Una domenica di ottobre, dopo aver visto uno spettacolo di teatrodanza durato tutta la notte, ho scritto la prima riflessione su me e Barbara, da cui mesi dopo è germinata l’idea di scrivere un intero libro. È la prova che nella nostra infelicità c’era un equilibrio di cui era parte fondamentale il piacere, anche se quando parlavo con Francesco e Giò me ne dimenticavo:
Io e lei in un balconcino del Teatro Argentina, alle tre del mattino. In scena, sei tavoli rettangolari coperti di petali di fiori grandi accomodano una danzatrice per ciascuno. Le donne spalancano le gambe a favore del pubblico e adoperano dei pennelli per incollare, ciascuna tutto intorno alla propria vagina, petali di vario colore, forma e dimensione. Io e Barbara le guardiamo dall’alto, assonnati: sono abbastanza lontane da far sembrare non proprio reale quel che accade. Quel capitolo dello spettacolo non finisce mai, io e Barbara ci sussurriamo che siamo eccitati e parliamo del desiderio, le dico che vorrei avere tutte le donne che sono sul palco; a volte ci si chiudono gli occhi, sbattiamo le palpebre e prendiamo sorsi d’acqua dalle bottigliette. La concentrazione delle performer ci addormenta. Un teatro del Settecento aperto tutta la notte per noi.
Dopo, prima dell’alba, attraversiamo Roma in motorino, siamo elettrici, felici. Veniamo da genitori che non hanno mai guardato la gente nuda sui palchi; questa notte abbiamo visto più cazzi sul palco di quanti Barbara ne abbia visti nel resto della sua vita – poi ragioniamo che non è vero, perché a teatro ne ha visti tanti…
Nel buio di balconcini e platee, le luci del palco si riflettono sui suoi occhi scuri, mi vengono fitte alla schiena per la postura costretta. Il buio del teatro mi fa accettare che il mondo possa essere misterioso – finché l’indomani non leggo la stroncatura autorevole sul giornale e mi viene di pensare che quel sogno eccitato sia stato paccottiglia.
Paccottiglia e capolavori ci immergono nella sensazione che la vita che avviene, fra me e lei, sia una rappresentazione, più reale del reale. Certe notti, per esempio, i dolori mestruali la trasformano in una moribonda. Una volta mi ha lasciato assistere, la porta del bagno socchiusa, a tutto ciò che sversava nel water dalla bocca e dall’intestino. Passavo e la vedevo seduta o in ginocchio, la assistevo, le portavo un bicchiere d’acqua, un asciugamano. Temeva di morire (il giorno dopo fu come se non fosse successo niente). Nel nostro bagno c’era il ridicolo e il solenne di una lunga performance. Se n’è tornata in camera tra la febbre e il dolore dimenticando di premere lo scarico, vaneggiando che sarebbe svenuta, e mi ha lasciato lo spettacolo dei depositi delle sue convulsioni sul fondo del water: granguignolesco, sofisticato, come quei tour de force dove attori e ballerini si ritrovano stremati fra brandelli di carne di manzo con cui hanno fatto sesso, patate crude, piume, videocassette sfasciate col nastro che sbrindella via, la terra sparsa, bisunta, fradicia, i genitali che si sono strusciati sul telo che copre le assi del palco tanto che la puzza si sente fino alla cerchia più alta dei balconi…
Appena l’apice dello spettacolo è raggiunto, Barbara si controlla l’orologio da polso e mi dice: «Secondo me sta per finire» e siede più composta per prepararsi a uscire dal sogno.
(…)
Nonostante tutto, tra noi esistono queste cose. Ci aiutiamo a vicenda a inseguire una vita bella, anche se ciascuno si porta dentro l’ingiunzione a cessarla: un giorno, prima o poi, daremo un senso alla nostra vita che non sia il piacere, avremo dei figli, li adotteremo, saremo dei genitori anziani, saremo persone legittime che hanno il diritto di vivere ed essere considerate.
Possediamo vibratori, di cui uno telecomandato. Sappiamo quali bottiglie abbiamo sul vassoio dei superalcolici sopra al mobile danese. Fuori casa lei ha paura di perdere il controllo, ma a casa ci stordiamo con i martini e mi chiede di leccarla oppure litighiamo per cose che scordiamo il mattino dopo, o ci avvitiamo in conversazioni sul nostro passato dove c’è sempre un momento in cui i suoi occhi si riempiono di lacrime.
Forse le cose stanno come ha detto il mio analista: mi nascondo il fatto che Barbara mi dà piacere. Trovo più facile raccontare di aver goduto con un’amante che con una moglie: «A chi lo deve dire che non godete?» mi ha chiesto l’analista. «Chi deve assicurare che non è felice?»
(…)
Sia io che lei abbiamo portato questo rapporto in un punto dove il piacere tra noi ci sembra incestuoso e come lo tocchiamo ce ne ritraiamo.
Certe volte non funziona con una donna perché scegliendo lei abbiamo scelto proprio quel che desideriamo più profondamente e quel desiderio è così forte da farci paura. Avvilendo la relazione umiliamo il nostro stesso desiderio e una parte di noi è felice della giustizia fatta.
Allora provo a fingere per un attimo che Eleonora sia mia moglie e Barbara la mia amante: mi sfugge molto più Barbara che Eleonora. La sua intensità è troppo per me. Eleonora è come me, datele un manoscritto e si fermerà lì, non mi porterà da nessuna parte. Quando ho conosciuto Barbara mi sono convinto che fosse la donna della mia vita. Per questo poi mi sono chiuso.
(…)
La sua pelle odorava come la mia, yogurt contro yogurt, e i primi tempi ci dicevamo che forse al dunque il vero motivo per cui siamo andati a vivere insieme è che abbiamo lo stesso odore e ci siamo fidati fin da subito l’uno dell’altra.
Lei per tenere a distanza tutto il piacere che i nostri odori uguali ci promettono usa la formalità: dopo un weekend di tenerezza fra noi, il lunedì sera torna a casa dal lavoro irrigidita: «Ah, sei già tornato. E come mai sei sul divano?». Oppure: «E come mai sei nella vasca da bagno?». Oppure alla fine dei viaggi, l’ultimo giorno, trova una scusa (le turbolenze in aereo, un acquazzone in autostrada) per rovinarsi l’umore, in modo che il piacere non tracimi nella vita normale.
Nei momenti peggiori mi dice: «Non valiamo niente».
(…)
[Quelle pagine furono un primo appiglio. Mi era difficile affrontare seriamente la situazione perché sono il tipico ragazzo italiano che è sempre stato fidanzato, incapace di stare davvero solo e leggere le proprie emozioni.
Francesco sostiene che nei romanzi degli uomini veri, da Philip Roth a Edoardo Nesi, per citare i migliori, l’uomo “subisce” l’incomprensibilità della donna, come fosse parte naturale dell’ingiustizia della vita: questi romanzi secondo lui non raccontano rapporti veri, uomini e donne che si sono conosciuti in profondità. In quei grandi romanzi di maschi, gli uomini si agitano, sbagliano, si sbattono, e il romanzo è un flipper in cui le donne sono le sponde che squillano e baluginano appena toccate; appariscenti e cruciali, tanto che sembrano protagoniste – ma sono pura funzione della pallina di metallo dell’uomo.
Io credo, nonostante tutto, di conoscere Barbara, di avere un rapporto con lei e di poterlo raccontare: solo che per farlo devo uscire da quello schema dell’uomo che sbaglia, che rimbalza.
D’altronde non è detto che lasciando quella strada sicura – che ho tante volte consigliato ai giovani scrittori rinviandoli alle opere dei maestri – io riesca ad approdare da qualche parte, alla letteratura androgina che fin dall’inizio del secolo scorso ci viene richiesta e che la prosa, con la sua banalità mistificatoria, mi fa sembrare irraggiungibile.]
Guardiamola, vediamo se riesco a raccontarla.
Davanti alla signora del reparto pescheria, mentre gli altoparlanti annunciavano la chiusura, teneva la posa comicamente dritta che aveva imparato dalla madre per fare gli ordini al banco: «E l’orata? È del nostro mare?».
Barbara era un pesce: dal naso al petto era tutta protesa, fredda e simmetrica, le spalle precise in uno scamiciato a righe rosse e bianche.
L’impiegata in camice, dalle grandi sopracciglia nere, sollevò un’orata d’allevamento e dopo averla pesata le infilò il pugno nella pancia per strapparle le interiora e buttarle nel buco rotondo al centro del pianale sudicio.
Dissi a Barbara: «State organizzando il viaggio di Natale?».
«Sì sì abbiamo aspettato un po’ perché Michi non sa ancora quando ha le ferie.»
«Vorrei partire anch’io quest’anno.»
Mi fece credere di seguire cosa faceva la commessa, la cui figura perdeva i contorni nel neon mentre desquamava il pesce con la grattugia, quindi lo tenne forte in una mano contro il getto d’acqua, manovrando il tubo semirigido. Sapevo che a Barbara aveva dato fastidio quel che avevo detto. Ci mise un pezzo a rispondermi: «Buona idea. Stacchi un po’».
«Sì.»
«Vai a trovare tuo cugino, magari, te l’ha chiesto.»
In fila alla cassa mi criticò perché secondo lei era tardi per organizzarmi.
Lungo il rullo procedevano il pesce in una busta azzurra, una bottiglia di vino, della cioccolata amara, poco altro. «Ti posso dare un bacio?» La abbracciai e la baciai, ne fu sorpresa. Portava un lucidalabbra. «È alla menta?»
«Ma guarda è una schifezza che mi ha dato un collega perché perdo sempre il mio.»
Immaginai il collega che la baciava. Era bella e per me era importante che altri uomini glielo dicessero.
Mentre risalivamo a piedi verso casa con le buste, le chiesi: «Dove altro potrei andare? Voi dove andate?».
«Ti vuoi imbucare?»
«Eheh, magari, con te e tutte le tue amiche, sarebbe una pacchia.»
«Ti metteresti in un angolo con tre manoscritti, non daresti alcun fastidio…»
«Davvero posso?»
«Ma no, ma che vieni a fare, vai a trovare qualcuno che deve lavorare e lavorate insieme.»
«Voi dove andate?»
«Non sappiamo ancora. Forse Lisbona. Tu quanto devi stare a Milano durante le vacanze?»
«No, penso che non ci torno tra Natale e Pasqua. Forse neppure dopo…»
«Cioè?»
«No, scherzo.»
«Sì» rise, «scherza. Mi fai sempre dormire da sola.»
Mi fermai, appoggiai con cura le due buste sul tetto di una macchina, la abbracciai e sollevai (è leggerissima): «Hai ragione». Cominciammo un bacio un po’ sospettoso.
La bocca di Barbara era densa, fresca, appena screpolata. Quando la riportai a terra mi guardò un momento negli occhi. Da una busta caddero le zucchine e un pacco di riso. Le dissi: «Se non ti organizzi potremmo partire io e te adesso, subito, e a Natale amen, non prendiamo le ferie».
I suoi occhi smisero di trasmettere. Distolsi lo sguardo, mi chinai a raccogliere la spesa caduta. Riprendemmo il cammino in silenzio.
Appena aperta la grata di ferro dell’entrata di casa dimenticai i suoi cinque minuti di silenzio e dopo aver riempito il frigorifero andai a chiudermi in bagno, accesi la ventola e della musica dal cellulare perché la porta del bagno è davanti a quella della camera da letto.
Attraverso il rumore e il suono sentii chiudere con violenza la porta della stanza. Rallentai le mie operazioni, rimasi seduto, continuai ad ascoltare la musica e dopo aver premuto lo scarico mi lavai a pezzi usando vari saponi, quello intimo, poi quello per la faccia, poi la saponetta per le ascelle; prima di uscire, rimessa la maglietta, mi lavai le orecchie e ci passai un cotton fioc che mi fece vibrare la nuca di piacere.
Girai la chiave e vidi che in camera il letto era improvvisamente sfatto, e aveva al centro una chiazza bagnata. Barbara era capace di piangere tanto, tutto insieme. Sentii stringere il cuore e non sapevo come orientarmi. Mi voltai – ero sulla soglia – e aprii il pannello del ripostiglio: sullo scaffale più in alto, dove tenevamo le valigie, mancava il trolley rosso. Mi affacciai in cortile e guardai la strada, il suo motorino non c’era.
Il trolley rosso ha una funzione simbolica. Barbara lo guarda per ricordarsi che è sempre libera di scappare. Non è la sola forma di insofferenza verso la vita familiare: al crepuscolo, per esempio, non posso abbassare del tutto le tapparelle se no lei si sente soffocare. Le srotola del tutto solo prima di dormire.
In ogni momento può riempire il trolley rosso dei suoi minuscoli vestiti e scappare. Con me l’aveva fatto varie volte. Quando capitava provavo un senso di verità: pur comunicando una distanza, in compenso la sua fuga diceva qualcosa di preciso su quella distanza. È come se per il modo in cui si era sviluppato il nostro rapporto Barbara avesse diritto a essere vista partire, a essere rimpianta.
In quei casi mi versavo da bere – quella sera in particolare whisky e acqua frizzante – e andavo a sdraiarmi sul letto. Dopo due bicchieri prendevo il telefono e cominciavo a scriverle messaggi d’amore. Pensavo che facesse bene ad andarsene, anche se insistevo per farmi dire da quale amica stesse dormendo. Di colpo la sua voce mi mancava e lei non rispondeva alle chiamate.
Le scrissi che ero d’accordo che dormisse fuori, le faceva bene.
Mi rispose: “Allora non ha senso stare insieme, se sei d’accordo che me ne vado”.
“Ma per me tu sei anche questo. Mi piace come scappi di casa.”
C’era qualcosa, scrissi, che mi faceva ancora sperare nel nostro rapporto ridicolo.
Mi scrisse che i miei messaggi l’avevano confortata.
Si fecero le due, la porta di casa era aperta, ci eravamo scritti per ore e dal mio letto, attraverso la finestra e le foglie del glicine, vedevo oltre le grate e il muretto il muso di due macchine parcheggiate a spina nella strada vuota, senza uscita. Raccolsi le forze per alzarmi, chiudere la grata e la porta a vetri, lavarmi i denti o forse mangiare qualcosa.
Ora Barbara era più presente che mai e io, come uno scienziato alle prese con l’antimateria, ragionavo su quella sensazione di assenza e tenerezza, quella distanza per un attimo ben definita.
Cominciammo presto il lungo viaggio in macchina dal resort sul Mar Morto fino ad Aqaba. Come prima cosa salimmo i tornanti verso l’interno della Giordania fino al livello del mare e oltre, sopra la pozza di foschia grigioazzurra in cui si nascondeva il lago salato. Al di là, sull’altra costa, c’era Israele, miraggio di schiere di cavalieri che sollevano polvere. Fuori dalla sala del mosaico delle terre conosciute facevano quaranta gradi a mezzogiorno, perdemmo tempo a piedi fra le strade a senso unico della cittadina alla ricerca di bottiglie d’acqua e succhi di frutta.
La Strada dei Re era famosa per quel tratto di canyon dove ci si ferma a fotografare le concrezioni sabbiose incise di riccioli d’asfalto. Barbara mi scattò alcune foto riuscite: ero seduto, ingobbito ma secondo lei affascinante, con un bomber addosso e lo sguardo di trequarti, la mano appoggiata bene su una gamba, era un vero e proprio ritratto, non me ne faceva da tempo.
Guardando le foto le dissi una cosa stupida, una cosa languida e irrispettosa: «Cominci un po’ ad amarmi?».
Riprese il telefonino dalle mie mani e mi diede un calcio sullo stinco facendosi male attraverso il sandalo; poi andò a sedersi in macchina mentre io rimanevo fuori a bere la vastità del canyon. Parlai tra me a voce bassa: «Mi pare che ci siamo quasi, non mi pare sia solo accanimento, ma per ora» chissà se mi stava guardando da dentro la macchina «quel che so è che abbiamo un rapporto meraviglioso in un’altra vita e non è vero che l’amore è un’illusione. Ma vale solo per quel mondo parallelo. Quando lei si allontana è come se finalmente stessimo insieme…». Mi voltai, stava leggendo la cartina stradale. Volevo riempirla di baci, mi alzai, avvicinai, aprii lo sportello e mi chinai a baciarle la tempia. «Ti amo tanto.»
«Anch’io amore mio.» Alzò una mano per accarezzarmi la faccia e tenermi a sé.
«Davvero?»
«Sì, amore – senti però, ma non ti pare un po’ troppa la strada che manca? Io non ci capisco niente, però controlli per favore quanto è lunga, se noi siamo qui in questo punto?» e premette l’indice in un punto a est del Mar Morto.
Mi sedetti sul bordo del suo sedile ed esaminammo la cartina insieme. In effetti non potevamo arrivare ad Aqaba, sul golfo, percorrendo villaggio per villaggio quella strada titubante in cui non solo nelle aree popolose, una trafila di paesi e cortili, ma anche nei tratti veloci i bambini vendevano pomodori sul ciglio della strada.
Tornai al volante e ripartimmo in fretta, senza ancora un’idea chiara.
«Non vorrei trovarmi in viaggio di notte. Mi fa paura.»
«Sì amore, ora capiamo.»
La polizia stradale ci aveva già fermati tre volte dall’inizio del viaggio e la cosa la riempiva d’angoscia. Il navigatore dell’automobile si spegneva continuamente e aveva il touchscreen poco sensibile. Tutti elementi che la spingevano a rimanere concentrata anche se non guidava lei.
Non riuscimmo a capire quanto mancasse davvero ad Aqaba finché non arrivammo a un bivio che poteva riportarci lungo il Mar Morto. Lo ritrovammo in una luce più dorata. Erano le sei e mezza, avevamo sbagliato il calcolo delle distanze. Dal Mar Morto dovevamo guidare a sud verso un punto della cartina che non indicava centri abitati, e Barbara sedeva rigida, muta ormai da parecchio.
Ricominciò a parlare. Ho scritto il dialogo, ma l’ho cancellato: disse che era stata un’illusa a pensare di poter fare un viaggio con me ma allo stesso tempo continuava a credere nella nostra storia. Sedeva in una posa impossibile, in punta sul sedile del passeggero, e non potendosi reggere al volante si aggrappava scomodamente al poggiagomito dello sportello, la sua posa mi sembrava così strana vista con la coda dell’occhio mentre tenevo gli occhi sulla strada e non osavo voltare la testa verso di lei perché l’avrei spaventata, mi voleva concentrato. Riconoscevo il puzzo del suo sudore nervoso che si assottigliava nel getto fresco del condizionatore.
Nel dialogo cancellato a un certo punto arrivai a sostenere che accettassimo che questo rapporto poteva finire [tema davvero poco adatto alle circostanze; rileggendomi finalmente mi stupisco di essere riuscito a riferire questo particolare – segno di lucidità almeno poetica – senza però mai, prima d’ora, scoppiare a ridere all’idea della mia inadeguatezza]. Appena l’ebbi detto cominciai a controllare dove teneva le mani e in effetti mi accorsi che aveva raccolto dal cruscotto un paio di auricolari con cui ascoltavo la musica e li stava attorcigliando. Cercando di continuare a guardare la strada la rimproverai: «Non distrarmi! Poggia le mie cuffie!».
«Non sono tue, non puoi saperlo, sono uguali alle mie.»
«Lasciale lo stesso!»
«Non urlare!»
Abbassò il finestrino e le lanciò per strada, nella sabbia. Piangeva senza produrre suono.
Espirai con un sibilo. Ero contento che avesse buttato quelle cuffie. Come ho detto, era solo quando Barbara spariva, o distruggeva qualcosa, che il nostro rapporto si esprimeva. Se in passato ero indeciso se considerare quelle sue esplosioni qualcosa di tossico e circolare, adesso che consideravo con più attenzione le sue azioni mi parevano segnalazioni puntuali, spie come quelle del cruscotto.
Era come se Barbara lanciasse questi oggetti irrilevanti in un altro mondo dove diventavano reali. Quell’altro mondo era il posto in cui andava quando scappava di casa per passare la notte fuori. Ormai che capivo questo processo riuscivo a dire la cosa giusta: «Oh piccola mia io ti amo tanto non avere paura, stiamo guidando bene, la strada è tranquilla, abbiamo solo un po’ di paura, basta che non hai paura di me».
«No, no» parlava con tristezza, «non ho paura di te: ho paura del deserto. Tu sei dolce.»
Le case lungo la strada erano sempre più rade e forse, o ero solo suggestionato, costruite in modo sempre più rudimentale. Finalmente, trafficandoci insieme senza fermare l’auto, riuscimmo a impostare il navigatore dallo schermo difettoso, che in effetti avevamo ignorato tutto il giorno per sfiducia. Ci accorgemmo che mancavano duecento chilometri.
Il sole tramontò intorno alle sette e mezza; la strada era punteggiata di capanne; le piante d’acqua facevano sembrare il Mar Morto una risaia. Il crepuscolo si estese nel cielo del deserto e poi fu buio completo.
La strada presentava il bivio successivo entro un centinaio di chilometri. Ora che il guaio era compiuto ed eravamo davvero nel deserto nero e Barbara poteva abbandonarsi alle sue fantasie di morte, io sentivo una particolare combinazione di piacere e concentrazione. Ero convinto di avere abbastanza carburante e confidavo in me nonostante sentissi nelle cosce la stanchezza. Il compito era lineare: dovevo portarla alla fine di quella striscia di strada e avevo davanti un quadro di controllo che mi diceva continuamente quanti chilometri in meno c’erano da fare per accontentare la donna che sedeva accanto a me e si mordeva la pelle intorno alle unghie.
«Credo di aver fatto qualcosa al di sopra delle mie possibilità, con questo viaggio.» Aveva una voce dolce. «La macchina mi fa paura, e questo Paese non è fatto per essere girato in macchina.»
Il tratto di deserto era così lungo che la paura che finisse la benzina continuò a ostacolare la conversazione. Barbara teneva la mano sulla mia, che rimaneva sulla leva del cambio anche se non ce n’era alcun bisogno. L’asfalto era integro, ma ci eravamo suggestionati a vicenda che si potessero incontrare animali e in quel caso avremmo dovuto scalare marcia per rallentare, sarebbe stato più sicuro che frenare. Eravamo convinti che al primo problema saremmo stati in pericolo di vita e immaginavamo, ciascuno per conto suo, l’abitacolo fermo e l’abbraccio per superare la notte. Ogni dieci minuti incrociavamo un’auto diretta nel senso opposto e ne scrutavamo i due fari bianchi.
Lei tenne spesso la mano sopra la mia. La leggerezza della sua mano, il sudore freddo… Poi, quando la levava e se la rimetteva in grembo o la accostava alla bocca per mordicchiare le unghie, il dorso della mia mano, bagnato, si faceva accarezzare dall’aria condizionata.
Dopo aver raggiunto un basso valico abitato vedemmo sorgere una costa luminosa di vita umana. L’apparizione ci mise molti minuti per definirsi, poi ci accorgemmo di un’autostrada gemella che scorreva sulla destra e che, a leggere la cartina, poteva essere la strada israeliana che avendo percorso la costa opposta ora si avvicinava a noi separata solo da una striscia di terra. Le due strade si ricongiungevano sul golfo. Quel guardarsi allo specchio, noi e le macchine di là, era confortante dopo il buio nero.
Ci fermammo a un posto di blocco per l’ingresso nella zona economica speciale di Aqaba. Abbassando i finestrini per presentare i documenti a un soldato scoprimmo che la temperatura si era abbassata. Il vento sulla faccia, la gioia per i lampioni luminosissimi. Dopo la dogana, la strada era ancora illuminata dai lampioni; palme più urbane, pettinate, scandivano il percorso.
La città ci mise davanti una complicata tangenziale dagli svincoli a raso non illuminati. Ogni tanto dai macigni spartitraffico nelle zone di lavori in corso balenava un catarifrangente; quasi tutti i macigni ne erano privi, però, e per evitarli procedevamo guardinghi, molto provati dal fatto che ci fosse un nuovo motivo di paura e che questo albergo non arrivasse mai.
Prima di entrare nella zona dei resort, poco fuori città lungo la costa, non mi accorsi che un tir stava per investirci. Avevamo raggiunto un incrocio a raso che pareva unire due grandi arterie, la nostra e quella del tir, in una X allungata che al buio era difficile da interpretare: sulle prime dovetti pensare che lì ci fosse una rampa e che quel tir stesse per passarci sopra la testa su qualche cavalcavia non illuminato.
Il tir ci parve un’allucinazione: fari alti provenienti da un’angolazione da cui come pilota non avevo mai visto provenire nulla. Come in una giostra di cavalieri, sembrò puntare il nostro fianco sinistro; inchiodai, sicuro di morire, ma il grande avversario frenò e ci lasciò andare via, sfogando il suo clacson baritonale.
Avevamo il cuore in gola ma di lì a poco ridevamo, per lo spavento che scemava e per le strane proporzioni del resort, immerso in nuvole di luce blu e viola e diviso in tanti volumi sontuosamente assortiti, con proporzioni che variavano dalla villetta alla casa Corbusier all’hangar.
Continuammo a ridere in camera, quando spogliati entrammo in bagno e scoprimmo che la doccia era una vera e propria stanza con una parete di vetro, quattro sedili di pietra e due grandi cornette quadrate: ci sedemmo uno accanto all’altra a lavare via il sudore, lentamente, cercando di capire di quanta acqua calda disponesse quel deserto.
Mi chiese di uscire dalla doccia a prendere il telefono. Uscii dal caldo pulito della doccia, infilai un accappatoio morbido e bianco, andai in camera a prendere il telefono, lo misi in modalità aereo, lo sistemai sul lavandino contro il necessaire e accesi la telecamera. Poi sfilai l’accappatoio, entrai e cominciammo a far l’amore nella doccia, sul sedile. Lei era concentrata e non mi baciava, poi mi baciava per un po’, poi smetteva.
Barbara mi dava spesso la sensazione che tra noi non stesse accadendo qualcosa di intimo. Perciò non parlo dei nostri arti, non parlo del calore, non parlo del sudore. Come ho scritto, un buon modo di capire il paradosso della mia situazione è pensare a Eleonora come la mia compagna, la persona davvero affine che viveva nelle mie stesse frequenze, e a Barbara come la mia amante. Una volta mi aveva detto che le piaceva che non la scopavo come un fidanzato e quella sera nella doccia, nel primo lungo viaggio insieme da tempo, mi parve che in realtà fosse lei a scopare me come un estraneo, a non mostrarmi niente di intimo, e le piacesse quindi che io non avessi pretese di tenerezza. Adesso che non c’era più Eleonora l’estraneità di Barbara mi pareva più interessante; prima era sempre sembrata la punizione di una donna che in qualche modo sapeva che io non ero suo. Ero suo, adesso, e mi scopava come se fossi uno pescato in un bar, cui non pare vero essere stato scelto, felice di accontentarla senza pretendere calore.
Chiusa l’acqua della doccia, ci infilammo negli accappatoi, poi ci infilammo nel letto e guardando il filmato di prima riprendemmo a far l’amore e mi trattenni dal dirle che l’amavo. Dopo aver finito ed essermi rinfilato sotto la doccia e poi di nuovo a letto dove quasi dormiva, glielo dissi: «Ti amo tanto».
«Oh, anch’io.» E suonò come suona scritto sul foglio: privo di connotazioni, incomprensibile.
Quando spegnemmo gli abat-jour per dormire, si strinse a me e disse: «È un viaggio bellissimo».