Tornammo a Roma diverse volte e odiavamo andare a controllare la casa e gli affittuari, una coppia di amici di amici. Un mattino ancora in inverno, indimenticabile, era freddo e non si era dissipata la foschia; la vite americana aveva perso le foglie ma le poche ciocche rimanenti erano di un rosso fragola che sfolgorava sul verde come una frezza di capelli tinti, e nella nostra casa un’altra coppia, una caricatura di noi, lui con la barba come me, lei vestita in modo ricercato.
Ma la volta che voglio ricordare capitò a maggio. Ci presentammo una mattina parcheggiando davanti alla vite americana rigogliosa, i glicini verdi; i gelsomini erano fioriti, le piante in vaso per terra sprizzavano fiori viola, indaco, rosso, giallo, arancio.
Preparavano il pranzo, profumo di burro bruciato. Per pigrizia mangiavano in casa e non in cortile né sul tetto. Non faccio il ritratto denigratorio della coppia: Barbara l’aveva trovata giusta, erano persone che apprezzavano un dipinto di Mattotti alla parete della sala da pranzo. Ci invitarono a sederci al tavolo, che era ben illuminato, forse il punto più illuminato della casa, perché stava sotto un lucernario. Servirono il caffè americano preparato da un loro infusore elettrico stipato insieme al tostapane fra la piastra elettrica e il mobile: mi accorsi che Barbara era infastidita perché il piano era troppo ingombro.
La tazza calda fra le mani, una nostra tazza, Barbara alzò gli occhi sul lucernario e mormorò educatamente: «La macchia…».
«Ah sì, hai visto?» confermò l’affittuaria, che era senza reggiseno sotto la felpa leggera in cui aveva dormito.
«Ho visto» le sorrise Barbara, che per lavoro sapeva come non sembrare arrabbiata. Parlava come se la macchia fosse colpa nostra. «Si è estesa un po’, Marcè» come fosse colpa mia, e sapevo che non lo credeva.
La macchia ci aveva visitati durante l’inverno, prima di lasciarci, e gli operai dopo l’intervento avevano assicurato di averla eliminata per sempre. Era alta un metro e larga come un disco nel punto più esteso; aveva scrostato un lembo di vernice, cosa che fin lì eravamo invece riusciti a evitare. Ma i due affittuari non ci avevano avvisati che era ripresa l’infiltrazione.
«Sì, ho notato anch’io» disse l’uomo. Sul pigiama portava un lungo cardigan di cotone, quasi una vestaglia.
«Comunque tranquilli, chiamateci tranquillamente, non fatevi problemi, se vedete che si bagnano i muri chiamateci.» Barbara li giudicava due ricchi un po’ tonti e abituati a farsi servire, ma nel rivolgersi a loro cercava di non farli sentire inadeguati.
La sua reazione non era diversa, fatte le dovute proporzioni, da quella che aveva avuto con Gioia Longo. E io in altri tempi mi sarei impuntato perché non voleva condividere con me la paura che le metteva la macchia. Ma qualcosa era cambiato fra di noi: non mi sentivo escluso, non mi disturbava che volesse chiudersi in se stessa. Sapevo che la macchia per lei era una cosa terribile, una violenza al suo spazio più privato, e che lei sapeva che per me era solo un problema pratico da risolvere senza patemi.
L’uomo ci assicurò che avrebbe scritto per aggiornarci: «Vi manderò le foto così seguite gli sviluppi».
«Bene. Mi confermi che non avete sentito gli operai? Così quando li sento so da dove partiamo.»
«Che poi» disse l’uomo, «non ha piovuto davvero niente.»
«È vero, niente…» disse Barbara, tenendo la tazza di caffè davanti alla bocca. Guardando la bacheca sotto il lucernario disse: «Andrà risolto, domani posso venire io con gli operai».
Evitai di ricordare che domani avevamo il treno alle otto perché dovevo essere in redazione prima di mezzogiorno. Sapevo che questa era lei: la faccia di sua madre, tutta intera, incollata al posto della sua.
Ma non intervenendo provai nel corpo un piacere diffuso, un senso di quiete.
Quell’espressione di Barbara, di cui mi accorsi solo io, durò per tutto il seguito della visita. Non feci nulla per bucare il suo compatto rivestimento. Lasciai che dietro quel volto un essere sconosciuto perfino a me facesse il giro delle stanze, scortato dall’affittuaria, per controllare i soliti punti chiave da tenere d’occhio. Pur essendo la casa costruita con tutte le metodologie moderne, che limitavano per esempio la dispersione del calore, aveva una permeabilità all’acqua esterna che cominciava a preoccuparci. L’acqua spaventava Barbara: non sapevamo perché, non avevamo ricostruito ancora le ragioni per cui si puliva la guancia se la baciavo dopo aver bevuto; non le piacevano il sudore, la saliva, il brodo, il caffè, gli umori sessuali, ogni liquido che toccava la pelle andava subito asciugato – e certamente non le piaceva che l’umidità mangiasse gli orli del parquet o ammuffisse i muri.
Scoprì che il deumidificatore del piano sotterraneo era stato spento e accantonato nel giardino d’inverno per ragioni estetiche. Siccome non era che una cantina riconvertita a camera degli ospiti, andava mantenuta spurgandone l’umidità: ora emanava un freddo inospitale e puzzava di cantina. La creatura nascosta dietro il volto di Barbara parlò come se intendesse dare un consiglio: «Se volete avere ospiti a dormire vi conviene azionare il deumidificatore».
Io aggiunsi: «Nel senso che il deumidificatore va tenuto sempre acceso, con il timer del convertitore».
Barbara disse che potevamo riattivarlo noi sul momento e l’affittuaria disse tre volte che non c’era bisogno, al che Barbara si trattenne e cambiò argomento.
Quel che si agitava, impersonale e intimo, oscuro e delicato, sotto la maschera di mia moglie, notò salendo l’aumento radicale della muffa sulla parete e le ragnatele sui gradini. Le indicò senza parlare. Lo notai io che la seguivo, mentre l’affittuaria, una ragazzina di quarant’anni in tuta, dal buon odore d’incenso, cominciava a diminuire la cortesia.
Sapevo che Barbara non voleva aggiungere che il tavolo di legno andava passato con il nutriente per legno e lo dissi io, parlando come parlava lei.
La stanza decisiva fu il bagno. Ciò che più la disturbava di tutti i problemi della casa – lo faceva notare ogni volta che visitavamo qualcuno che non teneva alla pulizia – era la striscia di calcare che si forma nel punto dove l’acqua continua sempre, impercettibilmente, a battere l’interno del water.
Ora Barbara, che aveva chiesto di usare il bagno, notò una prima debolissima scia di calcare.
Dopo tutta la cortesia impiegata, al momento di congedarsi li avvisò che l’indomani mattina sarebbe passata con gli operai a risolvere le questioni in sospeso perché era meglio farlo subito piuttosto che aspettare, se no «i problemi aumentano esponenzialmente».
Camminammo in silenzio nella strada senza uscita verso la macchina che ci aveva prestato mia madre. Barbara telefonò alla donna delle pulizie e le chiese se era libera l’indomani. La signora le propose la cognata. Mentre si accordavano, Barbara indugiava davanti a me che le tenevo aperto lo sportello per un eccesso di buone maniere causato dalla tenerezza che provavo per lei.
Infine, salì in macchina e mentre infilava la cintura di sicurezza strizzò le palpebre così forte che la maschera che aveva indossato fino a quel momento ne fu risucchiata e il viso, liberato, si riempì di lacrime e singhiozzi.
Misi in moto e la portai via. Da quel momento, credo, è diventata mia moglie.