IL PRINCIPE DI MACHIAVELLI

John G.A. Pocock

Il Principe non è un’opera ideologica, dato che non si può affatto dire che essa esprima il punto di vista di un gruppo politico definito. Lo scritto ha piuttosto l’aspetto di uno studio analitico sull’innovazione (ossia sulla formazione di uno stato nuovo), e sulle sue conseguenze. Tuttavia, pur muovendosi intorno a questo tema preciso, Machiavelli ne Il Principe conduce anche un’analisi serrata del problema che sta al fondo di tutti gli altri e, dunque, anche di quelli sollevati dalla comparsa di una forza politica innovativa e dalla decadenza della partecipazione generale dei cittadini alla cosa pubblica. Il problema di fondo a cui alludiamo è quello della fortuna di cui né Guicciardini né gli ottimati minori si erano ancora occupati. E forse essi non l’avevano ancora fatto perché la convinzione di appartenere ad una élite era presso di loro ancora così solida da escludere dalle loro preoccupazioni quella di una propria relativa insicurezza. Machiavelli, invece, aveva avuto ed aveva una vita troppo esposta al variare della fortuna per nutrire nei propri riguardi la convinzione di appartenere ad un ceto o ad un gruppo sicuro delle proprie prerogative. Tuttavia, bisogna anche dire che l’indagine teoretica in cui egli si impegnò aveva i suoi agganci con la posizione che sul piano intellettuale tenevano gli ottimati. E, infatti, se la politica deve essere reputata l’arte di affrontare gli eventi contingenti, essa è l’arte di affrontare la fortuna, vista come la forza che di quegli eventi è all’origine; e, come tale, essa viene a simboleggiare la sfera della contingenza nella sua nuda evidenza, di realtà incontrollabile e priva di spiegazione ragionevole.

Ma nella misura in cui il sistema politico cessa di essere una realtà universale e viene, invece, visto come una realtà particolare, riesce ad esso quanto mai arduo affrontare la fortuna. Così la repubblica può avere ragione della fortuna solo integrando i suoi membri in una universitas autosufficiente, ma anche tale universitas si trova poi a dipendere dalla libera partecipazione politica e dal consenso morale dei membri suddetti. Il declino della libera partecipazione alla cosa pubblica porta al declino della repubblica e, per converso, dà maggior spazio all’influenza della fortuna. E Machiavelli fa poi risaltare il caso in cui tutto questo (declino della repubblica e maggior spazio dato alla fortuna) si produce a causa di un atto innovativo ossia di un atto improvviso e incontrollato, avente poi conseguenze parimenti impreviste e incontrollabili. E, dunque, quando Machiavelli si mette a discorrere del «principe nuovo» (ossia di chi ha il potere e tale potere costituisce ex novo), lo isola dalla aspirazione degli ottimati e di quanti altri vorrebbero continuare ad agire come cives e, anzi, considera tale principe e i suoi governati in rapporto, nel loro agire, con la sola fortuna.

Solo nei Discorsi Machiavelli istituirà il confronto tra la partecipazione attiva e consapevole alla cosa pubblica e la fortuna.

Un altro tratto capitale di Machiavelli su cui non si insisterà mai abbastanza è che il problema della fortuna è un problema che rientra nell’ambito della virtù. Per qualsiasi pensatore della tradizione boeziana la virtus era l’azione o il mezzo con cui l’uomo onesto e probo imponeva una forma alla sua fortuna. L’umanesimo civile, identificando l’uomo onesto e probo nel cittadino (civis), aveva trasportato la virtù nella sfera politica ossia l’aveva politicizzata, rendendo poi dipendente la virtù del singolo dalla virtù degli altri suoi concittadini. Se la virtus poteva esistere solo quando c’erano dei cittadini associati per realizzare una res publica, allora la politeia ossia la costituzione e l’organizzazione della comunità politica (vale a dire: la struttura funzionalmente differenziata che Aristotele aveva teorizzato per consentire la partecipazione alla cosa pubblica) in pratica veniva ad identificarsi proprio con la virtù.

E, infatti, se l’uomo probo poteva praticare la sua virtù solo nel quadro della partecipazione politica alla cosa pubblica, qualora tale quadro fosse andato in pezzi o sotto il colpo violento di un fatto nuovo o perché lentamente eroso dalla dipendenza da altri, si avevano il deperimento e la corruzione della virtù sia presso chi maneggiava il potere sia presso chi ne era escluso. Così, il tiranno non poteva mai essere un uomo probo e virtuoso, dato che non aveva dei concittadini. Ma in tal frangente la capacità di una repubblica a mantenersi contro i colpi interni ed esterni (ossia contro la fortuna vista come simbolo delle eventualità contingenti) altro non era che l’esercizio della virtus, intesa nell’accezione latina come antitesi della fortuna.

La virtù dei cittadini era la forza che assicurava stabilità alla politeia e, viceversa, era la politeia con la sua stabilità a consentire l’esplicarsi della virtù dei cittadini. In senso politico e in senso morale, il vivere civile rappresentava l’unica difesa che si potesse opporre all’assalto della fortuna e, del pari, esso costituiva per il singolo il quadro necessario all’esplicazione della sua virtù.

Quello che Machiavelli, nei passi più famosi de Il Principe, intende compiere è questo: ridare al termine latino di virtù (virtus) il suo significato originario e poi chiedersi se esista mai una virtù di cui possa servirsi il principe nuovo, ossia l’innovatore (nella sua condizione di persona che si è isolata dalla società morale degli altri uomini), per imporre una forma alla sua fortuna; e chiedersi anche se tale virtù presenti un qualche attributo morale o se tale attributo possa riscontrarsi nelle conseguenze politiche provocate, come è agevole ipotizzare, dalla pratica di tale virtù.

E poiché il problema si pone solo perché c’è stata l’innovazione ossia quell’evento nuovo, che è poi un atto politico, ecco che proprio in termini di ulteriore azione politica si dovrà discutere di tale problema.