[1] Ma venendo all’altra parte,2 quando uno privato cittadino, non per sceleratezza o altra intollerabile violenzia, ma con il favore delli altri sua cittadini diventa principe della sua patria – il quale3 si può chiamare principato civile: né a pervenirvi è necessario o tutta virtù o tutta fortuna, ma più tosto una astuzia fortunata –4 dico che si ascende a questo principato o con il favore del populo o con quello de’ grandi.5 Perché in ogni città si truovano questi dua umori diversi: e nasce, da questo, che il populo desidera non essere comandato né oppresso da’ grandi ed e’ grandi desiderano comandare e opprimere el populo; e da questi dua appetiti diversi nasce nelle città uno de’ tre effetti: o principato o libertà o licenza.6 El principato è causato dal populo o da’ grandi, secondo che l’una o l’altra di queste parte ne ha l’occasione7: perché, vedendo e’ grandi non potere resistere al populo, cominciano a voltare la reputazione8 a uno di loro9 e fannolo principe per potere sotto la sua ombra sfogare il loro appetito; il populo ancora, vedendo non potere resistere a’ grandi, volta la reputazione a uno e lo fa principe per essere con la sua autorità difeso.
[2] Colui che viene al principato con lo aiuto de’ grandi, si mantiene con più difficultà che quello che diventa con lo aiuto del populo, perché si truova principe con di molti intorno che gli paiono essere sua equali, e per questo non gli può né comandare né maneggiare a suo modo.10 Ma colui che arriva al principato con il favore populare, vi si truova solo e ha d’intorno o nessuno o pochissimi che non sieno parati11 a ubbidire. Oltre a questo non si può con onestà satisfare a’ grandi, e sanza iniuria12 di altri, ma sì bene al populo: perché quello del populo è più onesto fine che quello de’ grandi, volendo questi opprimere e quello non essere oppresso. Praeterea,13 del populo inimico uno principe non si può mai assicurare,14 per essere troppi: de’ grandi si può assicurare, per essere pochi. Il peggio che possa aspettare uno principe, dal populo inimico, è lo essere abbandonato da lui; ma da’ grandi, inimici,15 non solo debbe temere di essere abbandonato, ma etiam che loro gli venghino contro: perché, essendo in quelli più vedere e più astuzia, avanzano sempre tempo per salvarsi e cercano gradi con chi sperano che vinca.16 È necessitato ancora el principe vivere sempre con quello medesimo populo, ma può bene fare sanza quelli medesimi grandi, potendo farne e disfarne ogni dì e tòrre e dare a sua posta reputazione loro.17
[3] E per chiarire meglio questa parte, dico come e’ grandi si debbono considerare in dua modi principalmente: o si governono in modo col procedere loro18 che si obligano in tutto alla tua fortuna, o no. Quegli che si obligano, e non sieno rapaci, si debbono onorare e amare. Quelli che non si obligano, si hanno a esaminare in dua modi: o e’ fanno questo per pusillanimità e difetto naturale d’animo – allora tu te ne debbi servire, massime di quelli che sono di buono consiglio, perché nelle prosperità te ne onori e non hai nelle avversità a temere di loro –, ma quando e’ non si obligano per arte e per cagione ambiziosa, è segno come e’ pensano più a sé che a te: e da quelli si debbe el principe guardare, e temergli come se fussino scoperti nimici, perché sempre nelle avversità aiuteranno ruinarlo.19
[4] Debbe pertanto uno, che diventi principe mediante el favore del populo, mantenerselo amico: il che gli fia facile,20 non domandando lui se non di non essere oppresso. Ma uno che, contro al populo, diventi principe con il favore de’ grandi, debbe innanzi a ogni altra cosa cercare di guadagnarsi el populo: il che gli fia facile, quando pigli la protezione sua. E perché li uomini, quando hanno bene da chi credevano aver male, si obligano più al beneficatore loro, diventa el populo subito più suo benivolo che s’e’ si fussi condotto al principato con e’ favori sua.21 E puosselo guadagnare el principe in molti modi: e’ quali perché variano secondo el subietto, non se ne può dare certa regula, e però si lasceranno indreto.22 Concluderò solo che a uno principe è necessario avere il populo amico, altrimenti non ha nelle avversità remedio. Nabide principe delli Spartani sostenne la ossidione di tutta Grecia e di uno esercito romano vittoriosissimo, e difese contro a quelli la patria sua e il suo stato; e gli bastò solo, sopravvenendo el periculo, assicurarsi di pochi: che, se gli avessi avuto el populo inimico, questo non li bastava.23
[5] E non sia alcuno che repugni a questa mia opinione con quello proverbio trito, che chi fonda in sul populo fonda in sul fango:24 perché quello è vero quando uno cittadino privato vi fa su fondamento e dassi a intendere che il populo lo liberi quando fussi oppresso da’ nimici o da’ magistrati. In questo caso si potrebbe trovare spesso ingannato, come a Roma e’ Gracchi e a Firenze messer Giorgio Scali.25 Ma essendo uno principe che vi fondi su, che possa comandare, e sia uomo di cuore né si sbigottisca nelle avversità, e non manchi delle altre preparazioni e tenga con lo animo e ordini suoi animato l’universale, mai si troverrà ingannato da lui e gli parrà avere fatti e’ suo’ fondamenti buoni.26
[6] Sogliono questi principati periclitare, quando sono per salire da lo ordine civile allo assoluto. Perché questi principi o comandano per loro medesimi o per mezzo de’ magistrati: nello ultimo caso è più debole e più periculoso lo stare loro, perché gli stanno al tutto con la volontà di quelli cittadini che a’ magistrati sono preposti; e’ quali, massime ne’ tempi avversi, gli possono tòrre con facilità grande lo stato, o con abbandonarlo o con fargli contro.27 E il principe non è a tempo ne’ periculi a pigliare la autorità assoluta, perché e’ cittadini e sudditi, che sogliono avere e’ comandamenti da’ magistrati, non sono in quelli frangenti per ubbidire a’ suoi. E arà sempre ne’ tempi dubbi penuria di chi lui si possa fidare; perché simile principe non può fondarsi sopra quello che vede ne’ tempi quieti, quando e’ cittadini hanno bisogno dello stato:28 perché allora ognun corre, ognuno promette e ciascuno vuole morire per lui, quando la morte è discosto; ma ne’ tempi avversi, quando lo stato ha bisogno de’ cittadini, allora se ne truova pochi.29 E tanto più è questa esperienza periculosa, quanto la non si può fare se non una volta: però uno principe savio debbe pensare uno modo per il quale e’ sua cittadini, sempre e in ogni qualità di tempo, abbino bisogno dello stato e di lui; e sempre di poi gli saranno fedeli.
1 Il principato civile.
2 «all’altra parte»: rispetto all’argomento discusso nel capitolo precedente, dove pure si discuteva di privati cittadini che divengono principi, ora l’autore si accinge a trattare di coloro che lo divengono «con il favore delli altri sua cittadini». Ha osservato Emanuele Cutinelli-Rendina (presso Martelli 2006) che questo è il solo capitolo in cui si parli di «principato» al singolare.
3 «il quale»: e questa forma di principato. Pronome prolettico costruito in forma di paraipotassi relativa (cfr. Dedicatoria, n. 3).
4 L’espressione «astuzia fortunata», prospettandosi come sintesi dei due elementi precedentemente considerati («virtù», cap. VI e «fortuna», cap. VII), implica che il concetto di «virtù» e quello di «astuzia» si identificano.
5 È proprio il collegamento funzionale tra questo capitolo e Discorsi I, 17-18 ad aver suggerito la ricostruzione di Federico Chabod sulla genesi del Principe, per la quale vedi qui l’Introduzione, p. 5. – «popolo»: il partito (o fazione) popolare, attento ai bisogni dei ceti meno abbienti; «grandi»: l’aristocrazia e i ceti più doviziosi. Giustamente Inglese, nel commento del 1995, rinvia ad Aristotele, Politica 1310b, seppure in senso antitetico all’opzione popolare formulata qui da Machiavelli.
6 In maniera succinta, come si conviene per argomenti a tutti noti, Machiavelli riassume, pro domo sua, la celebre teoria dell’anaciclosi, della polibiana successione ininterrotta fra le tre forme di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) e le tre correlative forme patologiche di questi regimi. Sulla conoscenza che Machiavelli avesse di tale teoria si è soffermato, in due saggi assai ricchi di documentazione testuale, Gennaro Sasso, Machiavelli e la teoria dell’“anacyclosis” e Machiavelli e Polibio, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, cit., 1987, vol. I, pp. 3-118 compresa una Postilla: i due saggi derivano, con aggiornamenti, dagli Studi su Machiavelli, Napoli, Morano, 1967. Di diverso avviso Mario Martelli, da ultimo nel volume Machiavelli e gli storici antichi, Roma, Salerno ed., 1998. In linea generale ci pare che lessico e contesto rimandino alla dottrina storiografica classica e all’aristotelismo, probabilmente fruiti attraverso sinossi scolastiche rinascimentali piuttosto che per lettura diretta: in tal senso la parola umori, per designare le due forze politiche (gramscianamente ‘classi’) che si confrontano nel ‘corpo’ dello stato, è una ripresa del tradizionale impiego di lessico medico in ambito storiografico. Sul concetto di ‘classe’ nel pensiero machiavelliano si veda Masiello 19972.
7 «occasione» qui indica una condizione di estrema necessità, la ricerca di una tutela straordinaria allorché la fazione avversa maturi un vantaggio pericoloso. – «parte» è calco semantico del latino pars, nell’accezione politica che il vocabolo assume negli scritti ciceroniani.
8 «voltare la reputazione»: innalzare nel prestigio e nella considerazione, in modo da accrescerne l’autorevolezza.
9 Si noti che i ‘grandi’ sceglieranno il princeps dalle proprie file, «uno di loro», mentre il ‘popolo’ sceglierà genericamente «uno», che potrebbe essere anche un aristocratico divenuto difensore dei diritti popolari.
10 L’autore qui esprime congiuntamente una diagnosi politica e una critica avversa al particolarismo feudale: sotto il profilo funzionale il principato di origine aristocratica vede nel principe un primus inter pares, rispetto ai quali pares non è agevole imporre una linea di comando. Inoltre gli aristocratici, rivendicando i propri privilegi, minano l’autorità dello stato come l’autore aveva già osservato nel cap. IV (vedi lì nn. 4-6).
11 «parati»: pronti e disponibili.
12 «con onestà … sanza iniuria»: sono stilemi ricavati dal lessico giuridico del Digesto; non è una valutazione etica quella machiavelliana, ma giuridica. L’onestà si identifica con l’assenza di una lesione giuridica (il neminem laedere), la mancanza di un comportamento antigiuridico (iniuria).
13 «Praeterea»: inoltre.
14 «assicurare»: mettere sotto controllo in maniera definitiva, per impedire futuri tradimenti. Cfr. cap. III, n. 28.
15 «dal populo inimico […] inimici»: qualora il popolo gli sia avverso … qualora i maggiorenti gli siano avversi.
16 Tipico dei ‘grandi’ è il «più vedere», ossia una maggiore capacità di discernimento politico, una preveggenza (che deve essere anche tratto distintivo del buon principe). Il concetto del«conoscere discosto» (cfr. cap. III, n. 23) ricalca il greco eikazein e il latino conicere: appartiene naturalmente all’ambito della dottrina storiografica tradizionale e connota la valenza ‘pedagogica’ della storia; si studia la storia per poter prevedere politicamente sulla scorta dei modelli antichi. In questo senso il più vedere comporta una maggiore astuzia e determina l’esercizio di un’azione tempestiva e spregiudicata: i ‘grandi’ agiranno in anticipo («avanzano tempo») per schierarsi dalla parte di colui che ritengono poter riuscire vincitore di una contesa politica e cercheranno di meritarsi la gratitudine di quello («cercano gradi»).
17 «e tòrre e dare a sua posta reputazione loro»: togliere e concedere loro autorità a proprio piacimento.
18 «si governono … col procedere loro»: si comportano nei loro atteggiamenti in modo da manifestare un pieno legame alle fortune del principe.
19 Coloro che «non si obligano», cioè non si legano in tutto alle fortune del principe, lo fanno per mancanza di coraggio («pusillanimità e difetto naturale d’animo»: endiadi); ovvero per dolo e malizia («per arte e per cagione ambiziosa»): questi ultimi vanno temuti come nemici dichiarati e in quanto tali vanno trattati.
20 «fia facile»: gli sarà agevole. Sintagma volutamente ripetuto per dare intensità al ragionamento.
21 Il principe asceso con l’appoggio dei ‘grandi’ è naturalmente temuto dal popolo: qualora il popolo lo riconoscerà come benevolo e giusto gli si legherà ancor più che se lo avesse apertamente sostenuto nella conquista del principato.
22 «però si lasceranno indreto»: per questa ragione se ne trascurerà la trattazione.
23 Machiavelli offre un’interpretazione in chiave politica (e più precisamente di conflitto di classe) della vicenda narrata da Livio XXXIV, 22-40. Nabide, tiranno di Sparta fra il 206 e il 192 a.C., non sconfisse i Romani, e non fu nemmeno un sovrano amato dai propri concittadini: ma in verità poté resistere abbastanza a lungo all’assedio («ossidione») perché si era guadagnato una consistente parte della popolazione attraverso una legge agraria che aveva prodotto il malcontento dei ceti possidenti. In occasione dell’assedio romano, si limitò pertanto a eliminare una ottantina di dissidenti. Ancora nel libro primo dei Discorsi, nella seconda parte del cap. 40, dedicata – dopo un ragguaglio sul decemvirato – alla riflessione politica intorno al dominio autocratico sostenuto dalla pars popularis, il Segretario fiorentino così scrive a proposito di Nabide: «Donde nasce che quegli tiranni che hanno amico l’universale e inimici i grandi, sono più sicuri, per essere la loro violenza sostenuta da maggiori forze, che quella di coloro che hanno per inimico il popolo e amica la nobiltà. Perché, con quello favore, bastono a conservarli le forze intrinseche: come bastarono a Nabide tiranno di Sparta, quando tutta Grecia e il popolo romano lo assaltò: il quale, assicuratosi di pochi nobili, avendo amico il popolo, con quello si difese, il che non arebbe potuto fare avendolo inimico» (Discorsi I, 40, 37-38). E su Nabide torna in Discorsi III, 6: «Simile a questi due esempli ancora è il modo che Etoli tennono ad ammazzare Nabide tiranno spartano; i quali mandarono Alessameno, loro cittadino, con trenta cavagli e dugento fanti a Nabide sotto colore di mandargli aiuto, e il segreto solamente comunicarono ad Alessameno, e agli altri imposono che lo ubbidissoro in ogni e qualunque cosa sotto pena di esilio. Andò costui in Sparta, e non comunicò mai la commissione sua, se non quando e’ la volle esequire: donde gli riuscì d’ammazzarlo» (Discorsi III, 6, 76-77). E poco dopo, nello stesso capitolo, si dichiara esplicitamente la fonte liviana (XXXV, 35) per l’episodio: «E che gli uomini invasino e si confondino, non lo può meglio dimostrare Tito Livio, quando discrive di Alessameno etolo (quando ei volle ammazzare Nabide spartano), di chi abbiamo di sopra parlato; che, venuto il tempo della esecuzione, scoperto che egli ebbe ai suoi quello che si aveva a fare, dice Tito Livio queste parole: Collegit et ipse animum, confusum tantae cogitatione rei» (Discorsi III, 6, 120). Su Nabide e il suo programma di riforme agrarie che gli assicurò il favore popolare, sulla sua resistenza contro l’esercito di Tito Quinzio Flaminino appoggiato da quasi tutta la Grecia nel corso della seconda guerra macedonica (200-197 a.C.) informa Livio XXXIV, 27; e in seguito ancora Livio informa sull’episodio della congiura di Alessameno. Non ne tace Sabellico, il quale raccoglie l’intera vicenda di Nabide nella V enneade, nella parte finale del liber 6 (Enneades Marci Antonii Sabellici ab orbe condito ad inclinationem Romani imperii, Venetiis, per Bernardinum et Matheum Venetos qui vulgo dicuntur ‘li Albanesoti’, 1498, ff.CCCIXv-CCCXIIr: l’opera ebbe numerose ristampe e una continuazione d’autore; fu diffusa anche col titolo di Rapsodiae historiarum ab Orbe condito Enneades, dove il vocabolo ‘rapsodia’ indica il procedimento seguito dall’autore: tagliare e ricucire sinteticamente fonti antiche). Infatti, nel sintetico arco di poche pagine, lo storico veneziano offre un ragguaglio completo sulle articolate vicende della presenza romana in Grecia, dalla guerra di Quinzio contro Sparta: «In Graecia per id tempus Quintius pace Philippo reddita, Nabidi Lacedaemoniorum tiranno bellum intulit» fino alla congiura: «dein auxilii pretextu adversus Achaeos exhibendi, Nabidi fraude interfecto, [Aetoli] Lacedaemonem occupare sunt conati».
24 Il proverbio consumato dall’uso («trito»), come avverte Inglese 1995, era attribuito, come motto, proprio a Giorgio Scali (su cui vedi la nota seguente). Si veda F. Bausi, Il sasso di Machiavelli (con altre schede sui ‘Discorsi’, sul ‘Principe’ e sull’‘Arte della guerra’), in M. de Nichilo-G. Distaso-A. Iurilli (a cura di), Confini dell’umanesimo letterario. Studi in onore di Francesco Tateo, Roma nel Rinascimento, 2003, pp. 115-126, in specie pp. 124-125.
25 Per i Gracchi, Machiavelli dipende dalla Vita plutarchea; Giorgio Scali assunse prestigio politico all’indomani del tumulto dei Ciompi (1378) e finì decapitato il 17 gennaio 1382. Nelle Istorie fiorentine, Machiavelli scriverà che lo Scali sul patibolo «dolsesi […] avendo confidato troppo in uno populo» (III, 20).
26 «uno principe che vi fondi … non manchi delle altre preparazioni … avere fatti … fondamenti buoni»: l’autore insiste sul tema del «fondare» lo stato attraverso efficaci strategie organizzative («preparazioni»: in senso politico istituzionale, economico-fiscale e diplomatico-militare). Cfr. cap. VII, n. 4 e cap. XVII, n. 15.
27 Il principe civile che governi «per mezzo de’ magistrati» è quel princeps che ha conservato una parvenza di ordinamenti repubblicani, limitandosi a esercitare il potere attraverso un’autorevolezza e un prestigio che lo pongono in condizione di preminenza rispetto alle magistrature ordinarie: è questa un’analisi assai lucida del principato augusteo a Roma. Machiavelli porta alle estreme conseguenze il proprio ragionamento equiparando nei fatti i rischi a cui tale principe è esposto, rispetto al comportamento dei propri magistrati, con quello del principe asceso al potere per volontà dei ‘grandi’. I magistrati potrebbero, «massime né tempi avversi», rovesciare tale governo abbandonando il princeps o addirittura operando contro di lui. Naturalmente, dietro la discussione de principatu civili è in questione anche il profilo del potere mediceo appena restaurato in Firenze (si veda in proposito la lettera machiavelliana alla gentildonna sconosciuta nell’autunno 1512). Per la trasversalità di questo tema nella riflessione machiavelliana cfr. Raffaele Cavalluzzi, Machiavelli per ‘rassettare’ le cose fiorentine, in una raccolta di saggi politici cinquecenteschi del medesimo studioso (in corso di stampa: si ringrazia l’autore per aver consentito l’anticipata lettura del dattiloscritto).
28 «stato» è qui lo stato-apparato, il sistema burocratico amministrativo che appresta tutele e garantisce il traffico giuridico.
29 La stessa considerazione sarà più estesamente formulata nel cap. XVII, a proposito del principe che si fondi sul solo ‘amore’ dei sudditi.