Capitolo VII

DE PRINCIPATIBUS NOVIS QUI ALIENIS
ARMIS ET FORTUNA ACQUIRUNTUR
1

[1] Coloro e’ quali solamente per fortuna diventano di privati principi, con poca fatica diventono, ma con assai si mantengono; e non hanno alcuna difficultà fra via, perché vi volano: ma tutte le difficultà nascono quando e’ sono posti.2 E questi tali sono quando è concesso ad alcuno uno stato o per danari o per grazia di chi lo concede: come intervenne a molti in Grecia nelle città di Ionia e di Ellesponto, dove furno fatti principi da Dario, acciò le tenessino per sua sicurtà e gloria; come erano fatti ancora quelli imperadori che di privati, per corruzione de’ soldati, pervenivano allo imperio. Questi stanno semplicemente in su la volontà e fortuna di chi lo ha concesso loro, che sono dua cose volubilissime e instabili, e non sanno e non possono tenere quello grado: non sanno, perché s’e’ non è uomo di grande ingegno e virtù, non è ragionevole che, sendo vissuto sempre in privata fortuna, sappia comandare; non possono, perché non hanno forze che gli possino essere amiche e fedeli.3 Di poi gli stati che vengono subito, come tutte l’altre cose della natura che nascono e crescono presto, non possono avere le barbe e correspondenzie loro in modo che il primo tempo avverso non le spenga4 – se già quelli tali, come è detto, che sì derepente sono diventati principi, non sono di tanta virtù che quello che la fortuna ha messo loro in grembo e’ sappino subito prepararsi a conservarlo, e quelli fondamenti, che gli altri hanno fatti avanti che diventino principi, gli faccino poi.

[2] Io voglio all’uno e l’altro di questi modi detti, circa il diventare principe per virtù o per fortuna, addurre dua esempli stati ne’ dì della memoria nostra: e questi sono Francesco Sforza e Cesare Borgia.5 Francesco, per li debiti mezzi e con una grande sua virtù, di privato diventò duca di Milano; e quello che con mille affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne.6

[3] Da l’altra parte, Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna del padre e con quella lo perdé, non ostante che per lui si usassi ogni opera e facessi tutte quelle cose che per uno prudente e virtuoso uomo si doveva fare per mettere le barbe sua in quelli stati che l’arme e fortuna di altri gli aveva concessi. Perché, come di sopra si disse, chi non fa e’ fondamenti prima, gli potrebbe con una grande virtù farli poi, ancora che si faccino con disagio dello architettore e periculo dello edifizio. Se adunque si considerrà tutti e’ progressi del duca, si vedrà lui aversi fatti grandi fondamenti alla futura potenza; e’ quali non iudico superfluo discorrere perché io non saprei quali precetti mi dare migliori, a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sue: e se gli ordini sua non gli profittorno, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna.7

[4] Aveva Alessandro VI, nel volere fare grande il duca suo figliuolo, assai difficultà presenti e future. Prima, e’ non vedeva via di poterlo fare signore di alcuno stato che non fussi stato di Chiesa: e, volgendosi a tòrre quello della Chiesa, sapeva che il duca di Milano e e’ Viniziani non gliene consentirebbono, perché Faenza e Rimino erano di già sotto la protezione de’ Viniziani. Vedeva oltre a questo l’arme di Italia, e quelle in spezie di chi si fussi potuto servire, essere nelle mani di coloro che dovevano temere la grandezza del papa – e però non se ne poteva fidare – sendo tutte nelli Orsini e Colonnesi e loro complici.8 Era adunque necessario si turbassino quelli ordini e disordinare gli stati di Italia,9 per potersi insignorire sicuramente di parte di quelli. Il che gli fu facile, perché e’ trovò e’ Viniziani che, mossi da altre cagioni, si erano volti a fare ripassare e’ Franzesi in Italia: il che non solamente non contradisse, ma lo fe’ più facile con la resoluzione del matrimonio antico del re Luigi.10

[5] Passò adunque il re in Italia con lo aiuto de’ Viniziani e consenso di Alessandro: né prima fu in Milano che il papa ebbe da lui gente per la impresa di Romagna, la quale gli fu acconsentita per la reputazione del re.11 Acquistata adunque il duca la Romagna e sbattuti e’ Colonnesi,12 volendo mantenere quella e procedere più avanti, lo impedivano dua cose: l’una, le arme sua che non gli parevano fedeli; l’altra, la volontà di Francia; cioè che l’arme Orsine, delle quali si era valuto, gli mancassino sotto, e non solamente gl’impedissino lo acquistare ma gli togliessino lo acquistato, e che il re ancora non li facessi il simile. Delli Orsini ne ebbe uno riscontro quando, dopo la espugnazione di Faenza, assaltò Bologna, che gli vidde andare freddi in quello assalto; e circa il re conobbe lo animo suo quando, preso el ducato d’Urbino assaltò la Toscana: da la quale impresa il re lo fece desistere.13

[6] Onde che il duca deliberò di non dependere più da le arme e fortuna d’altri;14 e, la prima cosa, indebolì le parte Orsine e Colonnese in Roma: perché tutti gli aderenti loro, che fussino gentili uomini, se gli guadagnò, faccendoli suoi gentili uomini e dando loro grandi provisioni, e onorògli, secondo le loro qualità, di condotte e di governi: in modo che in pochi mesi negli animi loro l’affezione delle parti si spense e tutta si volse nel duca.15 Dopo questo, aspettò la occasione di spegnere e’ capi Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna: la quale gli venne bene, e lui la usò meglio. Perché, avvedutosi gli Orsini tardi che la grandezza del duca e della Chiesa era la loro ruina feciono una dieta alla Magione nel Perugino; da quella nacque la ribellione di Urbino, e’ tumulti di Romagna e infiniti periculi del duca, e’ quali tutti superò con l’aiuto de’ Franzesi.16 E ritornatoli la reputazione, né si fidando di Francia né di altre forze esterne, per non le avere a cimentare si volse alli inganni; e seppe tanto dissimulare l’animo suo che li Orsini, mediante il signore Paulo, si riconciliorno seco – con il quale il duca non mancò d’ogni ragione di offizio per assicurarlo, dandoli danari veste e cavalli – tanto che la simplicità loro gli condusse a Sinigaglia nelle sua mani.17

[7] Spenti18 adunque questi capi e ridotti e’ partigiani loro sua amici, aveva il duca gittati assai buoni fondamenti alla potenza sua, avendo tutta la Romagna col ducato di Urbino, parendoli massime aversi acquistata amica la Romagna e guadagnatosi quelli populi per avere cominciato a gustare il bene essere loro.19 E perché questa parte è degna di notizia e da essere da altri imitata,20 non la voglio lasciare indreto. Presa che ebbe il duca la Romagna e trovandola suta21 comandata da signori impotenti – e’ quali più presto avevano spogliati e’ loro sudditi che corretti,22 e dato loro materia di disunione, non d’unione –23 tanto che quella provincia era tutta piena di latrocini, di brighe e d’ogni altra ragione di insolenzia,24 iudicò fussi necessario, a volerla ridurre pacifica e ubbidiente al braccio regio, dargli buono governo: e però vi prepose messer Rimirro de Orco, uomo crudele ed espedito, al quale dette plenissima potestà.25 Costui in poco tempo la ridusse pacifica e unita, con grandissima reputazione. Di poi iudicò il duca non essere necessaria sì eccessiva autorità perché dubitava non divenissi odiosa, e preposevi uno iudizio civile nel mezzo della provincia, con uno presidente eccellentissimo, dove ogni città vi aveva lo avvocato suo.26 E perché conosceva le rigorosità passate avergli generato qualche odio, per purgare li animi di quelli populi e guadagnarseli in tutto, volse mostrare che, se crudeltà alcuna era seguita, non era causata da lui ma da la acerba natura del ministro. E presa sopra a questo occasione, lo fece, a Cesena, una mattina mettere in dua pezzi in su la piazza, con uno pezzo di legne e uno coltello sanguinoso accanto: la ferocità del quale spettaculo fece quegli popoli in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi.27

[8] Ma torniamo donde noi partimmo.28 Dico che, trovandosi il duca assai potente e in parte assicurato de’ presenti periculi, per essersi armato a suo modo29 e avere in buona parte spente quelle arme che, vicine, lo potevano offendere, gli restava, volendo procedere collo acquisto, el respetto del re di Francia: perché conosceva come dal re, il quale tardi s’era accorto dello errore suo,30 non gli sarebbe sopportato.31 E cominciò per questo a cercare di amicizie nuove e vacillare con Francia, nella venuta che e’ Franzesi feciono verso el regno di Napoli contro alli Spagnuoli che assediavano Gaeta; e lo animo suo era assicurarsi di loro: il che gli sarebbe presto riuscito, se Alessandro viveva.32

[9] E questi furno e’ governi sua, quanto alle cose presenti. Ma quanto alle future, lui aveva a dubitare in prima che uno nuovo successore alla Chiesa non gli fussi amico e cercassi torgli quello che Alessandro li aveva dato.33 Di che pensò assicurarsi e pensò farlo in quattro modi:34 prima, di spegnere tutti e’ sangui di quelli signori che lui aveva spogliati, per tòrre al papa quella occasione; secondo, di guadagnarsi tutti e’ gentili uomini di Roma, come è detto, per potere con quelli tenere il papa in freno; terzo, ridurre il Collegio più suo che poteva; quarto, acquistare tanto imperio, avanti che il papa morissi, che potessi per sé medesimo resistere a uno primo impeto.35 Di queste quattro cose, alla morte di Alessandro ne aveva condotte tre, la quarta aveva quasi per condotta: perché de’ signori spogliati ne ammazzò quanti ne possé aggiugnere e pochissimi si salvorno, e’ gentili uomini romani si aveva guadagnati, e nel Collegio aveva grandissima parte; e quanto al nuovo acquisto, aveva disegnato diventare signore di Toscana e possedeva di già Perugia e Piombino, e di Pisa aveva presa la protezione.36 E come e’ non avessi avuto ad avere respetto a Francia – che non gliene aveva ad avere più, per essere di già e’ Franzesi spogliati del Regno da li Spagnuoli: di qualità che ciascuno di loro era necessitato comperare l’amicizia sua – e’ saltava in Pisa.37 Dopo questo, Lucca e Siena cedeva subito, parte per invidia de’ Fiorentini, parte per paura; e’ Fiorentini non avevano rimedio. Il che se gli fussi riuscito – che gli riusciva l’anno medesimo che Alessandro morì – si acquistava tante forze e tanta reputazione che per sé stesso si sarebbe retto e non sarebbe più dependuto da la fortuna e forze di altri, ma da la potenza e virtù sua.38

[10] Ma Alessandro morì dopo cinque anni che egli aveva cominciato a trarre fuora la spada:39 lasciollo con lo stato di Romagna solamente assolidato, con tutti li altri in aria, in fra dua potentissimi eserciti inimici e malato a morte. Ed era nel duca tanta ferocità e tanta virtù, e sì bene conosceva come li uomini si hanno a guadagnare o perdere, e tanto erano validi e’ fondamenti che in sì poco tempo si aveva fatti, che s’e’ non avessi avuto quelli eserciti addosso, o lui fussi stato sano, arebbe retto a ogni difficultà.40

[11] E che e’ fondamenti sua fussino buoni, si vidde: che la Romagna lo aspettò più d’uno mese; in Roma, ancora che mezzo vivo, stette sicuro, e, benché Baglioni, Vitelli e Orsini venissino in Roma, non ebbono séguito contro di lui; possé fare, se non chi e’ volle, papa, almeno ch’e’ non fussi chi e’ non voleva.41 Ma se nella morte di Alessandro fussi stato sano, ogni cosa gli era facile: e lui mi disse,42 ne’ dì che fu creato Iulio II, che aveva pensato a ciò che potessi nascere morendo el padre, e a tutto aveva trovato remedio, eccetto ch’e’ non pensò mai, in su la sua morte, di stare ancora lui per morire.

[12] Raccolte io adunque tutte le azioni del duca, non saprei riprenderlo: anzi mi pare, come io ho fatto, di preporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con le arme di altri sono ascesi allo imperio; perché lui, avendo l’animo grande e la sua intenzione alta,43 non si poteva governare altrimenti, e solo si oppose alli sua disegni la brevità della vita di Alessandro e la sua malattia. Chi adunque iudica necessario nel suo principato nuovo assicurarsi delli inimici, guadagnarsi delli amici; vincere o per forza o per fraude; farsi amare e temere da’ populi, seguire e reverire da’ soldati; spegnere quelli che ti possono o debbono offendere; innovare con nuovi modi gli ordini antiqui; essere severo e grato, magnanimo e liberale; spegnere la milizia infedele, creare della nuova; mantenere l’amicizie de’ re e de’ principi in modo ch’e’ ti abbino a benificare con grazia o offendere con respetto; non può trovare e’ più freschi esempli che le azioni di costui.44

[13] Solamente si può accusarlo nella creazione di Iulio pontefice, nella quale il duca ebbe mala elezione.45 Perché, come è detto, non potendo fare uno papa a suo modo, poteva tenere che uno non fussi papa;46 e non doveva mai consentire al papato di quelli cardinali che lui avessi offesi o che, divenuti papa, avessino ad aver paura di lui: perché gli uomini offendono o per paura o per odio. Quelli che lui aveva offeso erano, in fra li altri, San Piero ad Vincula, Colonna, San Giorgio, Ascanio; tutti li altri avevano, divenuti papi, a temerlo, eccetto Roano e gli Spagnuoli: questi per coniunzione e obligo, quello per potenza, avendo coniunto seco el regno di Francia. Pertanto el duca innanzi a ogni cosa doveva creare papa uno Spagnuolo: e, non potendo, doveva consentire a Roano, non a San Piero ad Vincula. E chi crede che ne’ personaggi grandi e’ benifizi nuovi faccino sdimenticare le iniurie vecchie, s’inganna.47 Errò adunque el duca in questa elezione, e fu cagione dell’ultima ruina sua.

1 I principati nuovi che si acquistano per mezzo di armi altrui e della fortuna.

2 «vi volano»: al principato. L’incipit del capitolo riprende la chiusa del cap. VI, cfr. ivi n. 23. Le «difficultà» del principe giunto al trono per «fortuna» cominciano quando egli vi è «posto». L’impiego del verbo porre implica che tale principe quasi non ha avuto ruolo alcuno nel pervenire al grado che occupa, e il pensiero si articolerà subito dopo con l’esempio di coloro che sono «posti» sul trono dal volere e dall’influenza di altri. Diversamente Martelli 2006, che intende «sono posti» come di uccelli che, dopo il volo, si sono posati su un ramo.

3 Gli esempi antichi di coloro che per fortuna o per volontà e potenza altrui pervengono al principato riguardano i tiranni messi da Dario a capo delle città ioniche, soggette al Gran Re ma con una parvenza di autogoverno (numerosi casi figurano nelle Storie di Erodoto, in particolare nei libri III e IV), o gli imperatori romani posti in carica da milizie o pretoriani corrotti («per corruzione de’ soldati»: il fenomeno è ricordato da Tacito e Svetonio e godrà di trattazione particolare nel cap. XIX). L’instabilità di tali domini dipende dalla volubilità della fortuna o della volontà di coloro che hanno determinato le condizioni per l’ascesa. Per contrastare tale volubilità, quel principe, che è «volato» fino al posto che occupa, sarà privo sia di «grande ingegno e virtù» (proprie invece dei sovrani esemplati nel cap. precedente), sia di «forze» (eserciti e più in generale mezzi) proprie, essendosi fin a quel punto giovato di «forze» altrui, cioè delle truppe e dei mezzi di coloro che li hanno «posti» sul trono.

4 Quando il potere su un nuovo stato giunge rapido e improvviso, esso è privo di adeguate radici («barbe») e sostegni («correspondenzie»), e così il primo conflitto o rovescio di fortuna («tempo avverso») rischia di abbatterlo, come accade in natura a tutte le cose (evidentemente si pensa al mondo vegetale) che «nascono e crescono presto» (ossia che si sviluppano troppo rapidamente). La soluzione, dirà subito dopo Machiavelli, risiede nel valore («virtù») del principe, che sappia allestire, quando è giunto al trono, quegli apparati che di solito si debbono preparare nelle fasi di conquista del principato. – Tutto l’esordio è animato da un concetto tipico della storiografia classica di impianto tucidideo, ossia l’idea che i grandi accadimenti storici siano tali anche perché particolarmente grandi e significativi sono gli ‘apparati’ (militari, economici, politici, etc.) allestiti dai diversi contendenti in campo (cfr. cap. IX, n. 26 e cap. XVII, n. 15). – «derepente»: voce latina che indica una deviazione improvvisa e inconsueta dall’ordine naturale delle cose.

5 Nell’ed. nazionale del 2006, Mario Martelli ha segnalato come l’introduzione dell’esempio di Francesco Sforza (evidentemente principe per virtù propria, contrapposto al Valentino, sul quale l’autore si soffermerà più a lungo nel corso del cap. VII) sia contraddittoria con quanto Machiavelli aveva affermato nella chiusa del precedente cap. VI a proposito di Ierone di Siracusa, ossia che l’esempio di Ierone «voglio mi basti per tutti gli altri simili». Tuttavia, come abbiamo sostenuto nella n. 24 al cap. VI, Ierone occupa lì un duplice ruolo, di «principe per virtù» e di «profeta armato», e completa il discorso relativo ai principi che introducono «ordini nuovi» (esemplato da Mosè, Ciro, Teseo e Romolo). Nel contesto del nuovo capitolo, che deve per necessità logiche e argomentative procedere per via oppositiva rispetto al capitolo precedente, l’esempio di Francesco Sforza è necessario come richiamo attualizzante, al tempo presente, da contrapporre a Cesare Borgia: altrimenti nel tessuto dei due capitoli l’unica figura contemporanea sarebbe stata quella del «profeta disarmato» Savonarola.

6 Francesco Sforza (1401-66) sposò Bianca Maria Visconti, figlia del duca Filippo Maria. Alla morte del duca la neonata repubblica ambrosiana affidò allo Sforza il comando delle milizie per la guerra contro Venezia, ma Francesco ne approfittò per insignorirsi di Milano. (cfr. cap. I, n. 2)

7 Comincia così la vera e propria ‘epopea’ del Valentino. Cesare Borgia (1475-1507) fu insignito da Luigi XII di Francia del ducato di Valentinois (donde il soprannome). Figlio di Rodrigo Borgia (papa Alessandro VI) fu nominato gonfaloniere della Chiesa (comandante generale della milizia pontificia). Cesare acquistò lo stato in virtù della posizione del padre, e con la morte di quello perse ogni dominio, nonostante avesse tenuto un comportamento esemplare. Machiavelli avvia così il tema dell’‘esemplarità’ del Valentino, che sarà richiamato al termine del capitolo, quando l’autore formulerà il giudizio di sintesi sull’operato di quel principe per «preporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con le arme di altri sono ascesi allo imperio». – «gli potrebbe con una grande virtù farli poi»: iterazione frequente in Machiavelli. – «Non saprei quali precetti mi dare migliori»: forma mediale ‘non saprei quali migliori precetti possano essere dati da parte mia’. Si noti che l’esemplarità del Valentino è solo un ‘caso particolare’ della più generale e classicistica esemplarità della storia, sul piano della precettistica politica, che è appunto il piano sul quale Machiavelli opera, come si è detto supra nelle nn. 5-6 alla Dedicatoria. La metafora naturalistica delle «barbe» (radici) viene ripresa e combinata con la metafora edificatoria (che Machiavelli aveva già impiegato nella conclusione del cap. II): le fondamenta non costruite a tempo debito possono ben costruirsi in seguito alla conquista, ma occorre una eccezionale «virtù» del principe, e comunque tale impegno espone il sovrano a grave disagio e mette in pericolo lo stato. – Prima di avviare il ragguaglio storico sulle gesta del Valentino, Machiavelli anticipa che una «estraordinaria [non altrimenti prevedibile] ed estrema [gravissima] malignità di fortuna» rese vani «gli ordini sua», ossia gli ordinamenti politici e militari predisposti dal duca.

8 Alessandro VI intendeva assicurare al figlio un dominio autonomo, sottraendolo dai territori della Chiesa: ma Faenza e Rimini erano sotto il protettorato dei Veneziani, ‘che non glielo avrebbero consentito’, e anche il duca di Milano (Ludovico Sforza, figlio minore del Francesco di cui si è parlato poco sopra) si sarebbe opposto a tali mire (per ragioni che Machiavelli non spiega, in quanto legate a notissimi vincoli di parentela con Caterina Sforza di Forlì e Giovanni Sforza di Pesaro). – però: «per hoc», perciò. La prima difficoltà di Alessandro consiste nel non godere di milizie proprie, essendo quelle disponibili nelle mani di coloro che dovevano temere l’accrescersi del potere dei Borgia, e segnatamente le potenti famiglie romane e cardinalizie degli Orsini e dei Colonna, con i loro fautori.

9 Era necessario che si perturbassero («turbassino») gli equilibri politici esistenti e, per conseguenza, era necessario gettare nel disordine civile («disordinare») gli stati d’Italia, al fine di potersi impossessare con sicurezza di una parte di quelli della Chiesa.

10 «fare ripassare»: i Francesi vi erano già ‘passati’ una prima volta, con Carlo VIII, nel 1494. Alessandro VI si assicurò l’alleanza di Luigi XII di Francia anche sciogliendo il matrimonio del re con Jeanne, sorella di Carlo VIII, affinché Luigi potesse poi sposare Anna di Bretagna (vedova dello stesso Carlo). Cfr. cap. III, n. 36.

11 Con altra ottica, puntata ora sulle imprese di Cesare Borgia, Machiavelli ritorna al ragguaglio offerto nel cap. III intorno agli ‘errori’ di Luigi XII. Si tratta di vicende vissute in prima persona dal Segretario fiorentino, che ebbe modo di scrivere come alla corte di Francia si ritenesse che l’unico sovrano italiano degno di attenzione politica fosse il pontefice (cfr. la lettera machiavelliana ai Dieci del 25 ottobre 1500, ricordata da Inglese 1995, p. 23).

12 Tra il 1499 e il 1501, il Valentino prese Imola, Forlì, Cesena, Rimini, Pesaro e Faenza; e assunse il titolo di duca di Romagna. Il 24 luglio 1501 le truppe francesi (fra le quali militava Cesare Borgia come luogotenente del re) sbaragliavano a Capua Federico d’Aragona e le truppe dei Colonna sue alleate, e catturavano Fabrizio Colonna.

13 A ostacolare ulteriori mire espansionistiche è l’indisponibilità di eserciti propri: fino a quel momento Cesare si era valso di truppe comandate da Paolo Orsini e quegli eserciti si mostrarono scarsamente interessati all’assalto di Bologna nell’aprile 1500. La conquista di Bologna fu comunque espressamente vietata da Luigi XII, come poco dopo l’occupazione del territorio di Firenze, tradizionale alleata della Francia. Invece nell’estate del 1502 il Valentino prese il ducato di Urbino fino ad allora tenuto da Guidubaldo da Montefeltro.

14 L’epopea del Valentino, avviata come esempio di un principe sostenuto da fortuna e armi altrui, si trasforma nell’analisi di come un principe nuovo debba agire per «non dependere» da simili incerti sostegni esterni.

15 Il primo passo è assicurarsi la fedeltà di un certo numero di «gentili uomini», ossia clienti che sottrae al servizio dei Colonna o degli Orsini, per legarli a sé con ricchi stipendi, onorificenze, comandi militari o cariche amministrative.

16 Dopo aver indebolito i Colonna (v. supra, n. 12), Cesare cercò il modo di abbattere i capi della fazione legata agli Orsini e ne ebbe occasione dopo la «dieta» (adunanza) di Magione, nel territorio di Perugia, durante l’autunno del 1502. In quell’occasione gli Orsini con Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo e altri si schierarono contro il Valentino. Ne seguì la ribellione di Urbino e di una parte dei possedimenti del Borgia in Romagna. In quelle settimane Machiavelli era in legazione presso il Duca (la seconda ambasceria al Valentino: cfr. il volume II delle Legazioni. Commissarie. Scritti di governo, nell’ed. nazionale). Ma quegli episodi produssero anche la stesura della Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini, un opuscolo che non a caso, insieme con la Vita di Castruccio Castracani, fu unito al Principe in occasione dell’editio princeps procurata da Antonio Blado il 4 gennaio 1532 con dedica a Filippo Strozzi.

17 È esattamente il contenuto (e la correlativa analisi politica) del Modo tenuto dal duca Valentino: Machiavelli si sofferma sulla «simplicità», ossia sulla folle ingenuità con la quale i congiurati della Magione si consegnarono a Senigallia nelle mani del proprio carnefice.

18 Se l’uso del verbo «spegnere», fin dal cap. III, indica l’eliminazione fisica del proprio avversario politico, come conseguenza naturale delle scelte necessarie compiute dal nuovo principe per consolidare lo stato, in questa occasione il participio «spenti» chiude come esito necessitato (e dunque sul quale non occorre dilungarsi) la vicenda di Oliverotto e Vitellozzo (strangolati subito dopo la cattura) e di Paolo e Francesco Orsini (strangolati il successivo 18 gennaio).

19 L’insistenza sulla «Romagna» è particolarmente significativa: non solo Cesare se ne assicurò il completo dominio, ma se ne guadagnò l’amicizia dei popoli, che apprezzarono le condizioni di benessere prodotte dal nuovo principe. L’iterazione «avendo tutta la Romagna […] acquistata amica la Romagna» prepara la vicenda di Ramiro de Lorqua.

20 Torna il motivo dell’esemplarità di Cesare Borgia. Vedi supra n. 7.

21 «trovandola suta»: accorgendosi che era stata.

22 «più presto avevano spogliati che corretti»: li avevano piuttosto derubati che non irreggimentati a obbedire alle leggi e a essere fedeli sudditi.

23 «materia di disunione, non d’unione»: favorito il disordine civile piuttosto che la concordia fra le parti sociali.

24 «ragione di insolenzia»: comportamenti che danno adito a continue violazioni della legge.

25 Ramiro de Lorqua, potente ‘maggiordomo’ e ministro plenipotenziario del Valentino, fu con il duca in Francia nel 1498 e nel 1501 venne preposto al governo della Romagna, durante il quale dette prova di essere «crudele ed espedito», ossia senza scrupoli e capace di agire senza ombra di incertezza. Già in una lettera ai Dieci del 23 dicembre 1502 (Legazioni…, vol. II), Machiavelli addita il comportamento del Valentino come esemplare, allorché si disfece del crudele ministro, dando al contempo soddisfazione ai popoli assoggettati: Ramiro finì infatti squartato sulla piazza di Cesena. L’episodio verrà richiamato da Machiavelli in una nota lettera a Francesco Vettori del 31 gennaio 1515, qui discussa nell’Introduzione, p. 17 (cfr. Inglese 1995, p. 46, Martelli 2006, pp. 29-30 e Ruggiero 2006, pp. 691-692).

26 Il Valentino decise di governare la regione attraverso un tribunale amministrativo (la Rota), presieduto da un giurista di fama (Antonio Ciocchi da Monte Sansavino), e presso tale tribunale ogni cittadina era rappresentata da un proprio uditore giudiziario. Precisa Inglese nel commento che tale tribunale, istituito nell’ottobre 1502, si riunì per la prima volta solo sei mesi dopo la caduta di Ramiro, e in effetti la costruzione cronologica del dettato è singolare e ricerca un effetto di concisione che faccia risaltare anche nessi causali impliciti: prima si dice del governo affidato a Ramiro, per ridurre la provincia «pacifica e unita», poi si salta direttamente a descrivere la forma di amministrazione scelta dopo la rimozione di Ramiro (ma in verità prevista già quando Ramiro era in carica); infine si descrive la sanguinosa fine del ministro plenipotenziario. – «Dubitava non divenissi odiosa»: segue la costruzione dei verba timendi latini; ‘dubitava che fosse divenuta odiosa’.

27 La scena si tinge di macabro: Machiavelli ne aveva dato ragguaglio ai Dieci nella lettera del 26 dicembre 1502. Il corpo di Ramiro fu «trovato in dua pezzi» (vale a dire che l’esecuzione non fu pubblica). Nel Principe l’autore aggiunge i dettagli del coltello insanguinato (una mannaia, come vedono Inglese e Rinaldi) e del legno (ceppi?) per sottolineare la ferocia dello «spettaculo» e le sue conseguenze: i popoli di Romagna rimasero per un verso soddisfatti dall’essersi liberati di un così vessatorio governatore, per altro verso stupefatti dalla spregiudicatezza del Valentino.

28 L’autore chiude la digressione relativa a Ramiro, che aveva costruito e consapevolmente avviato con le parole «questa parte non la voglio lasciare indreto».

29 Dopo la soluzione del conflitto con gli Orsini e con i traditori della dieta di Magione, il Valentino si impegnò per procurarsi milizie proprie. Machiavelli, sempre e da sempre attento a questi aspetti, ne farà dettagliato resoconto ai Dieci nelle proprie missive. Spicca naturalmente fra i condottieri al servizio del duca il famoso ‘don Micheletto’, Miguel de Corella, che Machiavelli volle nel 1506 al comando della sua Ordinanza fiorentina (cfr. Bausi 2005, p. 54 e bibliografia ivi discussa, in specie Carlo Dionisotti, Machiavelli, Cesare Borgia e don Micheletto, in Id., Machiavellerie, pp. 3-59 [già «Rivista storica italiana», 79, 1967, pp. 960-975]; Gennaro Sasso, Machiavelli, Cesare Borgia, don Micheletto e la questione della milizia, in Id., Machiavelli e gli antichi, cit., vol. II, 1988, pp. 57-117 [saggio aggiornato rispetto alla «Cultura» del 1969]; per i risvolti politici Masiello 19972, pp. 125-168).

30 Cfr. cap. III, nn. 29-30.

31 «non gli sarebbe sopportato»: non lo avrebbe tollerato.

32 Quando nell’estate del 1503 i Francesi mossero contro gli Spagnoli che assediavano Gaeta, papa Alessandro VI (che già aveva avviato trattative con gli Spagnoli) e Cesare Borgia progettavano di non sostenere le truppe francesi, anzi di cacciarle dall’Italia e di impadronirsi (questa volta con l’aiuto degli Spagnoli) della Toscana e del ducato di Milano. Ma il 18 agosto Alessandro VI morì improvvisamente.

33 Esaminati i comportamenti del Valentino «quanto alle cose presenti», cioè nell’assicurarsi il dominio di quei territori acquisiti con l’aiuto del papa, Machiavelli passa «alle future», cioè ai preparativi compiuti dal duca per resistere all’eventuale inimicizia di un successore di Alessandro VI.

34 Accogliamo nel testo l’intelligente congettura correttiva del Martelli che mette insieme la lezione «Di che pensò farlo» (testimoniata nel Monacense e nel Gothano), con la lezione «E pensò farlo» (testimoniata nel ramo y): potremmo ben essere di fronte a una diffrazione rispetto al dettato d’autore.

35 Le quattro strategie messe in atto da Cesare: eliminare («spegnere») interamente le famiglie di quei signori romani da lui «spogliati»; farsi amici il maggior numero di nobili della curia pontificia, «come è detto», cioè come sopra si era detto fece per isolare i Colonna e gli Orsini (supra n. 15); assicurarsi il maggior numero di voti a proprio favore nel Collegio cardinalizio, per poter determinare le sorti del conclave; infine lo strumento più ovvio (ma anche il più impegnativo): divenire così potente «per sé medesimo» (a prescindere dall’appoggio della Chiesa) da poter almeno resistere a un «primo impeto».

36 Cesare aveva condotto a termine tre delle strategie difensive, e si accingeva a concludere anche la quarta: aveva ucciso tutti gli avversari che era riuscito a raggiungere (enfatico l’inciso machiavelliano «pochissimi si salvorno»); aveva tratto dalla propria parte un consistente gruppo di nobili della Curia; poteva contare (almeno in parte) sul voto degli undici cardinali spagnoli del Collegio (undici su trentotto, precisa Guicciardini nella Storia d’Italia VI, 5: e Guicciardini non manca di sottolineare come quei cardinali fossero come sempre piuttosto attenti all’utile proprio che a quello di Cesare). Delle mire sulla Toscana da parte dei Borgia (padre e figlio) si è detto; la vicenda del protettorato di Pisa durò dal dicembre 1501 all’estate 1503 e fu seguita da vicino da Machiavelli (sul rapporto Pisa-Firenze cfr. cap. V, n. 7).

37 Il conflitto franco-spagnolo per il Regno di Napoli si era concluso con la sconfitta dei Francesi: ma la situazione era tale che entrambi i contendenti avevano bisogno dell’appoggio di Cesare, il quale aveva così mano libera per insignorirsi di Pisa, come fece nell’agosto del 1503. – «avessi avuto ad avere … non gliene aveva ad avere»: per avere in luogo di dovere cfr. anche Mandragola IV, 2 (battuta 24).

38 «saltava in Pisa … Siena cedeva … Fiorentini non avevano … si acquistava»: da intendersi tutti come condizionali passati (avrebbe assalito, avrebbe ceduto, non avrebbero avuto, avrebbe conquistato). Per Siena, cfr. cap. XX, n. 24.

39 Cesare era divenuto gonfaloniere della Chiesa nel 1498 e Alessandro morì nel 1503.

40 Il solo dominio sulla Romagna era consolidato: ma se Cesare non fosse stato malato, o non avesse dovuto difendersi sia dall’esercito francese che da quello spagnolo, avrebbe resistito a quelle difficoltà.

41 L’analisi sui «buoni fondamenti» è ancora un po’ enfatica: le roccaforti della Romagna cominciarono, in verità lentamente, a cadere dopo la morte di Alessandro; Cesare fu parzialmente al sicuro in Roma, dapprima per essersi riconciliato con i Colonna (mettendosi così al sicuro dagli Orsini), quindi per aver ottenuto appoggio dal cardinale Della Rovere, del quale poi sostenne l’elezione al soglio pontificio, errore – questo ultimo – di cui si dirà al termine del capitolo. Dai «buoni fondamenti» Machiavelli aveva preso le mosse all’inizio del capitolo (cfr. supra nn. 4 e 7).

42 In occasione della missione diplomatica di Machiavelli a Roma, per seguire il conclave, ovvero l’anno prima a Imola, in occasione di un colloquio con un dignitario del duca (cfr. Inglese 1995, p. 51).

43 «animo grande e […] intenzione alta»: magnanimità e ambizione sono i tratti distintivi di questo ritratto.

44 L’esemplarità delle gesta del Valentino svolge anche una funzione essenziale nell’economia tematica dell’opuscolo: Machiavelli nella lettera al Vettori del 10 dicembre 1513 offre un riassunto dell’operetta coincidente, in sostanza, con il contenuto dei primi 11 capitoli: «disputando che cosa è principato, di quale spetie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono»; analoga sintesi oggettiva è contenuta nel cap. I. Ma qui, giunti alla drammatica cronaca della vicenda di Cesare Borgia, l’autore impianta le radici di tutta la seconda parte del trattatello: rendere inoffensivi i nemici e procurarsi alleati fidati, vincere con la forza o l’astuzia, procurarsi congiuntamente amore e rispetto dei popoli, fedeltà delle milizie, eliminare con spregiudicatezza i possibili avversari, porre le basi di un nuovo e solido assetto istituzionale, mostrarsi rigoroso e generoso, magnanimo e munifico, eliminare le truppe infedeli e ottenerne di nuove, mantenere i rapporti di alleanza da una posizione di vantaggio. Sono questi i temi dei capp. XII-XIV (relativi alle milizie) e XV-XXIV (relativi alle qualità soggettive del principe). Per il «respetto» di coloro che potrebbero «offendere» cfr. cap. III n. 13 e cap. X n. 8.

45 Il problema interpretativo sollevato da Martelli rispetto a questo «errore» del Valentino non è di poco conto: il principe scelto da Machiavelli come modello da proporsi sempre imitabile commise un errore certo non secondario, errò nel determinare la scelta di un papa. Lo studioso ritiene che a una ipotetica seconda redazione del trattato appartenga per intero il ragguaglio sulle attività di Cesare Borgia. Tale accrescimento avrebbe comportato due effetti, la scissione in due dei capp. VI-VII (pensati originariamente come un unico capitolo e ora separati, data l’ampiezza ormai eccessiva raggiunta dalla materia) e la stridente contraddizione fra la celebrazione del Valentino («non saprei riprenderlo […] solo si oppose alli sua disegni la brevità della vita di Alessandro e la malattia sua») e la denunzia dell’errore («solamente si può accusarlo nella creazione di Iulio […]. Errò dunque el duca in questa elezione»). Si tratta di un problema messo in luce anche da Inglese, e già discusso da Martelli nel Saggio 1999. La questione, sul piano dell’indagine storica, resta naturalmente aperta. Si vorrebbe solo soggiungere qualcosa circa le due soluzioni additate da Martelli: tardivo inserimento della porzione finale del cap. VII, con la segnalazione dell’‘errore’ di Cesare Borgia (così nel Saggio, pp. 143-148) ovvero originaria stesura priva del ragguaglio sulle gesta del Valentino (così nell’edizione nazionale, pp. 450-451). L’abolizione della lunga digressione storica rende però più stridente la contraddizione fra i giudizi (divenuti ora adiacenti): «nonostante che per lui si usassi ogni opera e facessi tutte quelle cose che per uno prudente e virtuoso uomo si doveva fare» e «solamente si può accusarlo nella creazione di Iulio». Senza l’accurata analisi che costituisce il corpo stesso di questo capitolo, il Valentino è ridotto a un’icona, un vuoto emblema del pensiero machiavelliano, e davvero insanabile appare allora, muovendosi sul piano della pura teoria, la contraddizione fra un simbolo del principe perfetto e l’accusa di un grave errore (su questo vedi anche Introduzione, p. 19).

46 Machiavelli insiste sul potere di interdizione del Valentino. Poco prima aveva scritto efficacemente: «possé fare, se non chi e’ volle, papa, almeno ch’e’ non fussi chi e’ non voleva». Avversari certi erano Giuliano Della Rovere, cardinale di San Pietro in Vincoli, Giovanni Colonna, Raffaello Riario e Ascanio Sforza. Alleati sarebbero stati i cardinali spagnoli e George d’Amboise (cfr. cap. III, n. 36). Dopo un primo conclave conclusosi il 23 settembre 1503, da cui uscì eletto il vecchio Francesco Todeschini Piccolomini (Pio III) morto il 18 ottobre, il Collegio elesse, anche con l’appoggio dei cardinali spagnoli, Giuliano Della Rovere (Giulio II).

47 In una lettera a Vettori del 10 agosto 1513 lo stesso enunciato era inteso a rovesciare tale regola, che più tardi tornerà invariata nei Discorsi III, 4.