aumentare l’attrito.
«Ci divertiremo un sacco» disse.
A questo punto io le misi le mani sui fianchi, bene, per sentire la giacca, la pelle dei suoi fianchi in carne, la cinta e i pantaloni, la tenni fra le mani così mentre ci strusciavamo come se il cazzo e la fica stessero baciandosi romanticamente, e senza ancora scostarmi le dissi: «Devo veramente scappare, continuiamo un’altra volta».
«Perfetto» disse lei, mi baciò un angolo della bocca. Si era scostata mentre posava per un attimo le sue mani sulle mie che stavano ancora sui suoi fianchi, ed era andata via.
Guidai con prudenza per un’eternità, finché non arrivai sotto il palazzo a otto piani di Francesco. Li avevo avvisati con un messaggio che stavo tornando anch’io verso le nostre parti – abitiamo in due quartieri confinanti – e mi sarei fermato a fare due chiacchiere. Trovai la porta socchiusa, erano in terrazzo, urlai che avevo mal di pancia e li sentii ridere, «fai, fai». In realtà l’ubriachezza mi aveva fatto venire voglia di liberarmi dell’eccitazione, cosa che feci in modo igienico seduto sul loro water. Giò non mi era mai stata indifferente, nonostante avessimo un rapporto fraterno, e avevo sempre sentito l’energia sessuale di Fra, che era un grosso uomo con la bocca sempre aperta, dalla risata grintosa e contagiosa che a volte imbroccava certe serate verticali in cui le donne sembravano morire di voglia quando gli parlavano. Mi lavai, sciacquai la faccia per svegliarmi e li raggiunsi in terrazzo, dove sedevano fumando erba e contemplando le luci dei palazzi che con discontinuità si arrampicavano dall’Appia sui castelli romani. Era una vista meravigliosa ed era il loro passatempo.
Mi fecero fumare dell’erba, disorientandomi ancora di più, e così a un certo momento dissi: «Io credo che dovrò andarmene di casa. Avete visto? Siamo venuti separati, ce ne siamo andati separati. Io e Barbara».
«Dici che siete a questo punto, povero?» mi chiese Giò. «Mi sembrate così belli anche quando non vi parlate. Oggi ho visto per un attimo quando vi siete salutati un’intimità incredibile.»
«Alla festa?»
«Sì!»
«Nemmeno me ne ricordo.» Ero sorpreso, anche perché con quella visita io volevo capire se io e l’ufficio stampa avevamo dato troppo spettacolo. Tentai ancora: «Credo che prima o poi mi vedrà flirtare con qualcuno e mi lascerà».
«Ma a me lei dice che avete il flirt libero… Cosa peraltro sensatissima.»
Francesco non parlava. Era seduto accanto al vetro che separava la parte di terrazzo del vicino. Io tenevo un gomito allacciato alla struttura del dondolo, per paura di avere l’istinto di buttarmi. «Fra, che mi hai detto l’altro giorno prima della presentazione?»
«Che lei va in giro con Leone!» si risvegliò, e rise. «Sono finiti, Giò, sono finiti, lasciaglielo dire. Poverini. Quanto amore. Tutto finito.»
«No, aspè, non esagerare» protestai. «Mi hai detto – precise parole: “Quello può anche essere un modo per entrare in contatto con una parte di te”.»
«Quello cosa» domandò Giò.
«Quello che Barbara fa con Leone.»
«Bum» rise lei. «Franceschino, tu a volte fai un po’ delle sparate.»
«Giò» dissi io, «il mio problema è che dovrò lasciare la casa, se ci lasciamo.»
«Ma…» improvvisamente assorta. «Ma la casa è lei
«È vero» confermai.
« La casa è lei . Oddio» rise, «non ci avevo mai pensato.»
E ridemmo.
Il terrazzo era affacciato sul vuoto e si prestava alle conversazioni esistenziali. I miei due amici attraversavano un periodo della vita in cui l’unica cosa certa era quell’appartamento mai ristrutturato, con le prese color avorio, i pavimenti di graniglia rosa, una cucina di pensili rivestiti di carta adesiva color ciliegio e la stranezza di un divano letto proprio lì, accanto alla credenza, su cui ogni tanto rimanevo a dormire quando Barbara aveva amiche ospiti per la notte.
La nonna di Giò l’aveva comprato mentre il palazzo era in costruzione, ma aveva lasciato il quartiere di lì a poco perché il marito ferroviere ne aveva uno più grande in un quartiere più centrale. Giò era la sua nipote preferita e quando la zona aveva cominciato ad andare di moda tra i suoi amici ci si era trasferita.
Il resto, dicevo, era tutto per aria. Giò e Fra erano due bravi scrittori che non pubblicavano da più di un lustro. Durante quel lustro avevano avuto due aborti spontanei. Lei ogni tanto scriveva delle fiction con un’amica ben inserita nella RAI , il resto del tempo lavorava con i rifugiati, dava ripetizioni di latino o lavorava nel bar libreria dell’altra sera; lui si era sistemato per un anno come social media manager di una rivista, ma il direttore, dopo avergli promesso un contratto fisso, si era rimangiato la promessa perché la rivista perdeva denaro per colpa del sito e lui aveva deciso di assumere degli esperti di contenuti virali, che si occupassero di strategia oltre che del lavoro quotidiano.
Sulle altre coppie si può proiettare qualunque pensiero. Vedendo loro, che fumavano erba coltivata da un amico e si stringevano sul dondolo cigolante sospesi nel vuoto del terrazzo dell’ottavo piano a guardare la lunga discesa delle montagne basse, un po’ buia un po’ illuminata, e i palazzi alti delle borgate vicine, quelli costruiti utopisticamente e quelli più sbrigativi, e in mezzo tante case e pini, e i piccoli sprazzi di verde o di cemento ingialliti dai lampioni, si poteva concludere che nonostante i bacetti che Francesco si scambiava con qualche altra donna, e chissà Giò cosa faceva da par suo (era una donna sgamata, appassionata di sesso e droga con un’affascinante temperanza molto personale), quella casa e loro due fossero davvero un tutt’uno: l’amore nel loro caso sembrava possibile. E sapevo che agli occhi di Giò l’amore tra me e Barbara sembrava possibile. Ogni coppia ne eccitava un’altra, era un gioco di specchi in cui la felicità sembrava davvero a tiro, per gli altri e quindi per noi, anche se non ci pareva di raggiungerla.
Giorni prima, al ritorno da Milano, dopo il lungo pomeriggio di bevute io e Fra ci eravamo messi in motorino per andare alla presentazione di Leone, e faticavamo a guidare dritti. Non ricordo chi ha scritto che bere a pranzo spezza la giornata in tanti frammenti dorati – quando si beve alle cinque i frammenti sono di bronzo. Lui, dietro, era alto e pesante e il mezzo, dalle ruote piccole, oscillava malamente. Al semaforo indurivo le braccia per sgusciare tra le macchine. Siccome avevo le frecce difettose, agli incroci segnalavo con una mano per svoltare e in quei secondi di squilibrio il motorino diventava di pietra… E a un certo punto me lo disse e dovetti fermarmi: «Non mi fanno più il contratto, tra due mesi non ho più un lavoro». Mi voltai per guardarlo rischiando di perdere l’equilibrio; sentii che aveva puntato lui i piedi sull’asfalto per sostenerci.
«È terribile.»
«Mi metterò a scrivere, finirò il libro nuovo.»
Non vedevo come Francesco potesse trovare qualcos’altro a Roma. «Vai a Milano» gli avevo detto, «vai a lavorare a “Rivista Studio”.» Ma dice che se va a Milano poi Giò non può venire con lui e si lascerebbero. Gli avevo detto: «Fai il pendolare allora, ma prova qualcosa» e avevo visto come in fondo al suo sguardo ci fosse della sabbia, qualcosa di marino, la voglia di non fare niente.
Per Francesco la vita era bella quando era completamente sospesa. Il vero compito era vivere la giornata al proprio meglio, e lui lo faceva, con Giò: eccoli, che mi accoglievano in un giorno qualunque, con quella tenerezza. Ed eccomi ancora a pensare, come tutti, che le altre coppie possano essere felici…
Io intanto, sulla sedia a dondolo, tenevo gli occhi chiusi per non guardare il vuoto tra le barre di ferro della ringhiera, e Giò mi aveva posato la guancia sulla spalla, mentre Fra tritava un altro pallocco di rametti e foglioline schiacciate d’erba nel disco rosso con la lama.