Se l’avvio del pensiero machiavelliano si trova nel conflitto che oppone senza tregua la fortuna, ostile e mutevole, alla virtù umana, è il concetto di necessità che costituisce il nucleo del machiavellismo. Questo elemento trova la sua formulazione più feconda nei capitoli XV-XIX del Principe, dove l’autore, come riconosce egli stesso, elabora un rovesciamento dello ‘Specchio dei principi’. Una formula riassume efficacemente questo aspetto: «Onde è necessario, volendosi uno principe mantenere, imparare a potere essere non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità» (Principe, XV).
È necessario, per comprendere questo celebre passaggio, rammentare che Machiavelli si iscrive all’interno di una tradizione antica («io so che molti di questo hanno scritto») che egli ben conosce – e ne riprende i temi nei capitoli successivi – e che intende volgere in chiave ironica («Lasciando adunque addreto le cose circa uno principe immaginate, e discorrendo quelle che sono vere»). Si realizza in questa pagina un’intenzione parodica: perciò è importante leggerla con grande attenzione a partire dai testi che mira a sovvertire. Cosa dicevano i trattati sull’arte di governare nei secoli XV-XVI? Senza dubbio sottolineavano instancabilmente i doveri del principe, ma con una clausola restrittiva: in caso di necessità gli è permesso (licet) infrangere la legge. Machiavelli ricalca in qualche misura questa formula convenzionale, introducendo numerose modifiche decisive: a) egli sostituisce l’oggetto legittimo delle cure del principe, la difesa del corpo politico, con la preoccupazione per la salvaguardia personale; b) all’autorizzazione (licet, è permesso) egli sostituisce la necessità («è necessario … secondo la necessità»); c) estende all’ambito morale la dispensa accordata in un quadro strettamente giuridico. Per queste ragioni egli non rigetta affatto la morale, come troppo spesso si è affermato, ma sostiene che l’opposizione di vizi e virtù, assoluta sul piano etico, non è che relativa sul piano politico. Che cosa è dunque la necessità che costituisce il criterio di questo precetto? Corrisponde forse alla necessitas medievale, affrancata dalle condizioni della ‘giusta causa’? Comportarsi secondo la necessità si riduce, per Machiavelli, a essere pronti a «non essere buoni» in casu necessitatis? La necessità, in altri termini, è un principio eccezionale o permanente? […]
Il concetto di necessità appare in un altro luogo direttamente associato al tema della fortuna. La fortuna occupa in Machiavelli il luogo della Provvidenza nel pensiero cristiano: avversaria tenace, ma talora anche benevola sostenitrice degli uomini, egli scrive che essa è «arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi» (Principe, XXV). Non bisogna considerarla come una divinità neo-pagana: Machiavelli abita un mondo disincantato, dal quale gli dèi sono assenti: la fortuna si traduce nell’universale mutabilità delle cose che regola una causalità capricciosa. L’antico cosmo immutabile e gerarchicamente ordinato è scomparso, e non è stato ancora sostituito dall’universo meccanicistico della scienza. Esiste solo il movimento, generatore di turbolenza. La fortuna non è una forza esteriore alle cose, che le governa in maniera arbitraria: essa è l’idea stessa della loro instabilità.
È in correlazione con questa tesi che si esplicita il concetto machiavelliano di necessità. «Ma sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino, e a molte cose che la ragione non t’induce, t’induce la necessità» (Discorsi I, 6). Quale è la necessità che Machiavelli sembra qui identificare con il perpetuo movimento che sconvolge i piani della ragione? Egli ne offre un esempio: «avendo ordinata una republica atta a mantenersi, non ampliando, e la necessità la conducesse ad ampliare, si verrebbe a tor via i fondamenti suoi ed a farla rovinare più tosto» (Discorsi I, 6). In questo capitolo Machiavelli non aggiunge altro, poiché qui il suo obiettivo è stabilire che una repubblica nuova deve prendere Roma come modello e accrescere la sua potenza con le conquiste. Ma nel libro successivo egli torna su questo esempio e spiega ora in cosa consista la necessità che costringe una repubblica a ingrandirsi: «è impossibile che ad una republica riesca lo stare quieta e godersi la sua libertà e gli pochi confini: perché se lei non molesterà altrui, sarà molestata ella; e dallo essere molestata le nascerà la voglia e la necessità dello acquistare; e quando non avessi il nemico fuora, lo troverrebbe in casa, come pare necessario intervenga a tutte le cittadi» (Discorsi II, 19). Chi non aggredisce è aggredito: questa è, per Machiavelli, l’impietosa legge della necessità. È dunque evidente che quest’ultima non si riduce all’aggressione improvvisa, imprevista, di un popolo vicino, ma designa piuttosto il sistema generale che rende tale accadimento inevitabile, in altre parole il gioco dei rapporti di forza al quale nessuno stato può sottrarsi. Alla necessitas, intesa come stato d’emergenza da giuristi e teologi medievali, Machiavelli sostituisce una necessità intesa come stato di guerra permanente.
Il concetto di fortuna permette altresì di prendere le distanze da un’idea di natura normativa, teleologica, ordinata verso il bene: ma non per proclamare il regno della pura contingenza. C’è una logica del disordine. L’universale variabilità delle istituzioni umane è l’effetto superficiale di un nuovo elemento naturale invariabile: il conflitto permanente dei desideri. «La natura ha creato gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa e non possono conseguire ogni cosa: talché essendo sempre maggiore il desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala contentezza di quello che si possiede, e la poca sodisfazione d’esso. Da questo nasce il variare della fortuna loro, perché disiderando gli uomini, parte di avere più, parte temendo di non perdere lo acquistato, si viene alle inimicizie e alla guerra, dalla quale nasce la rovina di quella provincia e la esaltazione di quell’altra» (Discorsi I, 37). Poco prima Machiavelli aveva scritto: «qualunque volta è tolto agli uomini il combattere per necessità, combattono per ambizione». Questo passo non fa apparire, accanto alla necessità, un’altra causa di guerra, l’ambizione, come se l’una prendesse il luogo dell’altra: Machiavelli mostra che al di sotto della necessità fattuale opera una necessità costante, sostenuta dal desiderio dell’uomo. È l’impossibilità di soddisfarlo che fa ruotare su sé stesso, senza tregua, il circolo della guerra inesauribile.
Si comprende allora perché la frase citata dal capitolo XV del Principe sia immediatamente preceduta da una considerazione, che ne costituisce l’argomento, sul pericolo di comportarsi come persona dabbene «in fra tanti che non sono buoni». Un tema frequentemente ribadito: «è necessario a chi dispone una republica e ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei» (Discorsi I, 3). Fichte considerava questo presupposto come «il principio fondamentale della politica machiavelliana». È a partire da esso, in effetti, che Machiavelli ha potuto dissociare la necessitas dal quadro giuridico-morale della ‘giusta causa’ e farne un principio di azione permanente.