Non è possibile tracciare in breve una fortuna del pensiero machiavelliano nella filosofia politica di età moderna perché, a partire dalla prima diffusione manoscritta del Principe e fino a questa nostra incerta aurora del XXI secolo, per quasi cinque secoli la ricezione di Machiavelli ha costituito elemento fondante e discrimine nel pensiero politico e morale, fino quasi a identificare il rapporto dei moderni con Machiavelli con la storia stessa di quel pensiero. Perciò tratteggiare la fortuna del Principe implicherebbe l’impossibile compito di delineare l’evoluzione della ‘filosofia della prassi’ dal XVI secolo ai giorni nostri.1
Nelle pagine che seguono ci limitiamo quindi a minime glosse, orientate a fornire un primo approccio bibliografico, accompagnate da cinque percorsi di lettura esemplari rappresentati da Friedrich Meinecke, Benedetto Croce, Antonio Gramsci, John G. A. Pocock, Michel Senellart.
Il primo interlocutore di rilievo del Segretario fiorentino fu certamente Francesco Guicciardini, che nel Dialogo del reggimento di Firenze si confronta col Principe, e ancora più esplicitamente assumerà i Discorsi machiavelliani come orizzonte problematico nelle Considerazioni intorno ai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.2 Il XVI secolo segna anche la prima tappa di quel progressivo identificarsi del pensiero machiavelliano con la teoria della ‘ragion di stato’, un percorso storiograficamente consacrato nella ricostruzione di Friedrich Meinecke, L’idea della ragion di stato nella storia moderna.3 Del pari prende avvio quel singolare fenomeno che vede, nelle pagine dell’antimachiavellismo controriformistico, radicalizzarsi ed emergere in tutta la loro evidenza sistematica i punti forti del pensiero machiavelliano.4 Un momento di svolta nell’esegesi machiavelliana è rappresentato, come hanno ribadito gli studi più recenti, dalla linea che va da Bacon a Spinoza e riconosce nel pessimismo antropologico del Segretario fiorentino la misura della politica come orizzonte del possibile, spogliata da ogni tensione utopistica. Con l’Antimachiavel del giovane Federico di Prussia, uno scritto rivisto e integrato da Voltaire, la polemica si sposta sul piano pratico, e la critica illuministica si appunta sulla inefficacia della ricetta di governo proposta nel Principe.5
La storiografia tedesca di età romantica (da Herder, Fichte, Hegel fino a Ranke, Dilthey e, al principio del XX secolo, a Meinecke) contribuì a collocare l’opera machiavelliana nel quadro della politica italiana cinquecentesca e sottolineò in essa l’emergere di una consapevole teoria dell’esercizio della forza e il primato politico dell’agire.6
Con il Novecento l’interpretazione del Principe è segnata, nella cultura italiana, dalle pagine di Benedetto Croce, che vede in Machiavelli l’autore che ha formulato, seppure in senso non teoretico, la necessaria autonomia della politica dalla morale. La lettura crociana, esemplata nelle pagine che seguono – dettate nel 1924 e intitolate Machiavelli e Vico –, trovò in Luigi Russo una sponda sul piano dell’esegesi letteraria, con il commento al Principe del 1931 e la monografia del 1945 (presso Laterza dal 1949). L’intento di negare la dicotomia politica/morale, ritenuta carattere proprio della «tesi Croce-Russo», muove il saggio di Isaiah Berlin del 1953, L’originalità di Machiavelli. Dopo aver effettuato una disamina accorta, dettagliata, non tendenziosa delle diverse interpretazioni machiavelliane succedutesi nella cultura occidentale, Berlin ritiene che «qui non è in giuoco la separazione della politica dall’etica, ma l’affacciarsi della possibilità di più di un sistema di valori, in assenza di un criterio comune che renda possibile procedere a una scelta razionale tra di essi. […] Spezzando l’unità originaria, Machiavelli contribuì a creare negli uomini la consapevolezza dell’ineluttabile necessità di compiere scelte tormentose fra alternative incompatibili nella vita pubblica e in quella privata (giacché divenne chiaro che le due sfere non potevano realmente essere mantenute distinte). Si tratta di un risultato capitale, non foss’altro perché il dilemma, una volta emerso alla luce, non ha mai cessato di tormentare gli uomini (esso rimane irrisolto, ma abbiamo imparato a conviverci). Non vi è dubbio che sul terreno pratico gli uomini avessero fatto abbastanza spesso l’esperienza del conflitto che Machiavelli rese esplicito. Egli ne mutò la fisionomia, trasformando un paradosso in qualcosa che si avvicina a un luogo comune».7
Diverso era stato l’approccio di Antonio Gramsci, per il quale il ‘principe’ rappresenta «l’equivalente del moderno partito politico: coscienza politica e strumento operativo di una volontà collettiva che in lui si riconosce, espressione organica dei problemi e delle esigenze di un particolare gruppo sociale». Perciò l’opera di Machiavelli si rivolge «non tanto al Principe, quanto al popolo, per educarlo alla necessità politica»; ne consegue il «riconoscimento della verità storica, non assoluta, della soluzione machiavelliana» e l’atteggiamento integralmente storicistico con cui Gramsci si poneva di fronte all’opera del Segretario fiorentino.8 Il Principe sarebbe dunque un ‘manifesto’ che intende porre i fondamenti di una volontà collettiva, e in tale ottica l’Exhortatio del cap. XXVI costituirebbe «quell’elemento che riverbera la sua vera luce su tutta l’opera e ne fa un manifesto politico».
Un rilievo particolare spetta all’interpretazione formulata da Federico Chabod, commentatore del Principe nel 1924. Lo studioso radicò l’opera machiavelliana nella crisi degli stati italiani fra Quattro e Cinquecento e proiettò una immagine di Machiavelli quale primo teorico del realismo politico nella catastrofe delle signorie. Niccolò, ridotto ormai al ruolo di accorto spettatore delle vicende nazionali, osservava l’evolversi della crisi statuale dal suo esilio di San Casciano e rileggeva la storia liviana alla ricerca di una ricetta degli equilibri politici e soprattutto di un medicamento straordinario per la crisi ordinamentale degli stati repubblicani. Questa interpretazione, che collega direttamente il cap. IX del Principe con i capp. XVII e XVIII nel primo libro dei Discorsi, sebbene superata sul piano dell’esegesi filologica e della genesi letteraria delle opere politiche machiavelliane, continua a spiegare non poco del ruolo giocato dal Segretario fiorentino nella costruzione di una identità culturale nazionale italiana.
Gli anni più vicini ci hanno restituito una messe innumerevole di studi volti a ricostruire la genuina lezione dei testi machiavelliani e la cultura del Segretario fiorentino: tra i risultati più ragguardevoli è l’ormai compiuta conoscenza del Machiavelli ‘segretario’ grazie alla pubblicazione degli scritti di governo avviata da Jean-Jacques Marchand e proseguita da Denis Fachard ed Emanuele Cutinelli-Rendina. Spiccano, in questo panorama, le personalità di Gennaro Sasso e Mario Martelli: il primo per aver salvaguardato la fisionomia unitaria e la straordinaria originalità del pensiero di Niccolò; il secondo per l’agguerrita perseveranza con la quale ha sottoposto i testi machiavelliani a un vaglio filologico che, seppure con alterni risultati, ha rivelato nessi peculiari e profondi nella lingua di Machiavelli, stili di pensiero che stanno alla base del lessico politico contemporaneo.9
Ma è oltralpe che, nella seconda metà del XX secolo, l’intensificarsi dell’interesse per Machiavelli ha reso il Principe un classico mondiale nella storia del pensiero politico. Oltre alla miriade di traduzioni in tutte le lingue dell’orbe, gli studi, soprattutto in area anglosassone, hanno visto una sostanziale contrapposizione fra Leo Strauss – ultimo erede dell’antimachiavellismo che esordiva nei suoi Pensieri su Machiavelli del 1958 con le parole: «Non meraviglierebbe nessuno, e ci esporrebbe al massimo a qualche garbata e piuttosto innocua ironia, se ci dichiarassimo favorevoli a quella vieta e semplicistica opinione secondo cui Machiavelli fu un teorico del male» –10 e quegli autori che hanno visto in Machiavelli, ciascuno a suo modo, l’antesignano della tradizione repubblicano-liberale inglese, in chiave di umanesimo civile.11 Fra questi ultimi segnaliamo Quentin Skinner e soprattutto John G.A. Pocock dalla cui opera Il momento machiavelliano: il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone (del 1975: significativamente il titolo originale inglese addita la Atlantic Republican Tradition) estrapoliamo la quarta delle letture oggi proposte.
Infine Michel Senellart, iscrivendosi nella linea che esamina in parallelo machiavellismo e ragion di stato, inquadra il Principe entro un orizzonte dottrinario di lungo periodo, dal XII al XVIII secolo. In tale ambito lo studioso fa emergere la riflessione sul concetto di necessità in Machiavelli che conclude la nostra breve rassegna.
1 Un approccio alla fortuna dell’opera machiavelliana si potrà ricavare da Emanuele Cutinelli-Rendina, Introduzione a Machiavelli, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 137-198, con storia della critica e bibliografia; tale percorso ho tenuto presente in queste mie schede.
2 Si vedano introduzione e commento al Dialogo guicciardiniano, a cura di Gian Mario Anselmi e Carlo Varotti, Torino, Bollati Boringhieri, 1994.
3 Meinecke riconobbe in Machiavelli il primo pensatore che costruì in forma sistematica (e necessitaria) quell’idea di ‘ragion di stato’ fino ad allora latente in molte pagine della storiografia classica e umanistica: da tale universalità teoretica deriverebbe la forza sconvolgente di singoli aspetti del percorso machiavelliano. Sulla ‘ragion di stato’ e i suoi prodromi machiavelliani si legga Mario Bretone, Ragione di stato e ragione giuridica tra Barocco e Illuminismo, in «Belfagor», 58, maggio 2003, pp. 261-280 e Pasquale Guaragnella, Tra antichi e moderni. Morale e retorica nel Seicento italiano, Lecce, Argo, 2003, in specie pp. 127-156.
4 Il Principe fu inserito nel terzo Indice dei libri proibiti nel 1559 soprattutto per opera del cardinale Reginald Pole. Si veda Adriano Prosperi, Il Principe, il cardinale, il papa. Reginald Pole lettore di Machiavelli, in Cultura e scrittura di Machiavelli, atti del convegno Firenze-Pisa 1997, Roma, Salerno ed., 1998, pp. 241-262.
5 Il pamphlet del 1741 è tradotto in italiano presso Studio Tesi, Pordenone, 1987.
6 La fortuna di Machiavelli nel XIX e XX secolo è stata tracciata con efficace concisione da Jérémie Barthas nella voce Machiavelli in Political Thought from the Age of Revolutions to the Present, di prossima pubblicazione nel Cambridge Companion to Machiavelli diretto da John Najemy (Cambridge University Press, 2009).
7 Isaiah Berlin, L’originalità di Machiavelli (1953), dapprima pubblicato nell’originale inglese in Myron Gilmore (ed.), Studies on Machiavelli, Firenze, Sansoni, 1962; ora in Controcorrente. Saggi di storia delle idee, a cura di Henry Hardy, introduzione di Roger Hausheer, trad. di Giovanni Ferrara degli Uberti, Milano, Adelphi, 2000. In polemica con Berlin si è espresso Gennaro Sasso, Niccolò Machiavelli I. Il pensiero politico, Bologna, Il Mulino, 19933 (1958), argomentando nel pensiero machiavelliano una radicale, insanabile assolutezza della politica (protesa a salvaguardare la vita degli stati) dall’etica in quanto considerazione del bene e del male.
8 Cfr. Vitilio Masiello, Classi e stato in Machiavelli, Bari, Adriatica, 1971 (1997), pp. 37-41, da cui abbiamo attinto le citazioni nel testo.
9 Nel panorama della ricostruzione filologica degli scritti machiavelliani segnalo, per l’attenzione dedicata a Machiavelli narratore e uomo di teatro, gli studi di Pasquale Stoppelli, La Mandragola: storia e filologia, con l’edizione critica del testo secondo il Laurenziano Redi 129, Roma, Bulzoni, 2005, e dello stesso Machiavelli e la novella di Belfagor. Saggio di filologia attributiva, Roma, Salerno ed., 2007.
10 Leo Strauss, Pensieri su Machiavelli, trad. di Giuseppe De Stefano, Milano, Giuffré, 1970 (ed. orig. 1958), p. 1.
11 Con particolare riguardo agli aspetti giuridici del triangolo Machiavelli/ragion di stato/repubblicanesimo anglosassone, si legga Mario Bretone, Tempo e ragione giuridica fra antico e moderno, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», 36, 2006/2, pp. 285-304.